LA DIVISIONE DEI POTERI E LA SOVRANITÀ POPOLARE. GENESI ED
EVOLUZIONE DELLE COLONNE PORTANTI DELLO STATO CONTEMPORANEO
(Intervento di Pier Luigi Leoni nelle giornate di studio
interdisciplinare del Seminario del
Pensare, ideato, coordinato e diretto da Emilio G. Berrocal – Centro Studi
Città di Orvieto - 4 e 5 settembre 2015)
La gran parte degli Stati
contemporanei poggiano sulla divisione dei poteri e sulla sovranità popolare.
La divisione dei poteri è un criterio di organizzazione dello Stato elaborato
dalla scienza della politica, che garantisce l’equilibrio del cosiddetto Stato
di diritto. La sovranità popolare è un valore elaborato dalla filosofia
politica sul quale si basa la democrazia moderna. Le leggi italiane, a cominciare dalla
Costituzione, applicano i due principi con una certa originalità. Ma il nostro
ordinamento giuridico nazionale si va trasformando perché gli accordi
internazionali e la globalizzazione dell’economia richiedono decisioni
politiche sempre più rapide, incompatibili con le procedure degli organi
democratici rappresentativi, e perché la diffusione di internet fornisce intriganti prospettive di democrazia
diretta.
«La natura umana è quanto mai simile a quella dell’ape, che non
può vivere da sola, dato che, se rimane sola, muore.» Questa saggia
osservazione della filosofia stoica è utile per ricordare agli uomini il dovere
di contribuire al bene della collettività a cui appartengono. Non è invece
utile, dato che gli esseri umani non sono guidati dagli istinti iscritti nel
loro DNA, per stabilire chi deve comandare
e chi deve ubbidire in una società di esseri dotati di libero arbitrio.
La sovranità, cioè il potere più alto, quello al di sopra del quale non c’è un
altro potere, appartiene all’ape regina,
alle api operaie o all’alveare? In termini umani, la sovranità appartiene alle
persone in carne e ossa che comandano sulle altre, o ai singoli membri della
società, o a quell’astrazione che chiamiamo popolo?
Di fronte alle imperfezioni dei regimi politici e alle loro
tendenze all’involuzione e alla dissoluzione, la filosofia occidentale ha
tentato di fissare i principi etici sui quali dovrebbe basarsi la civile convivenza.
La conclamata tendenza dell’uomo a violare i principi etici, compresi quelli in
cui fermamente crede, ha indotto alcuni pensatori del Cinquecento e del
Seicento, a cominciare dal Machiavelli, a svincolare la scienza politica
dall’etica.
Nell’ambito della scienza politica, basata sull’osservazione dei
fatti, e soprattutto sull’esperienza
politica inglese, fu definita dal Montesquieu, nel Settecento, il geniale
criterio di organizzazione politica della divisione dei poteri, che ancora oggi
viene posto a garanzia della tenuta dei regimi politici moderni.
Montesquieu afferma che ogni uomo che detiene un potere tende ad
abusarne. Per impedire l’abuso del potere non c’è altra strada che arrestare il
potere col potere. Perciò, a livello statale, il potere legislativo deve esse
separato dal potere esecutivo e il potere giudiziario deve essere separato da
entrambi. Per separazione (o divisione) dei poteri deve intendersi, tradotta in
termini contemporanei, una indipendenza gerarchica di ciascun potere fondamentale
dello Stato dagli altri poteri.
Ma il filone della ricerca filosofica dei grandi principi,
nonostante Machiavelli e Montesquieu, non si è mai esaurita e, sempre nel
Settecento, è sfociata nella teoria del Rousseau che l’uomo è buono per natura
e che, a rovinarlo, ci pensa la società. Basta rendere giusta la società e
l’uomo vivrà felice.
Da tale assunto sono scaturiti sia gli ideali liberali di sovranità
popolare e di democrazia sia il marxismo e il leninismo.
Dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica e la caduta del
comunismo in Europa, quasi tutti i paesi occidentali e alcuni tra i loro
epigoni nel resto del mondo si sono attestati sul criterio di organizzazione
politica della democrazia rappresentativa, che si richiama all’ideale della sovranità
popolare, e sulla formula organizzativa della divisione dei poteri, che si
richiama al pragmatismo del Montesquieu.
L’ideale della sovranità popolare, suona come una bestemmia per i
credenti di ogni fede, per i quali la sovranità appartiene a Dio. Coerentemente
il cattolico Giorgio La Pira cercò di far inserire nella Costituzione un
riferimento a Dio, analogo a quello collocato all’inizio della Dichiarazione
d’Indipendenza degli Stati Uniti del 4 luglio 1776. Ma, nonostante la
maggioranza degli Italiani fossero allora credenti, i membri dell’assemblea
costituente erano in maggioranza miscredenti e la proposta non passò.
