lunedì 7 settembre 2015

Chi ci difenderà dagli smanettoni del web?

LA DIVISIONE DEI POTERI E LA SOVRANITÀ POPOLARE. GENESI ED EVOLUZIONE DELLE COLONNE PORTANTI DELLO STATO CONTEMPORANEO

(Intervento di Pier Luigi Leoni nelle giornate di studio interdisciplinare  del Seminario del Pensare, ideato, coordinato e diretto da Emilio G. Berrocal – Centro Studi Città di Orvieto - 4 e 5 settembre 2015)

La gran parte degli Stati contemporanei poggiano sulla divisione dei poteri e sulla sovranità popolare. La divisione dei poteri è un criterio di organizzazione dello Stato elaborato dalla scienza della politica, che garantisce l’equilibrio del cosiddetto Stato di diritto. La sovranità popolare è un valore elaborato dalla filosofia politica sul quale si basa la democrazia moderna.  Le leggi italiane, a cominciare dalla Costituzione, applicano i due principi con una certa originalità. Ma il nostro ordinamento giuridico nazionale si va trasformando perché gli accordi internazionali e la globalizzazione dell’economia richiedono decisioni politiche sempre più rapide, incompatibili con le procedure degli organi democratici rappresentativi, e perché la diffusione di internet  fornisce intriganti prospettive di democrazia diretta.

