Ciò che maledettamente non entra nel cranio
degli economisti è che i popoli non sono tutti uguali, come non sono uguali gli
individui. Come ogni persona reagisce col proprio temperamento all’influenza
dell’ambiente, così ogni popolo reagisce in modo diverso alle dottrine e alle
prassi economiche che via via entrano in circolazione. Se andavate a dire a un
contadino comunista che il PCI, in caso di vittoria, avrebbe imposto i kolchoz, vi saresti sentiti rispondere che non eravamo in
Russia e che il marxismo italiano avrebbe tolto la proprietà della terra ai
padroni per darla ai contadini. Grosso modo, quello che hanno fatto i
democristiani. Quindi non è mai troppo tardi per prendere atto della
riflessione economica del tutto originale della cultura italiana, che maturò
nel secolo XVIII (Antonio
Genovesi, Gaetano
Filangieri e
altri) e che, senza negare l’importanza
fondamentale dello Stato e dell’economia for profit, assegna all’economia no profit il
compito di umanizzare anche gli altri settori. Non era forse italiano quel
genio visionario di Adriano Olivetti, che, valorizzando l’essenza comunitaria
dell’azienda capitalistica, ottenne risultati così sbalorditivi da costringere
gli americani a intervenire per stroncarlo? Se gli americani non ci avessero
messo le mani, l’Italia dominerebbe oggi il mondo dell’informatica. E, se
guardiamo alla nostra piccola Orvieto, che fine farebbero i servizi sociali e
assistenziali se sparissero le cooperative? Di esse si rimarcano le difficoltà
gestionali e gli ambigui rapporti con la politica, ma si dimentica che sono
sempre più indispensabili.
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