In ogni modo, la sovranità popolare fu utile ai nostri costituenti
per trarne una riformulazione piuttosto singolare che mise d’accordo marxisti,
cattolici e liberali.
La sovranità popolare è applicata dalla nostra costituzione in
funzione del contenimento dell’esercizio della sovranità da parte dello stato
nazionale.
La diffidenza nei confronti dello Stato nazionale era spiegabile
col fatto che lo Stato, in meno di un secolo di vita, si era impegolato in due
guerre mondiali, con le relative carneficine, in varie guerre coloniali a saldo
finale disastroso, passando da governi oligarchici a governi autoritari e a una
dittatura con spiccate velleità totalitarie, mentre il divario tra nord e sud
era aumentato e l’Italia unita era approdata, invece che alla potenza e allo
sviluppo, al disprezzo della comunità internazionale.
La Costituzione è quindi improntata a un pluralismo sia
istituzionale (articolo 114 prima della riforma del 2001: “La Repubblica si riparte
in Regioni, Province e Comuni.”) sia sociale (articolo 2: “La Repubblica garantisce e
riconosce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle
formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento
dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale.”).
La riforma costituzionale del 2001 ha confermato e
rafforzato il pluralismo istituzionale riformulando l’articolo 114 (“La Repubblica è costituita
dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo
Stato”) e introducendo nell’articolo 118 il principio della sussidiarietà
verticale. E ha pure rafforzato il pluralismo sociale introducendo, sempre
nell’articolo 118, il principio della solidarietà orizzontale.
Questo singolare e tenace pluralismo è stato di fatto osteggiato, e
continua a essere sabotato, dal legislatore ordinario, per il timore sempre
latente della dissoluzione dello Stato. Ma vive una nuova stagione grazie al
consolidamento della democrazia e al trasferimento di forti elementi di
sovranità al livello sopranazionale dell’Unione Europea: una rinuncia che, allo
stato attuale dello sviluppo economico e della mondializzazione dei mercati,
appare irreversibile.
Ma il tarlo della fondamentale bontà dell’uomo e della conseguente
perfettibilità della società, inserito da Rousseau nella mentalità occidentale,
torna e a rodere, soprattutto in Italia, in questo periodo di crisi etica ed
economica e di declino dello stato nazionale.
Ci si ricorda che la sovranità appartiene al popolo perché solo il
popolo è buono e che la democrazia rappresentativa porta al disfacimento dello
Stato perché, tra una elezione e l’altra, tende all’autoreferenzialità. Né lo
strumento di democrazia diretta previsto dalla costituzione, il referendum, che
ha fatto la fortuna dell’ala radicale dello schieramento politico, è più
considerato sufficiente. All’obiezione classica dei costituzionalisti che la
democrazia diretta (vale a dire il popolo seduto in assemblea permanente) è
possibile solo in piccolissime comunità, si obietta che il dilagante uso di
internet consente finalmente di tirar fuori la democrazia diretta dal mondo
dell’utopia e di mettere in pratica l’intuizione di Rousseau.
La rete è lo strumento che consentirebbe di far rivivere l’agorà,
la piazza principale di Atene, dove tutti si occupano di politica, discutono e
decidono. Magari dimenticando che gli ateniesi dell’agorà erano i pochi
nullafacenti che possedevano schiavi che lavoravano al posto loro; e
dimenticando pure che non tutti i nullafacenti ateniesi avevano voglia o
capacità di passare il tempo in piazza a fare politica.
Alcuni passi di un saggio di Ubaldo Villani-Lubelli sembrano utili
per rendersi conto delle opinioni che circolano in tema di trasformazione della
democrazia per mezzo di internet.
La rete allarga i confini
della partecipazione politica. Non è solo la politica a cambiare, ma la stessa
democrazia rappresentativa che si sta trasformando.
Diventa giusto chiedersi se
la tecnologia dell’informazione – rendendo tecnicamente possibile una
associazione più immediata dei cittadini alle fasi della proposta, della
decisione e del controllo – possa aiutarci a inventare la democrazia del XXI
secolo.
Le difficoltà, evidentemente,
sono tante. Ma se riflettiamo sul fatto che potremmo elevare la nostra libertà
di azione politica e personale tramite una maggiore partecipazione con la rete,
abbiamo la possibilità di tornare allo spirito originario del concetto stesso
di democrazia. Dipende solo da noi.
Come si può facilmente constatare, Rousseau sta colpendo ancora e
il mito della sovranità popolare sta creando una nuova utopia.
Per fortuna c’è Montesquieu a ricordarci che ogni uomo che detiene
un potere tende ad abusarne e che per impedire l’abuso del potere non c’è altra
strada che arrestare il potere col potere.
Chi arresterà il potere degli smanettoni del web? Chi ci difenderà dalla
loro abilità nel gestire gli strumenti informatici?