«La natura umana è quanto mai simile a quella dell’ape, che non può vivere da sola, dato che, se rimane sola, muore.» Questa saggia osservazione della filosofia stoica è utile per ricordare agli uomini il dovere di contribuire al bene della collettività a cui appartengono. Non è invece utile, dato che gli esseri umani non sono guidati dagli istinti iscritti nel loro DNA, per stabilire chi deve comandare  e chi deve ubbidire in una società di esseri dotati di libero arbitrio. La sovranità, cioè il potere più alto, quello al di sopra del quale non c’è un altro potere,  appartiene all’ape regina, alle api operaie o all’alveare? In termini umani, la sovranità appartiene alle persone in carne e ossa che comandano sulle altre, o ai singoli membri della società, o a quell’astrazione che chiamiamo popolo? 
Di fronte alle imperfezioni dei regimi politici e alle loro tendenze all’involuzione e alla dissoluzione, la filosofia occidentale ha tentato di fissare i principi etici sui quali dovrebbe basarsi la civile convivenza. La conclamata tendenza dell’uomo a violare i principi etici, compresi quelli in cui fermamente crede, ha indotto alcuni pensatori del Cinquecento e del Seicento, a cominciare dal Machiavelli, a svincolare la scienza politica dall’etica.
Nell’ambito della scienza politica, basata sull’osservazione dei fatti, e soprattutto sull’esperienza  politica inglese, fu definita dal Montesquieu, nel Settecento, il geniale criterio di organizzazione politica della divisione dei poteri, che ancora oggi viene posto a garanzia della tenuta dei regimi politici moderni.
Montesquieu afferma che ogni uomo che detiene un potere tende ad abusarne. Per impedire l’abuso del potere non c’è altra strada che arrestare il potere col potere. Perciò, a livello statale, il potere legislativo deve esse separato dal potere esecutivo e il potere giudiziario deve essere separato da entrambi. Per separazione (o divisione) dei poteri deve intendersi, tradotta in termini contemporanei, una indipendenza gerarchica di ciascun potere fondamentale dello Stato dagli altri poteri.
Ma il filone della ricerca filosofica dei grandi principi, nonostante Machiavelli e Montesquieu,  non si è mai esaurita e, sempre nel Settecento, è sfociata nella teoria del Rousseau che l’uomo è buono per natura e che, a rovinarlo, ci pensa la società. Basta rendere giusta la società e l’uomo vivrà felice.
Da tale assunto sono scaturiti sia gli ideali liberali di sovranità popolare e di democrazia sia il marxismo e il leninismo.
Dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica e la caduta del comunismo in Europa, quasi tutti i paesi occidentali e alcuni tra i loro epigoni nel resto del mondo si sono attestati sul criterio di organizzazione politica della democrazia rappresentativa, che si richiama all’ideale della sovranità popolare, e sulla formula organizzativa della divisione dei poteri, che si richiama al pragmatismo del Montesquieu.
L’ideale della sovranità popolare, suona come una bestemmia per i credenti di ogni fede, per i quali la sovranità appartiene a Dio. Coerentemente il cattolico Giorgio La Pira cercò di far inserire nella Costituzione un riferimento a Dio, analogo a quello collocato all’inizio della Dichiarazione d’Indipendenza degli Stati Uniti del 4 luglio 1776. Ma, nonostante la maggioranza degli Italiani fossero allora credenti, i membri dell’assemblea costituente erano in maggioranza miscredenti e la proposta non passò.
In ogni modo, la sovranità popolare fu utile ai nostri costituenti per trarne una riformulazione piuttosto singolare che mise d’accordo marxisti, cattolici e liberali.
La sovranità popolare è applicata dalla nostra costituzione in funzione del contenimento dell’esercizio della sovranità da parte dello stato nazionale.
La diffidenza nei confronti dello Stato nazionale era spiegabile col fatto che lo Stato, in meno di un secolo di vita, si era impegolato in due guerre mondiali, con le relative carneficine, in varie guerre coloniali a saldo finale disastroso, passando da governi oligarchici a governi autoritari e a una dittatura con spiccate velleità totalitarie, mentre il divario tra nord e sud era aumentato e l’Italia unita era approdata, invece che alla potenza e allo sviluppo, al disprezzo della comunità internazionale.
La Costituzione è quindi improntata a un pluralismo sia istituzionale (articolo 114 prima della riforma del 2001: “La Repubblica si riparte in Regioni, Province e Comuni.”) sia sociale (articolo 2: “La Repubblica garantisce e riconosce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale.”).
La riforma costituzionale del 2001 ha confermato e rafforzato il pluralismo istituzionale riformulando l’articolo 114 (“La Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato”) e introducendo nell’articolo 118 il principio della sussidiarietà verticale. E ha pure rafforzato il pluralismo sociale introducendo, sempre nell’articolo 118, il principio della solidarietà orizzontale.
Questo singolare e tenace pluralismo è stato di fatto osteggiato, e continua a essere sabotato, dal legislatore ordinario, per il timore sempre latente della dissoluzione dello Stato. Ma vive una nuova stagione grazie al consolidamento della democrazia e al trasferimento di forti elementi di sovranità al livello sopranazionale dell’Unione Europea: una rinuncia che, allo stato attuale dello sviluppo economico e della mondializzazione dei mercati, appare irreversibile.
Ma il tarlo della fondamentale bontà dell’uomo e della conseguente perfettibilità della società, inserito da Rousseau nella mentalità occidentale, torna e a rodere, soprattutto in Italia, in questo periodo di crisi etica ed economica e di declino dello stato nazionale.
Ci si ricorda che la sovranità appartiene al popolo perché solo il popolo è buono e che la democrazia rappresentativa porta al disfacimento dello Stato perché, tra una elezione e l’altra, tende all’autoreferenzialità. Né lo strumento di democrazia diretta previsto dalla costituzione, il referendum, che ha fatto la fortuna dell’ala radicale dello schieramento politico, è più considerato sufficiente. All’obiezione classica dei costituzionalisti che la democrazia diretta (vale a dire il popolo seduto in assemblea permanente) è possibile solo in piccolissime comunità, si obietta che il dilagante uso di internet consente finalmente di tirar fuori la democrazia diretta dal mondo dell’utopia e di mettere in pratica l’intuizione di Rousseau.
La rete è lo strumento che consentirebbe di far rivivere l’agorà, la piazza principale di Atene, dove tutti si occupano di politica, discutono e decidono. Magari dimenticando che gli ateniesi dell’agorà erano i pochi nullafacenti che possedevano schiavi che lavoravano al posto loro; e dimenticando pure che non tutti i nullafacenti ateniesi avevano voglia o capacità di passare il tempo in piazza a fare politica.
Alcuni passi di un saggio di Ubaldo Villani-Lubelli sembrano utili per rendersi conto delle opinioni che circolano in tema di trasformazione della democrazia per mezzo di internet.
La rete allarga i confini della partecipazione politica. Non è solo la politica a cambiare, ma la stessa democrazia rappresentativa che si sta trasformando.
Diventa giusto chiedersi se la tecnologia dell’informazione – rendendo tecnicamente possibile una associazione più immediata dei cittadini alle fasi della proposta, della decisione e del controllo – possa aiutarci a inventare la democrazia del XXI secolo.
Le difficoltà, evidentemente, sono tante. Ma se riflettiamo sul fatto che potremmo elevare la nostra libertà di azione politica e personale tramite una maggiore partecipazione con la rete, abbiamo la possibilità di tornare allo spirito originario del concetto stesso di democrazia. Dipende solo da noi.
Come si può facilmente constatare, Rousseau sta colpendo ancora e il mito della sovranità popolare sta creando una nuova utopia.
Per fortuna c’è Montesquieu a ricordarci che ogni uomo che detiene un potere tende ad abusarne e che per impedire l’abuso del potere non c’è altra strada che arrestare il potere col potere.

Chi arresterà il potere degli smanettoni del web? Chi ci difenderà dalla loro abilità nel gestire gli strumenti informatici? 

Nessun commento: