UN AMORE DI BADANTE
Una graziosa badante fa innamorare il
nipote della sua assistita, poi gli riserva una grossa sorpresa.
arlo ha
varcato la soglia della trentina
inquietante, torbida d’istinti moribondi, come la stigmatizzò Guido Gozzano;
ma è sereno. Da qualche tempo ha rotto il lungo fidanzamento con Claudia. Lei
gli ha detto, con sincerità: «Non capisco perché stiamo ancora insieme». E lui
le ha risposto, con altrettanta sincerità: «Nemmeno io.»
Adesso
Carlo respira l’aria frizzante della libertà, in uno stato di rilassamento
della mente e dei sensi; sebbene consapevole che affiorerà, prima o poi, la
paura della solitudine.
Intanto
la nonna s’è ammalata e non è più in grado di vivere sola nella sua casa.
«Carlo,
non dovete preoccuparvi per me. Ho assunto una badante. Se vieni a trovarmi te
la presento.» La telefonata della nonna incuriosisce il giovane, che dopo
qualche ora, benché abbia la chiave, suona alla porta del ben noto
appartamento.
Viene
ad aprire una giovane donna in tuta lilla e scarpe da tennis, che lo invita a
entrare con un: «Priego, si accuomodi.»
«Sono
Carlo, il nipote della signora Evelina... piacere.»
«Piaciere… Svetlana.»
La
nonna non vedeva l’ora di raccontare al nipote della badante appena assunta: «È
bielorussa, ha trentotto anni… L’ho già messa in regola... Me l’ha raccomandata
l’infermiera che viene per le punture. Parla poco l’italiano, ma capisce quasi
tutto… E poi è una bella donna… hai notato?»
«Certo
che ho notato.»
E
mentre la nonna racconta i suoi acciacchi, Carlo guarda in tralice Svetlana che
si muove con agilità e con premura.
«Attienta nuonna!» esclama la bielorussa,
essendosi accorta che la vecchia signora rischia di rovesciarsi addosso
l’infuso d’orzo.
Carlo
nota che la badante è molto giovanile e i capelli biondi raccolti a coda di
cavallo ne mettono in risalto il bel collo e le orecchie ben proporzionate.
Svetlana mostra di accorgersi di essere osservata e abbassa i begli occhi
azzurri… un po’ pudicamente e un po’ vezzosamente.
Da
quel giorno le visite alla nonna diventano quotidiane e Carlo non manca mai di
dedicare qualche minuto anche alla badante, con la scusa d’interessarsi delle
sue peripezie per raggiungere l’Italia e
trovarvi lavoro... Anche se la bielorussa trova difficoltà ad esprimersi in
italiano e, quando prova a rispondere in inglese, è Carlo a trovarsi in
difficoltà.
La
nonna si rende perfettamente conto delle attenzioni di Carlo alla badante, ma
evita di fare illazioni, per non sciupare quell’incentivo alle gradite visite
del nipote.
Finché,
un bel giorno, nell’accompagnare Carlo alla porta, Svetlana si offre di fargli
compagnia fino al portone.
Appena
si chiude la porta dell’ascensore, la badante abbraccia Carlo e gli stampa un
caldo bacio sulla bocca, poi gli sussurra: «Ti amo tanto!»
«Ti
amo e ti desidero» risponde Carlo.
«Dove?...
Quando?» interroga la donna.
Il
primo giorno di riposo della badante, la coppia si ritrova in una stanza
d’albergo. Entrambi nudi sotto le coperte, animati dal fuoco dell’innamoramento, dediti
ai pochi preliminari richiesti
dal lungo digiuno sessuale.
Ma
la donna, improvvisamente, si ritrae, si mette seduta a ridosso del cuscino, si
tira il lenzuolo fino a coprirsi il petto e, con accento campano-veneto, dice
tutto ciò che ha da dire: «Adesso, bello mio, devi sapere la verità… tutta la
verità… Non sono bielorussa, non mi chiamo Svetlana e non ho trentotto anni. Ma
sono di Latina, mi chiamo Donatella e ho ventisette anni. Il passaporto e il
permesso di soggiorno li ho comprati da una disgraziata che aveva un altro
passaporto e doveva rientrare in patria. Ho pensato che, passando per
straniera, avrei trovato facilmente vitto, alloggio e stipendio… e che nessuno
avrebbe indagato sulla mia famiglia. Con una madre ammazzata dal marito e un
padre in galera non avrei avuto molte possibilità.»
Carlo
cerca di rimettere in ordine la sua mente e il suo corpo, entrambi storditi da
quella gragnola di pugni. Ma sia il software
che l’hardware non rispondono.
Deve
intervenire nuovamente la donna: «Adesso, bello mio, vediamo se Donatella è in
grado di portare a buon fine quel che Svetlana ha preparato... Se sono riuscita
a farti innamorare una volta, perché non dovrei riuscirci la seconda?... Del
resto sono sempre la stessa persona.»
Poi
Donatella comincia ad armeggiare per
risvegliare la virilità di Carlo e, appena verifica di esserci riuscita,
conclude dantescamente: «Poscia, più che
’l dolor, poté il digiuno.»
LA NEVICATA
DELL’85
Francesca e
Stefano rimangono soli in casa durante la storica nevicata. Una situazione
ideale per lo scatenamento dell’eros.
adi fiocchi di neve, timidamente, esplorano il
terreno. Giovanni teme il ritorno dell’inverno, quello vero, che nel 1985 gli
segnò il cuore con una piaga indelebile.
I genitori di Francesca erano in settimana
bianca; la giovane aveva organizzato una festicciola con i più affiatati
compagni di liceo: una decina, tra
ragazzi e ragazze, tutti matricole
universitarie di belle speranze, tranne Stefano. Questi aveva acciuffato per un
pelo la maturità e lo stress dello studio forzato e degli esami gli aveva
annientato ogni capacità di proseguire negli studi. Diceva che si sarebbe
imbarcato su un mercantile e avrebbe girato il mondo alla ricerca di se stesso.
L’insinuazione beffarda dei compagni che, per quanti sforzi avesse fatto, non
avrebbe trovato niente, non sembrava scuoterlo. Inutile dire che l’ostinazione
di Stefano affascinava le ragazze. Soprattutto quando inventava itinerari
internazionali, citando Paesi di cui sapevano poco e città che non avevano mai
sentito nominare. Ovviamente, se le ragazze erano attratte da Stefano, i
ragazzi ne erano irritati, ma non tanto da escluderlo dalla compagnia. Del
resto ciascuno di loro s’immaginava già principe del foro, o chirurgo di
successo, o ricco commercialista… e quel pazzerello di Stefano faceva un po’ di
tenerezza.
Quando fu finita la pizza e si passò ai salumi
e ai formaggi, il vino aveva già cominciato a scaldare l’atmosfera, e il
conseguente ottimismo fece sottovalutare l’intensità della nevicata che stava
cominciando. Ma uno di loro era più lucido e più guardingo.
«Me ne torno a casa» disse a un certo punto
Stefano, «questa nevicata non mi piace, se continua per un’altra mezz’ora si
blocca la città. Vi consiglio di smammare anche voi.»
«Tu saresti colui che vorrebbe affrontare i
mari in tempesta!» lo provocò Valerio, il più loquace della compagnia.
«Ce l’avete con lui perché non è un piccolo
borghese ambizioso come noi. La sua non è pavidità, ma saggezza di chi si
appresta ad affrontare il mondo senza intisichirsi su mucchi di libri; senza
disseccarsi in studi che dovrebbero garantire la perpetuazione del nostro
benessere di topi che hanno paura di abbandonare la dispensa» disse Simonetta,
la più intellettuale del gruppo, cercando una sintesi tra concetti
socio-psicologici e pulsioni senti-mentali.
Stefano mantenne quell’atteggiamento di
sicurezza che tanto piaceva alle donne. Salutò con bacetti discreti le compagne
e con strette di mano i compagni, s’incappottò e si diresse verso l’uscita
consigliando, con estrema concisione: «Smammate!»
La nevicata continuava minacciosa e tutti
seguirono il consiglio di Stefano.
Tutti, tranne uno: Giovanni.
«Anche i miei sono in settimana bianca.
Nessuno mi aspetta. Posso fermarmi?»
«Certo…
la nevicata, prima o poi, finirà; e, comunque vada, ci sono in casa vari
letti per dormire.»
Giovanni colse nelle parole di Francesca un
tentativo, forse subliminale, di seduzione… sufficiente per infiammare la sua
giovanile vitalità. L’immaginazione del giovane vide rifulgere di seducente
femminilità quell’amica carina, ma fredda e distaccata, che sembrava portare
scritto in fronte non ci provare, perché
perderesti tempo.
A Giovanni sembrò doveroso, anzi inevitabile,
intraprendere un garbato corteggiamento.
«Francesca, a me fa molto piacere farti
compagnia, ma, se ti senti in imbarazzo, non farti scrupoli… non ho paura di
affrontare la neve.»
«Ti prego, resta. Non ti mangio mica. Vieni a
sederti con me sul divano, stiamo vicini e godiamoci questa strana neve
incessante che sta coprendo ogni cosa e silenziando la città.»
Il giovane si sedette accanto a Francesca, non
tanto vicino da toccarla, ma nemmeno tanto lontano da non essere raggiunto da
un micidiale impasto: l’odore di una colonia di gran marca con quello di
un corpo accaldato di giovane donna.
«Giovanni, avvicìnati, passami un braccio intorno
alle spalle; vieni, stiamo un po’ guancia a guancia.»
Giovanni eseguì con crescente turbamento e
azzardò un bacio sulla guancia della ragazza.
Con uno scatto improvviso, Francesca saltò a
cavalcioni su Giovanni, gli afferrò la nuca, pretese di essere baciata sulla
bocca con energia e innescò un’azione che, nonostante il diaframma degli
indumenti, spossò entrambi in pochi minuti.
Mentre i due giovani, strettamente
abbracciati, cercavano di mettere ordine nei rispettivi stati d’animo, squillò
il telefono. Francesca si sciolse dall’abbraccio e andò a rispondere nell’altra
stanza.
Il silenzio reso profondo dalla neve, l’udito perfetto
di Giovanni e l’imprudenza (?) di Francesca consentirono al giovane di captare
le seguenti parole: «Stefano, stai tranquillo, sai che amo solo te e desidero
solo te… Adesso ti saluto.. ciao, ciao, ciao.»
ANA CLARA
Un funzionario comunale, trascurato dalla
moglie, trova il modo di superare lo sconforto.
ino
Serranti, dottore in scienze politiche, è un funzionario del Comune di Roma
che, alla soglia dei cinquant’anni, sta attraversando un periodo difficile.
La
moglie Tiziana, da quando è diventata nonna, trascorre lunghi periodi a Milano,
dove risiede la figlia. I periodi di lontananza si sono fatti sempre più lunghi
e, nei brevi rientri a Roma, Tiziana si mostra sempre più fredda col marito.
Dino
ha cercato di parlare alla moglie del proprio disagio per la piega che ha preso
il loro matrimonio, ma ha ricevuto una dura risposta: «Méttiti in testa che Valeria mi preme più di
te. Sono ancora giovane e posso aiutarla
a tirare su il bambino senza che sia costretta a sacrificare la sua professione.
Non le peso finanziariamente, come non ho mai pesato su di te, perché, grazie
all’esodo dalle Poste, ho la mia pensione.»
Dino
si è chiuso, più che nel rancore, nel senso d’inutilità della propria vita. È
così che, quando la sua solitudine (in tutti sensi) comincia a pesargli, decide di provvedere, a
cominciare dal cercare un aiuto per le faccende domestiche. Infatti questo
impegno l’opprime più del letto vuoto e delle serate in solitudine davanti al
televisore.
Oliviero,
il barista del locale che frequenta da anni, è l’uomo più adatto per dargli un aiuto nel cercare una
domestica affidabile.
Oliviero
non lo delude e, il giorno dopo, gli prospetta la soluzione.
«Lei
è razzista dotto’?»
«No,
assolutamente no!»
«Allora
ho trovato quella che fa per lei. È una donna capoverdiana sulla trentina, di
pelle scura… insomma è una mulatta. Deve lasciare il lavoro attuale presso una
famiglia perché non la vogliono mettere in regola con la nuova legge. Se lei è
disposto a regolarizzarla è tutta sua.»
«Ma
è una persona affidabile?»
«Tutta
casa e chiesa. Certo, provenendo dai tropici, ha un comportamento un po’
flemmatico, cioè fa il proprio dovere senza agitarsi.»
«Mi
ci faccia parlare. Grazie!... Per ora.»
Ana
Clara è proprio scura. Seduta su una poltrona
del salotto, espone le proprie condizioni a Dino.
«Vorrei
essere regolarizzata per avere il permesso di soggiorno. Chiedo vitto e
alloggio e orario e paga sindacale. So fare tutte le normali faccende
domestiche.»
«Per
me va bene. Adesso mi dica qualcosa della sua vita.»
«Cioè?»
«Mi
dica dove è nata e cresciuta e come è arrivata a Roma. Mi parli della sua
famiglia.»
«Sono
nata e cresciuta a Tarrafal de São Nicolau, nello stato di Capo
Verde. Sono di religione cattolica. Mi hanno trovato un posto a Roma i francescani
che hanno una missione nella mia città. Sono arrivata con un visto turistico e,
quando è scaduto, sono entrata in clande-stinità. Ho due figli che vivono a
Capo Verde, a casa di mio padre, insieme ad altre tre sorelle che hanno due
figli ciascuna. Non ho un marito. Ma non
mi consideri una donna leggera, perché a Capo Verde le ragazze mettono al mondo
dei figli per il piacere di essere madri e, se il fidanzato non le sposa o il
marito si dilegua, i nonni materni sono felici di tenere figlie e nipoti nelle
loro case.»
Sei
mesi dopo, Tiziana entra nella casa di Roma per fare una cernita di documenti,
abiti e oggetti da portare a Milano per il proprio trasferimento definitivo. La
casa è vuota, ma si accorge che c’è qualcosa di strano. Indumenti femminili che
non sono i suoi, indumenti di bambini e
fotografie di gente di colore incorniciate e sparse un po’ dappertutto. Si
distende nel divano del salotto per evitare uno svenimento e, quando riapre gli
occhi, si trova davanti, poggiata sul tavolino,
una grande cornice d’argento che contiene una foto illuminante. Suo
marito tiene sulle ginocchia un bambino e una bambina di colore e ha la
mano destra poggiata sul ventre di una donna di colore in evidente stato di
gravidanza. Dino e la donna si guardano e si sorridono.
Tiziana
raccoglie in fretta le poche cose che le appartengono, le stipa nel trolley e se la svigna.
A
Milano l’attende l’uomo che le ha preso il cuore. Dino e i suoi mulatti non
avranno fastidi.
GITA A BELGRADO
Una moglie maltrattata dal marito trova
conforto durante una gita a Belgrado.
ono le
sei del mattino. Teodoro Pavan, provvisto della sua nuova borsa da viaggio, si
ferma davanti al passaggio pedonale che
immette in piazza dell’Unità d’Italia, nel lato dove prospetta il Palazzo della Regione Friuli-Venezia Giulia.
«Anche
voi state aspettando il pullman della gita a Belgrado?» chiede Teodoro a una
coppia che sta lì in piedi, affiancata
da due trolley.
«Sì,
l’appuntamento è proprio qui» risponde l’uomo.
«La
ringrazio, non ero sicuro del posto esatto dove si ferma il pullman per
raccogliere noi di Trieste.»
«Noi
siamo Marisa e Arnaldo Carniel, e lei?» interviene la donna.
«Mi
chiamo Teodoro Pavan.»
«È
solo?» s’informa la signora Marisa, mentre la faccia di Arnaldo Carniel esprime
disapprovazione per la curiosità della moglie.
«Sì,
sono solo.»
«È celibe?» incalza la signora Marisa mentre il
marito dà segni evidenti d’insofferenza.
«Sì,
vivo da solo e sono abituato a viaggiare da solo.»
La
conversazione s’interrompe perché sta fermandosi il pullman carico di udinesi
assonnati.
L’accompagnatrice
turistica invita Teodoro a prendere posto: «Lei è fortunato, signor Pavan, ha a disposizione due posti.»
«Questa
volta l’essere celibe mi avvantaggia.»
«Dica
piuttosto che non si è svegliata una bella ragazza di Udine che avrebbe dovuto
sedere accanto a lei.»
«La
chiama fortuna, questa?»
«Quando
avrà finito di conversare, signorina, ci
dica dove dobbiamo sederci» interviene seccato Arnaldo Carniel.
«Chiedo
scusa, i vostri posti sono sull’altro lato… tre file più indietro.»
«Proprio
sulle ruote posteriori» si lamenta il signor Arnaldo, disapprovato dalla moglie
con una leggera gomitata.
“Non
mi sembrano due coniugi affiatati” pensa Teodoro Pavan. “Devono avere
all’incirca la mia età, tra i quaranta e
i cinquanta. Lei è piuttosto sveglia e attraente. Lui è scostante… e piuttosto
brutto. Non per la calvizie (anch’io sono calvo e non mi considero brutto), ma
perché la nasconde con un parrucchino scuro. Le rughe precoci, in particolare
quelle intorno alla bocca, rivelano un temperamento bilioso… Ma la signora non è niente male… e lui non può non soffrirne.”
Teodoro,
mentre gli udinesi sonnecchiano, cerca di concentrarsi nella lettura del Mangialibri di Klaas Huinzing, ma la sua attenzione è
attirata dai coniugi Carniel, che bisticciano continuamente, anche se a voce
bassa, appena percettibile da dove siede
Teodoro.
Dopo
un quarto d’ora di discussione a bassa voce, Marisa Carniel si alza di scatto e
va sedersi accanto a Teodoro.
«La
disturbo se mi siedo qui?»
«S’accomodi
pure.»
«Lei
si domanderà che mi sta succedendo.»
«Questo
è ovvio, ma non è tenuta a darmi
spiegazioni.»
«Mio
marito s’irrita ogni volta che mi vede serena e felice. Adesso sta facendo del
tutto per rovinarmi questa gita.»
«Ci
vuole pazienza. Il rapporto di coppia ha alti e bassi.»
«Io
la pazienza l’ho esaurita.»
«Mi
dispiace… Adesso si rilassi.»
Marisa
tira indietro lo schienale della poltrona e assume un postura di elegante
abbandono, che il viso ormai sorridente rende leggermente voluttuosa.
La
conversazione dura un paio d’ore, senza che Arnaldo Carniel venga a
reclamare la consorte. E quando il
pullman fa sosta per la prima colazione nel bar di una stazione di servizio,
Teodoro e Marisa sanno molte cose l’uno dell’altra e possono considerarsi
amici. Ma nel bar i due si tengono a distanza per un tacito accordo di non
provocare ulteriormente il signor Arnaldo. Anzi, Marisa si avvicina al marito e
gli dice qualcosa che fa il suo effetto, perché, quando risalgono sul pullman, tornano
a sedersi vicini.
Durante
il veloce pranzo in un self service, i due coniugi stanno insieme e Teodoro si
sforza di non guardarli, ma quel che vede gli basta per notare che si parlano
poco e con freddezza.
Nel
primo pomeriggio il pullman scarica i passeggeri alle terme di Baja Rusanda, in
Voivodina, dove è prevista una lunga sosta per usufruire dei servizi termali.
Teodoro sceglie la piscina e, quando vede arrivare Marisa in costume da bagno,
ricorda, dopo un leggero e piacevole shock, che l’amica gli aveva detto della
preferenza del marito per i fanghi. E Teodoro le aveva detto della propria
preferenza per la piscina.
«Complimenti,
hai proprio un bel fisico!»
«Grazie,
ma non sono dell’umore giusto per apprezzare i complimenti… Mio marito mi sta
esasperando… Se potessi tornerei indietro.»
Ma
la signora Marisa non sembra troppo esasperata quando si muove abilmente
nell’acqua e richiama l’attenzione di Teodoro: «Guarda un po’ che sa fare una
professoressa di educazione fisica.»
La
sera, dopo la cena nell’Hotel Centar di Novi Sad, che Marisa consuma a fianco
del marito, sempre più indispettito, i gitanti si ritirano nella loro camere.
Teodoro
si fa una doccia e si distende sul letto con in mano il Mangialibri e nella mente una segreta speranza.
Marisa
bussa e chiede di entrare. Indossa l’accappatoio bianco dell’albergo: «Mio
marito mi ha fatto una scenata e se n’è andato a fare una passeggiata notturna
per smaltire la rabbia. Ma credo che si fermerà al bar qui sotto fino a quando non dovrò andare a recuperarlo
ubriaco.»
Ciò
detto, si siede sul letto e si toglie l’accappatoio: «Mi vuoi?»
Caso
tipico di domanda retorica.
TORREDIRUTA
Sergio Mattei, neolaureato in filosofia, è
stato abbandonato dalla fidanzata. Per superare la malinconia va a villeggiare
in un paesino sperduto. Proprio il posto che gli ci voleva.
Essere
un filosofo non significa avere raffinati pensieri… Consiste nel risolvere i
problemi della vita, non in teoria, ma in pratica.
Henry David Thoreau
a
laurea in filosofia non aveva portato
fortuna a Sergio Mattei. La donna
che amava intensamente, illudendosi di essere altrettanto intensamente
ricambiato, non si era presentata per assistere all’esame di laurea. Olga si
era resa irreperibile e il giorno seguente gli aveva inviato un messaggio con
la posta elettronica: «Adesso che ti sei laureato posso dirtelo senza lo
scrupolo di influire negativamente sul tuo esame. La lettura della tua tesi
su Kierkegaard mi ha
angosciato, però mi ha aperto gli occhi. Come fa una geologa a passare la vita
con un segaiolo mentale? Parto domani
per le Cascate dell’Iguazú. Non so quando ritornerò.
Non cercarmi. Addio.»
Il padre di Sergio, vedovo e con quel solo figlio, si era reso conto
del suo stato di prostrazione e lo aveva invitato a collaborare nel proprio
negozio di macellaio: «Così ti guadagni il pane fino a quando non avrai trovato
un lavoro confacente ai tuoi studi. E chissà che non ti venga la voglia di
ereditare il mestiere di tuo padre e
rinunciare a una vita da povero.»
Sergio era troppo abbattuto per avere la forza di rifiutare e poi si
sentiva in dovere di non stare con le mani in mano mentre suo padre si sfiancava per non farlo mancare di nulla.
Sono
passate alcune settimane, ma l’umor nero di Sergio persiste. Arrivata l’estate,
il padre decide di spingerlo a fare una
vacanza. Scelgono insieme un borgo di montagna, dove una famiglia annuncia su internet di offrire alloggio e pensione
completa a una persona, nei mesi di luglio e agosto, per periodi non inferiori
a 15 giorni.
La
prospettiva di fare lunghe passeggiate solitarie e di respirare aria buona
alletta un po’ Sergio, che prenota per la prima quindicina di luglio.
La
mattina del 1° luglio, dopo un lungo viaggio per strade inconsuete e dieci
chilometri finali di strada a fondo naturale, sale con la propria utilitaria a
Torrediruta. Benedice il navigatore satellitare e bussa alla porta di casa Fortini col
prevalente desiderio di fare una bella doccia.
«Sono
Sergio Mattei… piacere.»
«Piacere…
Sono Vera Fortini» risponde la
quarantenne belloccia che è venuta ad
aprire, «s’accomodi, tiri dentro il trolley
e si sieda. Prendiamo un caffè a facciamo quattro chiacchiere… Sabinaaa! »
Sergio
non fa in tempo a sedersi che compare la copia ventenne di Vera.
«Ha
bisogno del bagno?» si premura di chiedere Vera, mentre Sabina sta squadrando
l’ospite senza nascondere una punta di piacevole sorpresa.
«Veramente
avrei solo bisogno di una doccia.»
«Ah!
La doccia è il vanto di questa casa» lo rassicura Vera. «L’abbiamo installata
l’anno scorso, quando hanno costruito il serbatoio di accumulo sui ruderi della
torre e l’acqua non manca più… salvo imprevisti. Io e Sabina stiamo sempre
sotto la doccia: almeno due volte al giorno e, d’estate, anche tre.
Sergio
si rende conto che dovrà dividere il bagno con la famiglia... Ma com’è composta
la famiglia?
Vera
intuisce il pensiero di Sergio: «Non si preoccupi, io e mia figlia siamo sole. Mio marito se n’è
andato da un pezzo, s’è fatto un’altra famiglia e ci manda qualcosa per vivere.
Sabina poi va a passare i fine settimana dal fidanzato, che sta a Vallebassa. Ma stia tranquillo,
sono io che cucino e faccio le camere.»
«Scusatemi
se metto becco» interviene Sabina, «ma il signore viene dalla città e bisogna
spiegargli che qui ci troviamo in una frazione sperduta di appena cinquanta
abitanti. Ma possiamo offrire aria buona e un bel panorama, una casa modesta ma
pulita e una camera che cedo volentieri andando a dormire nel lettone con mia
madre. Possiamo anche offrire cibo buono, perché mia madre cucina bene e
anch’io m’arrangio. C’è un particolare: le porte della stanze, compreso il
bagno, hanno vecchie serrature, ma si sono perse le chiavi… Basta bussare.»
Sergio
finalmente può entrare nella camera che gli è stata assegnata e prenderne
possesso con l’assistenza premurosa delle due donne. L’ambiente ha una
rusticità montana: soffitto basso con grosse travi e tavole, un assito per pavimento,
finestra piccola rivolta ai ruderi della torre che dà il nome al villaggio, un
letto di ferro, un comodino e un armadio ottocenteschi.
Uscite
le donne, Sergio prova l’emozione della
doccia. È abituato, vivendo solo con suo padre, a non chiudere a chiave le porte. Ma qui ci sono in giro due
donne con due paia di occhi molti vispi.
Rientrato
in camera, non appena ha finito di
vestirsi, sente bussare. Vera, con la tempestività di chi conosce bene gli
uomini, vuole prendere accordi sul vitto.
Sergio
rassicura Vera di non avere particolari esigenze alimentari. Preparasse
tranquillamente ciò che vuole.
«D’accordo,
anche perché strada facendo s’aggiusta la
soma.»
«Che
vuol dire?»
«È
un proverbio che deriva dal fatto che mentre l’asino cammina, il carico legato
al basto si assesta. Nel nostro caso, mangiando troveremo la soluzione
migliore. Intanto vado a preparare le tagliatelle per il pranzo di oggi.»
«Posso
assistere alla preparazione?»
«Vuole
controllare se sono brava?»
«In
verità non ho mai visto preparare le tagliatelle in casa.»
Vera
si lava accuratamente le mani; indossa un grembiule bianco, fresco di bucato;
sfila la spianatoia e il mattarello di faggio dagli appositi alloggiamenti nel
tavolo della cucina; pone su un angolo
della spianatoia un vaso di coccio pieno di farina e due grosse uova.
«Oggi
adopero due uova d’oca invece di quattro di gallina, perché l’uovo dell’oca
pesa il doppio dell’uovo di gallina. E poi è più grasso e la pasta viene più
buona.»
«Come
si calcola la quantità delle uova?»
«Un
uovo di gallina per ogni persona più uno ogni tre persone. Questa è la mia
dose.»
Sergio
guarda affascinato le mani di Vera che
preparano la pasta, la manipolano, la stendono col mattarello e, dopo una breve
asciugatura della sfoglia, data la stagione estiva, l’arrotolano e la tagliano
a striscioline.
In
verità Sergio non guarda solo le mani di Vera, ma anche il leggero tremolio del
petto della donna, ben consistente e
contenuto dal reggiseno. Non può fare a meno di paragonarlo ai modesti
seni della geologa, che ancora incombe nei propri pensieri.
L’affabilità
di madre e figlia è talmente coinvolgente che, in un paio di giorni, Sergio si scioglie, recupera il buonumore e
comincia a pensare sempre meno intensa-mente a Olga.
Ormai
i tre formano un terzetto molto affiatato e si danno del tu, giocano a carte e,
nelle ore fresche della sera, vegliano fino a tardi sotto un piccolo portico,
conversando del più e del meno.
«Ho
letto da qualche parte» lo provoca Sabina
«che se un filosofo ti dà una risposta, non sei più
in grado di capire nemmeno la domanda che avevi posto; ma tu non parli
difficile… che razza di filosofo sei?»
«In
primo luogo, non sono un filosofo, ma un semplice studioso delle opere dei
filosofi; in secondo luogo, ogni disciplina ha il suo linguaggio che serve agli
esperti per intendersi meglio tra di loro, ma che è più o meno incomprensibile
ai non esperti; in terzo luogo, tieni
conto che siamo tutti, in un certo senso,
dei filosofi, altrimenti vivremmo in modo del tutto insensato.»
«Lo
sapevo che non dovevo provocarti!»
«S’è
fatto tardi» interloquisce Vera, ponendo fine alle provocazioni della figlia
che costringono il giovane a risposte complicate. «Domani mi alzo presto per
scendere a Vallebassa a fare la spesa. È giorno di mercato.»
«Se
vuoi, ti accompagno volentieri» si offre Sergio.
«Ti
ringrazio, ma tu sei qui in vacanza ed è meglio che vada a fare una
passeggiata. Anche Sabina rimane qui perché deve mettere in ordine la casa.»
Il
mattino seguente, quando Sergio va a fare la doccia, s’accorge che la porta del
bagno non è ben chiusa e che dentro c’è qualcuno. Quando mette a fuoco lo
spiraglio della porta, non può fare a meno di vedere Sabina che si sta
asciugando. Con una carta calma, essendo un uomo rispettoso, ma pur sempre un
uomo, si ritira nella propria camera.
Dopo
qualche istante, lo raggiunge Sabina, che indossa un accappatoio blu: «Il bagno
è libero. Tocca a te, mio bel guardone.»
A
questo punto i sensi del giovane sono all’erta, ma l’abitudine a riflettere,
che gli ha inculcato la filosofia, lo porta ad attendere la terza provocazione.
In attesa degli eventi, decide così di andare a lavarsi, di vestirsi, di
sedersi sul letto e di prendere in mano uno dei libri che ha portato con sé, il
Diario di un seduttore di Søren Kierkegaard.
Non passano dieci
minuti che Sabina chiede di entrare e si va a sedere sul letto al fianco di
Sergio. Indossa un abitino da casa a fiori rossi su fondo rosa e porta i lunghi
capelli castani raccolti a crocchia.
«Vorrei sapere perché
non mi fai la corte. Ho qualcosa che non va?»
«Non ti manca proprio
niente.»
«E
allora? Non mi pare che tu abbia un’innamorata,
altrimenti non saresti salito quassù a passare le vacanze.»
«Non ho un’innamorata,
ma un innamorato l’hai tu.»
«L’avevo. Domenica
passata ho rotto e alla fine di questa settimana non scenderò a Vallebassa» lo
rassicura Sabina sorridendo.
«L’hai presa bene!»
«E se il motivo del
mio buonumore fossi tu?»
Ciò detto, Sabina
afferra il libro di Kierkegaard e lo fa volare sul comò: «Vediamo se hai
imparato qualcosa dell’arte del seduttore.»
«Veramente…
Kierkegaard … »
«Zitto! Non me ne
frega niente di Kierkegaard» chiarisce Sabina… e gli chiude la bocca con un
bacio. «Adesso chiudo la porta a chiave, così ce la prendiamo comoda.»
«Da dove è uscita
fuori codesta chiave?»
«È un segreto»
dichiara Sabina, strizzando l’occhio mentre scioglie i capelli. Poi i giovani
si liberano degli indumenti aiutandosi a vicenda. Ma lo fanno molto rapidamente
perché quel che si aspettano (e che accadrà) è un piacere intenso, gioioso e
appagante.
“Questa casa è più
sconvolgente della cascate dell’Iguazú” riflette Sergio tra il primo e il secondo
amplesso. “Che la geologa vada a farsi fottere dove vuole!”
I giorni che seguono
sono pieni di sesso, di conversazioni e di progetti. Alle conversazioni e ai progetti partecipa
molto attivamente anche Vera, alla quale Sergio propone di fare conoscenza col
padre. Chissà che non ne esca una seconda coppia? Si potrebbe vivere tutti in città con la
macelleria e villeggiare a Torrediruta.
«Se son rose
fioriranno!» sospira Vera, che in cuor suo non vede l’ora di conoscere il padre
di Sergio.
ODORE DI COCCOINA
Un quindicenne alle prese con
una maestra molto particolare.
n un casa di paese, pochi anni dopo la fine della seconda guerra
mondiale.
«Ti rendi conto che Moreno è quasi analfabeta? Se la cava coi
conti e legge tanto, ma non sa scrivere. La mia povera sorella, Dio l’abbia in
pace! lo levò da scuola quando lo bocciarono all’esame di terza elementare. Ma
che poteva fare? Quel debosciato di mio cognato, che il diavolo se lo porti!
non è stato mai in grado di guadagnarsi il pane. Aveva tante idee ma non le
sapeva mettere in pratica; passava da un mestiere all’altro; così mia sorella
si doveva rompere le reni per far mangiare la famiglia. Non poteva durare.
Adesso mi ritrovo con questo nipote orfano di entrambi i genitori e
semianalfabeta. Ma non mi sembra stupido… anche se s’imbambola troppo
spesso… per i miei gusti.»
Lina, fiera donna di mezz’età, si sta sfogando col marito
Abelardo, severo ex appuntato dei Carabinieri. Si stanno coricando, ed è
l’unico momento della giornata in cui si trovano insieme da soli. Non hanno
avuto figli, anche perché si sono sposati in età matura, e Moreno, l’orfano di
fatto adottato, vive con loro e cresce sano e robusto, soprattutto da quando
riesce a mangiare almeno tre volte al giorno, grazie a Zia Lina.
Abelardo ascolta con calma solenne mentre si spoglia e indossa
un camicione da notte. Ha assunto l’espressione assorta di quando si rende
conto di dover dire qualcosa d’intelligente, ma non ci riesce.
«Si dovrà fare qualcosa» sentenzia finalmente Abe-lardo.
«Ho parlato con Elvira, la figlia di Checco il mugnaio e di
Carolina. È una maestra diplomata, ancora senza posto, e può dare qualche
lezione a Moreno per fargli prendere la licenza elementare.»
«Ci sarà da spendere.»
«Ho parlato anche di questo con Elvira. Per adesso non vuole
niente, perché sta preparandosi per il concorso magistrale e potrà dedicarsi
poco a Moreno. Si limiterà a un paio di lezioni. Poi, una volta che avrà dato
il concorso, in base all’impegno che riterrà necessario per portare
Moreno alla licenza, parleremo anche di soldi.»
«Quand’è così, procedamus» sentenzia
Abelardo, che ha imparato in caserma due o tre parole di latino da un
maresciallo ex seminarista.
Il mattino seguente zia Lina accompagna Moreno nel negozio di generi alimentari e diversi di Fedora e,
su consiglio della negoziante, gli compra penna, calamaio, un quaderno
con le righe per la quarta elementare e una carta assorbente.
Nel primo pomeriggio Moreno, munito dell’attrezzatura per
scrivere, s’incammina verso la casa della signorina Elvira. È più incuriosito
che emozionato. Da quando è uscito dall’orfanatrofio, ha scoperto di avere un
temperamento calmo e un carattere positivo.
È in questo stato di grazia che Moreno sale il vicolo verso la
casa della signorina Elvira.
L’accoglie Carolina: «Sali, Elvira ti sta aspettando. È tanto
impegnata con lo studio, povera figlia mia, ma non poteva dire di no a Lina…
l’ha vista troppo preoccupata. E poi siamo mezzi parenti.»
Moreno viene introdotto in una saletta da pranzo della quale,
con ogni evidenza, Elvira ha fatto il proprio studio. Sul tavolo ci sono libri,
riviste, quaderni grossi e piccoli, penna e calamaio, un paio di forbici e un
vasetto di alluminio con scritto coccoina
- colla bianca solida per ufficio.
Moreno rimane in piedi, mentre aspetta che Elvira esca dalla sua
camera, e si gode il forte odore di mandorla che proviene dal tavolo.
Elvira, che Moreno conosce solo di vista, arriva un po’
scarmigliata e con indosso un vestaglietta rosa. Messa così non può dirsi una
bellezza.
«Ciao, siediti, stavo incollando degli articoli ritagliati da
una rivista di pedagogia su questo quadernone. Senti l’odore di mandorle della
coccoina?»
«È un odore buono, non l’avevo mai sentito.»
«Dunque tu vorresti prendere la licenza di quinta elementare?
Fammi vedere quello che sai fare. Leggi qui.»
Moreno posa gli occhi sulla pagina del libro che Elvira gli ha
aperto e comincia a leggere dal punto in cui la maestra ha messo il dito.
«Vedo che te la cavi bene con la lettura. Quando leggi da solo
leggi a voce alta o in silenzio?»
«In silenzio.»
«Oh, ma allora sei un pezzo avanti. Lo sai che la capacità di
leggere in silenzio era rarissima nell’antichità e, ancora oggi, molte persone
di scarsa cultura ancora leggono solo a voce alta?»
«Il mio problema è la scrittura.»
«Allora dovrai fare molti esercizi… Sù, coraggio, sei un ragazzo
intelligente e anche carino. Diventerai un bell’intellettuale.»
Moreno, nella sua cameretta, si dedica scrupolosamente
all’esercizio di copiatura assegnatogli dalla maestra. Fa il calcolo
degli anni che lo dividono da Elvira (cinque o sei?) e si rende conto di non
aver avuto il tempo e il coraggio di fissare lo sguardo sulla maestra. Ricorda
bene solo la voce, dal tono alto, molto femminile, e la spaziatura ampia, come
se non avesse molto fiato, e la netta sensazione che la maestra si sforzasse di
parlare in buon italiano; come se fosse abituata a usare due linguaggi, uno più
o meno dialettale in famiglia e col popolino, l’altro per le altre occasioni,
compreso l’insegnamento.
Moreno risale per la seconda lezione il vicolo di Elvira. È
concentrato sul proposito di prestare attenzione non solo a ciò che la maestra
dice, ma anche a ciò che Elvira è.
Lo accoglie il solito odore di mandorla della coccoina. Elvira e
già seduta, lo invita a sederle accanto e a farle vedere il copiato.
«Bravo! Possiamo tralasciare il dettato. Sei in grado di passare
direttamente dal copiato al tema.»
«Quando mi farà scrivere con la penna biro?»
«Abbi pazienza, la penna biro, oltre a costare ancora troppo,
non è abbastanza perfezionata. Ma ho l’impressione che s’imporrà e
distruggerà l’arte della calligrafia. Ti consiglio di continuare con il
pennino, poi, quando sarà arrivato il momento, ti regalerò una penna
stilografica. Cerca di resistere il più possibile alla biro, come sto facendo
io. Quando avrai preso l’abitudine alla flessuosità del pennino avrai acquisito
un’arte che ti sarà utile anche quando scriverai col dito sulla sabbia.»
Mentre Elvira parla con passione della calligrafia, Benito la
scruta con occhiate rapide, ma penetranti, che la maestra fa finta di ignorare.
Un po’ dà la cosa per scontata, un po’ si diverte, un po’ quell’allievo
la intriga con la sua evidente maturità, dovuta forse al combinarsi di un
temperamento mite con una vita difficile.
Moreno nota molte cose: Elvira non indossa la vestaglietta rosa,
ma una camicetta bianca di picchè con minuscoli rombi in rilievo e una
gonna a fiori azzurri di diverse tonalità; ha i capelli castani mossi e lunghi
legati a coda di cavallo; il collo e le orecchie sono ben fatti e proporzionati;
gli occhi marrone sono piuttosto grandi e con un leggero taglio orientale; il
volto è regolare con sopracciglia castane ben curate; i denti sono perfetti e
le labbra sono di un colore naturale rosa molto più carico di quello della
pelle.
L’odore della coccoina si mescola a quello della colonia alla
lavanda, fino a quando il naso giovane ed efficiente di Moreno non percepisce
l’effluvio del giovane corpo di donna. È a quel punto che il ragazzo deve fare
uno sforzo per non tradire il proprio turbamento.
«Moreno caro, tu mi dai l’impressione di essere un po’ avanti
come maschietto. Ce l’hai una fidanzatina?»
«Non credo di essere diverso e di fare cose diverse dai ragazzi
della mia età. Mi sembra presto per fidanzarmi.»
«Non sono d’accordo… Tiro a indovinare. Hai lasciato la scuola a
otto anni e, dai dieci ai quattordici, sei stato in orfanatrofio; da un anno
stai quasi sempre chiuso in casa dei tuoi zii. È un bel po’ che ti sei accorto
di essere uomo e che te la spassi da solo. Non hai mai frequentato ragazze e, quanto
all’amore, conosci soltanto le stupidaggini che vi raccontate voi ragazzi, un
po’ corrette da ciò che vedi al cinema e leggi su libri, fumetti e fotoromanzi,
ma senza capirci granché.»
Moreno abbassa la testa, a conferma della diagnosi, non sapendo
scegliere fra il mostrarsi offeso e chiudersi, o aprirsi e rimettersi ai
consigli della maestra. Ma Elvira riprende la parola per venirgli in aiuto.
«Mi sono accorta di come mi guardavi, mi spogliavi con gli
occhi, mi annusavi e ti gustavi le tue fantasie. Non ti eri mai trovato così
vicino a una donna giovane. E io non ho problemi a mostrarti come è fatta una
donna sotto i vestiti e a darti una mano a crescere come uomo consapevole,
anche perché non lo diresti a nessuno. Non hai con chi parlare di queste cose.
E poi non credere che me ne importerebbe più di tanto. Siamo soli in casa. Va’
a togliere la chiave dalla porta.»
Moreno, con le gambe tremanti e un leggero senso di vomito,
scende a sfilare la chiave dalla toppa e, quando ritorna, Elvira lo tranquillizza: «Mettiti
seduto e rilassati. Guardami mentre mi spoglio e mi rivesto, senza muoverti e
senza cercare di toccarmi. Se sarai stato bravo, alla fine t’insegnerò a
baciare.»
Moreno si siede con i gomiti poggiati sul tavolo e il volto
sorretto dalle mani. È un alunno disciplinato, pronto a una lezione che non
avrebbe mai immaginato.
Elvira, senza particolari moine, come se nessuno la stesse
guardando, si sbottona la camicetta, se la toglie e la poggia su una sedia; poi
si toglie le scarpe e si sfila la gonna; rimane in sottoveste bianca di seta
dalla quale sguscia in pochi secondi; ormai non indossa altro che
reggiseno e mutandine; si cala le spalline del reggiseno, libera le braccia e
fa ruotare i gancetti del reggiseno sul davanti per slacciarli comodamente
e rimanere a seno nudo; poi si toglie le mutandine, fa un giro su se
stessa e si riveste.
Moreno non si è mosso. La maestra gli si avvicina e gli sussurra
all’orecchio: «Adesso hai visto che c’è sotto i vestiti di una donna. Cerca di
ricordarlo e di non farti abbindolare con le smancerie e i finti misteri.
Passiamo al bacio, che è fondamentale in ogni rapporto fra corpi umani. Vale
più un bel bacio che una congiunzione intima. T’insegno a baciare… anche se non
dimenticherò d’insegnarti a scrivere.»
Più che di un bacio si tratta di una lezione, fredda e
professionale, sul baciare la bocca, che dura una decina di minuti.
«E adesso, caro Moreno, ti do un comando: “Non innamorarti di
me!” Non per la differenza d’età, né per lo scandalo; ma solo e semplicemente
perché sono già innamorata. Vieni domenica a pranzo e ti farò conoscere il mio
amore, che viene per me da molto lontano. Mi accompagnerà a dare gli scritti
del concorso magistrale.»
«Come vuole lei, signorina maestra. Arrivederci.»
Moreno scende lentamente i gradoni del vicolo, impegnato in un
turbine di pensieri e di sentimenti. Adesso sa che la vita è più complicata di
quella che insegnano negli orfanatrofi.
Domenica andrà a pranzo da Elvira, ma più per dovere di cortesia
che per curiosità.
Zia Lina consegna a Moreno un involto di carta paglia caldo e
profumato: « È un coniglio a porchetta con le patate. L’ho promesso a Carolina
per ricambiare la disponibilità di Elvira. Mangiatevelo alla mia salute.»
In casa di Elvira, Moreno consegna il pacco ancora caldo a
Carolina e saluta Checco, il capo famiglia, poi cerca con lo sguardo Elvira. La
maestra compare quasi subito, si avvicina a Moreno e gli sussurra: «Vieni in
camera mia, ti presento il mio amore.»
Nella camera c’è un letto a una piazza con la testata di legno
di noce e, a fianco, il comodino con la lastrina di marmo grigio.
Sulla parete di fronte, tra l’armadio e la finestra, c’è un sommier su cui sta seduta una
bella donna sulla trentina con la sigaretta accesa e il sorriso sulle labbra
tinte di rosso scarlatto.
Moreno prende atto che il mondo è ancora più complicato di
quanto gli sembrava dopo l’ultima lezione di Elvira.
LA CASCATELLA
Il tedio di una
vacanza estiva nel paese natale fa affiorare una passione latente.
l
professor Mario De Stefani entra con passo strascinato nel Caffè Roma per bere
qualcosa di fresco e fare due chiacchiere.
«Ciao
Venturi’» dice al gestore, che sta
asciugando il piano del bancone con
flemma sapiente. Fa caldo e sono soltanto le undici del mattino; la
giornata di lavoro di Venturino finirà dopo mezzanotte; non è il caso di
affannarsi.
«Professo’,
di là c’è Agata, la Morona, che vi ha cercato.»
Mario
si dirige verso la saletta adiacente, quella coi tavoli per giocare a carte.
Sola soletta, seduta con le gambe accavallate davanti a una coppa di gelato c’è
Agata, la cugina di sua moglie, anche lei in vacanza nel paese natale.
Quarantenne di bella presenza, porta, come tante donne nate nel paese, il nome
della santa patrona. Per le altre, quel nome un po’ difficile da usare nelle
modalità colloquiali, viene diminuito in Agatina. Ma alla nostra Agata, col suo
metro e settanta e con le sue forme floride,
il diminutivo non si addice. Così, fin da ragazza, in onore della sua
cascata di capelli corvini, l’hanno ribattezzata la Morona. E lei ha sempre mostrato di gradire quel soprannome che
l’affranca dalla massa delle Agate, sottolineando un suo aspetto fisico del
quale è tutt’altro che scontenta.
Agata
sta gustando il famoso gelato di Venturino nei tre gusti cioccolato, crema e
nocciola. Anche perché non c’è altro da scegliere; a parte il gusto di limone,
di cui la donna non è golosa. Quanto alla panna, meglio non esagerare coi
grassi.
Quando
vede entrare Mario, con un bel sorriso stampato sul bel volto di uomo maturo,
ma ancora prestante, si sente sollevata e apprezza il gesto con cui,
nell’avvicinarsi a lei, si è tolto gli occhiali da sole. La donna, quel sabato
mattina, s’è infilata nel Caffè Roma con la speranza d’incontrare qualcuno
della sua affiatata comitiva di villeggianti e di concordare un programma per
la domenica; e ha chiesto proprio di lui, l’amico col quale è sempre un piacere
interloquire. Non vedendo nessuno, ha ordinato, più per disimpegno che per
gola, il gelato da duecento lire che Venturino le ha servito in una di quelle
coppe cromate che ancora sono in uso nei caffè di paese.
«Accòmodati,
professo’. Che ti faccio portare?
Intanto assaggia questa nocciola appena uscita dalla sorbettiera e dimmi se non
è una delizia». Ciò detto, Agata porge al professore, col proprio cucchiaino,
un bocconcino di crema alla nocciola. Il gesto confidenziale non può mettere in
imbarazzo Mario, che ha sempre avuto, fin dall’infanzia, grande familiarità con
la cugina di sua moglie. Ma quel giorno il piccolo gesto familiare innesca un
crescendo di pericolose emozioni.
Mario
si fa portare una coppa di gelato al limone e ne offre un assaggio alla donna,
che lo rifiuta scuotendo quasi impercettibilmente il capo e con un sorriso che
esprime apprezzamento del gesto cortese. Ma subito si pente e infila il proprio
cucchiaino nel gelato al limone e ne preleva una piccola porzione. L’ uomo
percepisce quel ripensamento non come un cedimento alla gola, ma come
intenzione di curare quell’atmosfera di confidenza, che deve preludere a una
lunga e piacevole conversazione. «Tu hai una gran voglia di parlare e io una
gran voglia di ascoltarti» azzarda il professore, fissandola negli occhi giusto
il tempo di farla sorridere, più divertita che sorpresa.
«Allora
veniamo al dunque, che facciamo domani? Comincio ad annoiarmi di queste
vacanze; anche mio marito ha bisogno di andare da qualche parte, perché torna
stasera dopo una settimana in quel buco di ufficio postale; i miei figli hanno
le loro compagnie. Allora ho pensato di riunire la comitiva e fare una bella
scampagnata, come ai vecchi tempi. Si parte con comodo dopo la Messa delle
otto, ciascuno porta qualcosa da mangiare; si fanno quattro chiacchiere; si
mangia e si beve, magari si balla, poi si torna
a casa col fresco. Se vengono tutti, siamo una decina e bastano due o
tre macchine: la mia, la tua e, se occorre, quella di Giovanni».
Quindi
la donna scavalla le gambe e si allunga sulla poltroncina, come liberata di un
peso. Nell’assumere la nuova posizione piega leggermente la schiena e lascia
scendere un po’ il seno florido. Poi rimane in attesa della risposta di Mario
che, in quei movimenti, non ha potuto fare a meno di cogliere la fugace
apparizione di un bel tratto di cosce. Neppure se lo avesse voluto avrebbe
fatto in tempo a distogliere lo sguardo. Ma, com’è suo dovere, fa finta di
niente.
«Sai
che pensavo?» risponde Mario non appena ritrovata la necessaria concentrazione,
«si potrebbe organizzare una riedizione di quelle belle gite adolescenziali,
quando non avevamo il pensiero del lavoro e della famiglia e il tormento dello
studio era neutralizzato dalla lunga pausa estiva. Quelle belle gite che furono
belle fino alla stagione degli innamoramenti. Ma la nostra comitiva durò più
delle altre perché le coppie sembravano predestinate, anche se erano piuttosto
il frutto di un lavorio paziente delle famiglie. Del resto ancora oggi la
nostra comitiva regge perché non è avvelenata dallo strascico di vecchie
gelosie e frustrazioni. Salvo residui di antichi sentimenti opportunamente
dissimulati».
A
questo punto Mario s’interrompe, perché il discorso sta prendendo una piega che
non gli piace e negli occhi di Agata sta affiorando la stessa malinconia che
lei vede negli occhi di lui.
«Professo’,
non perdiamo tempo in discorsi complicati» taglia corto la donna, «piuttosto
scegliamo il posto, che deve essere adatto sia alla prima che alla seconda
colazione, e, soprattutto, che sia fresco. Poi diciamo a ciascuno quello che deve portare. Del resto
sappiamo che Giovanni ci tiene a farci bere il suo vino e che Valeria è
contenta di offrirci le sue lasagne. Io preparo l’arrosto, anche se con questo
caldo mi costa una certa fatica, e penso al pane e al dolce. Chiedi a tua
moglie di preparare una bella insalata russa e di mettere dentro a una scatola
piatti, posate, bicchieri e tovaglioli per tutti. Non dimenticarti la macchina
fotografica e il mangiadischi a pile.»
Mentre
ascoltava le disposizioni organizzative di Agata, Mario ha elaborato
mentalmente un progetto parzialmente alternativo, poiché desidera dare alla gita un significato
più fortemente rievocativo. Il luogo giusto e una organizzazione opportuna
ravviverà i ricordi giovanili. Ciò potrà destare emozioni contrastanti, ma
romperà la monotonia di una villeggiatura in cui quotidianamente affiorano il
tedio e la malinconia. Il diavoletto che ciascuno porta sulla propria spalla cerca continuamente
di rovinare una vacanza serena e a lungo desiderata, facendo volare
l’immaginazione verso la vita ordinaria che sta aspettando il nostro ritorno. E
la vita ordinaria ci chiama con un perfido canterellare di sirena.
«Avrei
un’idea» esordisce Mario, rinunciando, per non annoiare Agata, a illustrare i propri pensieri, ma confidando
nella sensibilità e nell’affetto dell’amica. «Sono più di vent’anni che non
andiamo alla cascatella. Lì c’è posto per pescare, fare il bagno, cucinare,
prendere il sole, giocare e ballare. C’è pure, là vicino, se riusciamo a
ritrovarla, una sorgente di acqua ferruginosa che non ha un gran sapore, ma è
freschissima. Non sarà difficile catturare qualche granchio per fare un bel
sugo. Credo che sappiamo ancora accendere il fuoco e scolare la pasta
utilizzando il coperchio della pentola, come fanno i militari. Prenotiamo da
Arturo un paio di chili di porchetta e carichiamo sulle auto tutto ciò che
serve, senza dimenticare i teli per asciugarci, cambiarci i costumi da bagno e
riposarci sull’erba».
«Mario!» esclama Agata avvicinandosi all’amico e
prendendogli la mano, mentre gli occhi le si sono fatti lucidi, «mi stai
facendo commuovere. Tutto quello che hai detto è già successo tanti anni fa.
Non hai paura che la cosa ci faccia più male che bene? E poi, come sarà ridotta
la strada per la cascatella? Ci sarà ancora qual bel prato fresco? Non sarà
ormai coperto di rovi?».
«La
sindrome dei vent’anni dopo non mi spaventa. Anzi, può servire a combattere la
nostalgia. Quanto al posto, possiamo andare a dare un’occhiata. Un tempo ci andavamo
a piedi in tre quarti d’ora, ma, con la
macchina, ci mettiamo meno di dieci minuti. Te la senti?». Gli occhi della
donna gli fanno capire che se la sente. Mario paga il conto e va a prendere la
sua FIAT 128 verde bottiglia.
Percorrono
tre chilometri sulla provinciale che corre in margine all’alveo del torrente.
Imboccano la strada vicinale sterrata, che ricordano bene e, prima che il
percorso diventi troppo stretto e scosceso,
trovano il modo di parcheggiare l’auto in un terreno incolto, al margine
della macchia. Scendono a piedi verso il torrente e, dopo un centinaio di metri
e molti incespicamenti, avvertono il
rumore della cascatella, un salto di appena due metri che nel tempo ha scavato
un laghetto. Al di là del laghetto c’è il prato, più piccolo di come lo
ricordano, ma sufficiente a fungere da spiaggia, poiché le rive del piccolo
specchio d’acqua sono altrimenti inaccessibili a causa della vegetazione. Il
tutto sembra perfetto.
Si
tolgono i sandali. Mario arrotola i pantaloni fin sopra al ginocchio. Agata con
una mano regge i sandali e tiene sollevata la gonna, mentre dà l’altra mano
all’amico per essere aiutata a non perdere l’equilibrio nel guadare il piccolo
torrente. Devono fare attenzione a posare i piedi sui sassi più grossi, più
solidi e più utilmente posizionati.
Raggiunto
il prato, essendo piuttosto accaldati, si soffermano a riposare e a ispezionare
il luogo con gli sguardi.
«Ti
dispiace se mi bagno un po’? Non so proprio resistere» dice Mario. E resta in
attesa dell’assenso dell’amica, dalla quale stranamente non si aspetta
obiezioni sul fatto che non ha il costume da bagno né indumenti di ricambio e
che non possono trattenersi a lungo. L’assenso di Agata arriva in forma di un
sorriso comprensivo e di un cenno del capo che significa: “Se proprio ci
tieni!”
Quindi
Mario si toglie la camicia, la canottiera e i pantaloni e resta coperto dai
soli boxer bianchi. Agata finge di non guardare. Mario entra prudentemente in
acqua ed esegue tutte le abluzioni necessarie per affrontare con prudenza le
fresche acque del torrente. Saggia il fondo del laghetto e verifica che in
nessun punto la profondità supera il metro e mezzo. S’inginocchia per
immergersi fino al mento, mentre Agata lo guarda divertita. Si mette in piedi
nel punto più profondo e, con un cenno dello mano, invita la donna a scendere
in acqua mostrandole la prova vivente che non c’è bisogno di saper nuotare.
«Ma
sì!» dice Agata.
Mario
non la l’ha potuta sentire, a causa dello scroscio della cascata, ma quando lei
comincia a spogliarsi, le dà cavallerescamente le spalle, fino a quando la
donna, in mutandine e reggiseno, non si è immersa in acqua fino al collo e gli
dice: «Puoi voltarti.»
Il
bagno, per mille ragioni, è breve e casto. Escono dall’acqua e si vanno a
sedere sugli scogli asciutti, in riva al laghetto, confidando che il basalto
rovente e i raggi del sole di luglio asciughino rapidamente i loro corpi e i
loro indumenti intimi. Mario mette a disposizione dell’amica la sua canottiera
asciutta per usarla come asciugamani.
Mentre
entrambi meditano su come riprendere la conversazione, Mario vede la testa di
un rettile che sbuca dalla base dello scoglio su cui è seduta Agata e subito le sussurra: «Sta’ ferma, mi
raccomando!» Intanto ha raccolto un sasso e, scavalcando la donna, si avvicina
al rettile per colpirlo da vicino. Ma, prima che Mario lo raggiunga, il rettile
scivola rapidamente nell’acqua. «Era solo una biscia. Le bisce d’acqua non sono
velenose.» Così Mario rassicura la donna, che s’era irrigidita e aveva
soffocato un grido di spavento per non disturbare l’azione protettiva
dell’amico.
Poi,
senza alcun indugio, Agata si getta tra
le braccia di Mario, ma dosando tempo e languidezza affinché i loro corpi si
allaccino strettamente. Né può fare a meno di ricordare di aver letto da
qualche parte che il mito dell’Eden esprime una realtà che si verifica tutti i
giorni, e che il rettile è sempre in agguato per cogliere i momenti di
debolezza della donna, come quello del vedersi sfiorire senza aver colto tutti
i vantaggi della fioritura. Appoggia il volto su una spalla di Mario,
consapevole che la folta capigliatura corvina gli avrebbe vellicato il
viso e gli avrebbe sfiorato le narici.
Mario
è sorpreso, non tanto dall’abbraccio di Agata, che sembra il capitolo di una
storia già scritta da qualche parte, ma dalla flessuosità del corpo della
donna. Mai ha immaginato una sensazione del genere nel pensare ad Agata. Le
membra dei due combaciano perfettamente e Mario pensa che la mano misteriosa
che gioca col mondo s’è finalmente decisa a congiungere quelle due tessere del puzzle, come previsto dal grande disegno.
Pochi
minuti dopo, un angolo erboso riparato dalle fratte li accoglie per un amplesso
caldo e silenzioso... Avviene ciò che
entrambi, per tanti anni, hanno tante
volte immaginato. Un lungo bacio consuma i residui effetti dei meccanismi
ormonali, prima d’indossare gli indumenti scaldati dal sole per riguadare il torrente e raggiungere la 128
verde bottiglia.
LA LEPRE DEL CIRENEO
Discorsi e poesie di caccia e di cucina in una vecchia osteria
di paese.
O cara luna, al tuo tranquillo raggio
Danzan le lepri nelle selve; e duolsi
la mattina il cacciator, che trova
l’orme intricate e false; e dai covili
error vario lo svia; salve, o benigna
delle notti reina.
Giacomo Leopardi
Collefino, ma pure altrove, li chiamano fancazzisti. Sono quelli che trovano
sempre qualche ora da aggiungere al meritato riposo per discettare di argomenti
futili.
Nell’anno
di grazia 1950, i fancazzisti di Collefino si dividevano tra il Caffè
Rossetti–Gelateria e l’ Osteria
Salvini. I primi si dedicavano prevalentemente allo sport, i secondi quasi
esclusivamente alla caccia.
Più
suggestiva era l’ Osteria Salvini, che
era più di una bettola e meno di una trattoria. Sull’insegna di latta
verniciata c’era scritto Vino e Cucina.
Ma se il vino non mancava mai, sostituibile con la birra e miscelabile con la
gazzosa, si cucinava solo la sera. I venditori umbri di porcelli, i carbonai e
i tagliaboschi toscani, nonché altri commercianti di passaggio s’infilavano di
mattina nell’osteria, ma trattavano i loro affari o si scambiavano informazioni
davanti a un pezzo di cacio e a due fette di spalletta. Non bevevano certo
acqua, ma vino con moderazione.
Invece
le sera venivano serviti, a seconda dei giorni, delle stagioni e delle
prenotazioni: fettuccine con le rigaglie
di gallina, gnocchi di patate col sugo di castrato, polenta di granturco con le
costarelle di maiale, lombrichelli di acqua e farina mantecati con olio aglio
pomodoro peperoncino, agnello a bujone, cacciagione in salmì, coniglio a
porchetta, polpette di carne in umido. E
il vino scorreva a fiumi.
Ma
il pomeriggio l’ Osteria Salvini era appannaggio dei cacciatori, che
parlavano e parlavano, tra una mano di
tressette e tre mani di briscola, quasi sempre dello stesso argomento, e
tenevano lubrificato l’apparato vocale con vino e gazzosa.
L’osteria
era gestita da Bradamante Salvini, detto l’Appuntato,
per via della sua trascorsa militanza nell’Arma dei Carabinieri, e dalla zi’
Aminta, sua consorte. Il fatto che l’uno portasse il nome di un personaggio
femminile e l’altra quello di un personaggio maschile della poesia del
Cinquecento non li metteva a disagio; così come lasciava indifferenti gli
avventori, quasi sempre semianalfabeti, che solo per brevità, e non per
ossequio alla sua mascolinità, accorciavano il nome dell’oste in Bramante.
La
squadra del gestore era completata dalla fantesca Caterinella e da Benito,
quindicenne nipote di Aminta, orfano di entrambi i genitori, assunto come
figlio adottivo e sguattero.
Quando
i cacciatori sproloquiavano, mentre la zi’ Aminta e Caterinella stavano al
riparo in cucina, Benito ascoltava con piacere, senza metter bocca, mentre
serviva le bevande. Nonostante la giovane età, era consapevole che si stava
recitando un dramma antico quanto il genere umano. Gli attori si alternavano
sulla scena e recitavano seguendo il solito canovaccio. Chi era di turno come
spettatore, rimuginava sulla parte che avrebbe dovuto recitare, e prestava
ascolto nei limiti in cui gli era necessario per cogliere il tempo giusto della propria entrata in
scena. Benito intuiva che si trattava di un rito ancestrale in cui la verità veniva
piegata all’esigenza di elevarsi sopra lo squallore della vita quotidiana e di
esorcizzare l’angoscia esistenziale. Quasi come in un circolo di fumatori
d’oppio. Però la droga, pur avendo il suo costo, non aveva conseguenze fisiche.
Il vino li aiutava, ma, proprio perché avevano trovato una via di fuga più
efficace, raramente i cacciatori cadevano nel baratro dell’alcolismo.
Benito,
che aveva ufficialmente un’istruzione elementare, era un lettore accanito di
tutto ciò che gli capitava e un ascoltatore solitario e indefesso della radio.
Al resto provvedeva la sua fervida immaginazione. Perciò, assistendo silenzioso
alle conversazioni dei cacciatori, non s’irritava per le palesi esagerazioni e
le conclamate bugie, né s’annoiava per la prevedibilità di ogni sproloquio.
Anzi, si dilettava nell’affinare sempre di più una sua trasfigurazione di quegli incontri.
Volava
con la fantasia all’era delle caverne, a una sera di centomila anni prima. Un
gruppo di uomini primitivi, cacciatori di animali zoccolati, poggiate a terra
le poderose clave, sedeva a consumare le carni arrostite di un cavallo
selvatico e a tracannare una birra primitiva. Gl’indumenti di pelle rozzamente
conciata apparivano più decorosi dei panni indossati dai poveri collefinesi del
1950. Il gruppo discettava su vicende di caccia. Nei volti barbuti e nelle voci erano riconoscibili i
clienti della trattoria Salvini. Le donne e i bambini stavano rintanati nella
caverna; quelle fertili con un figlio al seno e un altro nella pancia. Non
c’erano vecchi perché la vecchiaia non era stata ancora inventata. Nel buio, a
una certa distanza dai cacciatori, lampeggiavano gli occhi dei leopardi.
Aspettavano che gli uomini satolli si addormentassero e che nel semicerchio di
tizzoni posto davanti alla caverna s’aprisse qualche varco. I cuccioli d’uomo erano bocconi prelibati per
i leopardi, che a quell’epoca provvedevano al controllo demografico. Ma altri
occhi giravano attorno alla caverna ed erano quelli dei lupi e degli sciacalli,
aspiranti amici dell’uomo. Aspettavano impazienti, ma discreti, di poter
addentare gli ossi e altri avanzi troppo coriacei per i denti degli uomini.
Lupi e sciacalli, il giorno seguente, avrebbero, con istintivo opportunismo,
attirato il gruppo di caccia verso i luoghi dove pascolavano i grandi erbivori.
Era facile immaginare come sarebbe andata a finire: i cuccioli di lupi e
sciacalli sarebbero stati prima o poi accolti, allevati e selezionati dagli
uomini e, col nome di cani, avrebbero assunto il ruolo di amici fedelissimi.
I cacciatori immaginati da Benito celebravano lo
stesso rito che si celebrava in certi pomeriggi nell’ Osteria Salvini. Anche la vita quotidiana dei cacciatori
collefinesi, tutto sommato, somigliava a quella dei loro antenati cavernicoli.
Le pelli erano state sostituite con tessuti di fibre animali e vegetali, le
clave avevano ceduto il posto ai fucili, i lupi e gli sciacalli erano diventati
cani, le donne e i bambini stavano al riparo, ma la vita era comunque dura e
piena d’insidie. Soprattutto, come centomila anni prima, non se ne riusciva a capire il senso. Ma i
pomeriggi all’ Osteria Salvini davano
sollievo, e la certezza che si sarebbero ripetuti dava consolazione.
Un
giovedì pomeriggio, un colpo di scena interruppe il rito dei cacciatori nell’ Osteria
Salvini. Inaspettate, si stagliarono sulla porta le figure del Marchese di
Borgovecchio e del Cireneo.
Vinicio
de Paolis, Marchese di Borgovecchio, aristocratico di mezz’età e appassionato
cacciatore, frequentava di tanto in tanto l’ Osteria Salvini riuscendo a mimetizzarsi
tra quei poveretti e a far dimenticare la propria differenza di classe e di
educazione.
Guerrino
Guerrini, factotum del Marchese, era detto il Cireneo perché, come spiegavano
ironicamente a Borgovecchio, aiutava il
Marchese a portare la croce del matrimonio.
Ma non c’era malizia dietro l’ironia, perché la Marchesa de Paolis era
una santa donna, e per di più una malattia l’aveva ridotta in carrozzella. Il
Cireneo, oltre a sbrigare varie faccende per la casa e le proprietà del
Marchese, accompagnava la
Marchesa nelle sue passeggiate, soprattutto nelle sue visite
di beneficenza. Ella usava frequentare le case dei poveri, che nel 1950 erano
tanti, per dispensare parole di conforto e distribuire viveri, vestiti e
denaro. Era molto amata, ma non tutti sapevano che aveva alle sue spalle la
generosità del Marchese il quale, non avendo figli, non si preoccupava di
conservare il patrimonio per i nipoti.
Il
Marchese era abbigliato con elegante semplicità. Invece il Cireneo ostentava
una splendida giacca da caccia, probabile dono del padrone. Ma ciò che colpì
gli avventori di Bramante fu la lepre enorme che il Cireneo teneva a penzoloni
per le zampe posteriori. Egli entrò silenzioso nell’osteria, mentre tutti
salutavano con garbo il Marchese; depositò la grossa lepre su un tavolo e
cominciò a gironzolare in attesa dei commenti. I cacciatori si assieparono
intorno alla lepre, che doveva pesare quasi cinque chili, un peso enorme per
quel tempo in cui non era cominciato il ripopolamento con animali ungheresi.
«Se
la signora Aminta sarà così cortese da cucinare questa lepre, siete tutti invitati a mangiarla
sabato sera» esordì il Marchese, dopo aver ottenuto il generale silenzio.
Ma
Bramante mise becco per affermare ciò che tutti pensavano: «Rischio di perdere
un illustre cliente, ma questa lepre non è stata uccisa da un vero cacciatore,
perché è stata colpita a fermo. Lo dimostrano la testa fracassata e il corpo
intatto.»
Il
Marchese taceva. Tutti si rivolsero verso il Cireneo, che stava attizzando il
fuoco nel grande camino e che, dopo alcuni lunghi secondi, si decise a parlare,
quasi senza voltarsi: «L’ho ammazzata io. Sapete che non sono un cacciatore.
Mentre il Marchese girava coi suoi segugi, io andavo in giro a una certa
distanza senza cane, ma col fucile imbracciato, come ho sempre fatto per
passare il tempo, senza mai prendere niente. A un certo punto lo sguardo m’è
caduto su due occhi che mi fissavano impauriti. Vedevo solo gli occhi, perché
sapete che la lepre ferma nel suo covo è perfettamente mimetizzata. Solo gli
occhi, tenuti aperti dalla paura, possono tradirla. Se avessi battuto il piede
a terra per farla schizzar via, come avrebbe fatto un vero cacciatore, non sarei mai riuscito a colpirla. Perciò ho
mirato a quegli occhi e ho sparato. Vi giuro che speravo di non colpirla.
Quando ho visto l’animale distendersi stecchito sul terreno e ne ho intuito la
dimensione straordinaria, ho pensato solo al piacere che mi avrebbe dato la
vostra invidia, e ho sperato che invitandovi a mangiarla avrei evitato il
vostro disprezzo. Ma non è andata così.»
Bramante,
pago dell’umiliazione del Cireneo, aveva nel frattempo notato che Olinto
Ribichini, detto il Poeta per la sua
abilità nel cantare ottave a braccio su qualsiasi argomento, stava fissando il
vuoto come quando era ispirato e pronto a esibirsi.
«Adesso
il Poeta ci canta qualche ottava per rimetterci di buonumore» concluse
Bramante, e s’accomodò su una panca.
Il
Poeta s’alzo in piedi, si sberrettò e, circondato da attenzione, curiosità e
rispetto, cantò:
Cauta la lepre, con il
batticore,
mòvesi al loco scelto per
covile;
e, ben sapendo di lasciar
d’afrore
scia permanente, che naso
sottile
pòle sentir d’astuto predatore,
procede a zigghe zagghe
in modo vile:
così tracciando per colui che
passa
d’effluvio intricatissima
matassa.
Il cacciator, che cerca la sua
preda,
ha perso il fiuto fin da’ tempi
antichi;
è un predator, benché non se
n’avveda,
che, per quanto s’ingegni e
s’affatichi,
sarìa costretto, s’ altri non
provveda,
a nutrirsi d’insetti e di lombrichi.
Perciò, in mancanza di risorse
umane,
con atto d’umiltà, ricorre al
cane.
Il cane che per ciò da pelo è detto,
con grande diligenza il muso
abbassa
e col suo fiuto, ch’è quasi
perfetto,
dipanar cerca l’aerea matassa.
Non senza al cacciatore aver
predetto
ch’è sulla pista… ma con voce
bassa.
Giunto presso il covil, la coda
drizza
e ratta, al suo abbaiar, la
lepre schizza.
La
serata aveva preso una piega mondana e venne in ballo quale fosse il miglior
destino della lepre. Prevalevano i fautori del salmì, ma vennero fuori in modo petulante, richiamandosi alla
tradizione locale, anche i fautori del bujone.
Il
Poeta, ormai nel vortice dell’ispirazione,
fece capire di voler dire la sua e riprese il canto:
Il bujone provien dal tempo
antico
e s’inventò tra il Lazio e la Toscana
per cucinar, con spezie che non
dico,
la pecora di razza maremmana.
Di carne ovina inver sarei nemico
se col bujon non fosse resa
urbana.
Però sinceramente vado pazzo
per ogni carne nel prefato
guazzo.
Il salmì, come dice la parola,
è cucina d’origine francese,
ed è molto gradevole alla gola.
Ai nostri dì, senza tante
pretese,
s’adopra non per una carne
sola;
e nel condire non badiamo a
spese.
Però il poeta, non senza
ragione,
lo raccomanda per la
cacciagione.
Benito,
che non aveva ancora aperto bocca,
decise che era arrivato il suo momento, e propose di cucinare la lepre
mezza in salmì e mezza a bujone.
L’opinione
di un ragazzo valeva, in quell’epoca, meno di niente. Ma sulla porta della
cucina era comparsa da qualche minuto zi’ Aminta, che, puntati i pugni sui
fianchi, sentenziò: «Si fa come dice mio nipote!»
Caterinella,
seminascosta dalla mole della padrona, annuiva con decisi movimenti del capo.
STELLA
Carlo, ragazzo undicenne, conosce la
giovane commediante Stella e gli si aprono le porte di un breve paradiso.
ell’autunno
del 1950, Carlo Massetti, figlio unigenito del farmacista di Collefino e della
maestra Stefania, aveva compiuto undici anni da pochi mesi. Aveva superato
senza problemi gli esami di quinta elementare e, un po’ meno brillantemente,
l’esame di ammissione alla scuola media. Infatti aveva confuso i re d’Italia
rispondendo: «Vittorio Emanuele III» alla domanda: «Chi è il re italiano
chiamato Padre della Patria?». Per sua
fortuna, il professore che l’interrogava nella scuola media di Borgovecchio non
aveva nessuna voglia di intralciare la carriera scolastica del figlio di un suo
compagno di squadra nella caccia al cinghiale.
Carlo
Massetti si preparava dunque a frequentare la prima media. Frequentare non è esatto perché, avendo Collefino soltanto le
elementari, i genitori non avevano nessuna intenzione di mandare il loro Carletto
a Borgovecchio. Avrebbero dovuto costringerlo ad alzarsi tutte le mattine alle
sei per prendere la corriera che l’avrebbe riportato a casa alle sei di sera.
Né avevano parenti presso i quali poterlo allogare, né riuscivano a immaginare
famiglie adatte dove metterlo a dozzina. Il collegio era escluso perché
entrambi i genitori ne serbavano tristi ricordi. Essi erano abbastanza colti da
assicurare a Carletto un adeguato insegnamento a casa, sperimentando
l’alternativa educazionale che oggi chiamano home schooling.
Carlo si rendeva perfettamente conto di essere
un ragazzo fortunato. Gli era capitato di nascere in una serena famiglia
borghese, dato che i redditi venivano conseguiti senza affanno, ed erano di
tale entità da non far mancare niente in casa e da assicurare un tranquillo
avvenire. La sua famiglia peraltro era ben inserita in un gruppo che riuniva la
borghesia intellettuale di Collefino. Un gruppo formato, oltre che dal
farmacista, dal medico condotto, dal veterinario condotto, dal segretario comunale,
dai maestri delle scuole elementari, dal geometra del consorzio di bonifica e
da un paio di professori a riposo. Costoro erano animati dalla vitalità,
diffusa allora in tutta Italia, propria di chi era da poco uscito dall’incubo
della guerra. Il gruppo di cui parliamo aveva fondato il C.L.D. (Circolo
Laureati e Diplomati), che organizzava recite, gite, mostre, conferenze,
cineforum, cene, danze e quant’altro potesse allietare lo spirito e il corpo,
sempre nei limiti dei sani costumi. Anche il parroco partecipava alle attività
del C.L.D., con qualche imbarazzo quando venivano organizzate feste da ballo o
proiezioni di pellicole con qualche bacio e abbraccio tra innamorati.
Carlo era immerso nelle gioie di quel piccolo
mondo e, data l’età, non ne coglieva le piccole crepe e non si rendeva conto
che non sarebbe potuto durare a lungo. Quindi, per l’età e per l’ambiente, era
nella condizione di poter essere felice, di vivere quello stato di grazia che
gli adulti, se hanno avuto la fortuna di provarlo, conservano nel paradiso dei
loro ricordi. Un paradiso al quale attingono per alleviare la fatica di vivere.
Ma c’era un problema. Carletto era grasso, ai limiti dell’obesità; portava
addosso una decina di chili di soprappeso che lo facevano molto somigliare al
padre, un omone con un corpo alto centottanta centimetri e pesante almeno cento
chili. La maestra Stefania, di media corporatura e di fianchi proporzionati,
aveva dovuto soffrire molto per partorire quel suo primo figlio che, proprio
per questo, era rimasto l’unico. Carlo sapeva che la madre era una bella donna
e, se non gli fosse bastato il proprio senso estetico, glielo avrebbe fatto
capire l’intraprendente maestro Gaetano che una volta, non accortosi di avere
alle spalle il figlio, aveva sussurrato a Stefania: «Beato tuo marito!» Ma va
detto che questo genere di corteggiamento era tollerato dalla bella maestra,
sia perché una reazione sdegnata avrebbe messo in pericolo la coesione del
gruppo, sia perché l’ambiente era talmente ristretto e i costumi tanto
castigati che anche un vago sospetto sarebbe stato considerato da tutti
assurdo.
Orbene, il sovrappeso di Carletto, se per i suoi
genitori sembrava inesistente, e se era considerato una fortuna dagli anziani
del paese, per i quali il grasso equivaleva a benessere e salute, era oggetto
di scherno da parte dei coetanei. L’appellativo più frequente che usavano nei
suoi confronti era Ciccio Bomba. «Se vuoi giocare a pallone ti facciamo fare
solo il portiere, perché sei un Ciccio Bomba e corri troppo piano» gli dicevano
i suoi compagni. Carletto inghiottiva e accettava, pur di non isolarsi, quel ruolo che non piace a nessun ragazzo e
solitamente, nelle partitelle, viene assegnato a turno. Ma, se qualcuno
ripeteva più di una volta quell’epiteto, Carletto reagiva chiamando in causa la
castità di madri e sorelle, e affrontava con coraggio la conseguente rissa.
Qualche volta se la cavava bene, perché era un buon incassatore e uno
specialista in colpi bassi. Qualche volta trovava chi lo difendeva e lo
affiancava, perché i ragazzi sono crudeli, ma hanno un loro senso del
limite e dell’onore.
Così Carlo non riusciva ad afferrare una
felicità che era quasi a portata di mano. Avrebbe voluto rimediare perdendo
qualche chilo, ma, se provava a contenere la sua voracità, si sentiva
infiacchire e veniva colto dalla paura
di ammalarsi. C’era poi il problema delle ragazze, che non erano ancora oggetto
delle sue pulsioni, ma delle quali sapeva di dovere sempre più tenere conto.
Così rischiava di immalinconirsi e chiudersi in se stesso.
Ma in un bel giorno di quell’autunno del 1950,
un camion con rimorchio arrivò a Collefino e scaricò nel campo boario un
ammasso di tavole, di sedie e di tessuti. L’autista e il suo aiutante
ingaggiarono un paio di operai sul posto. C’è sempre qualche fannullone
disposto ad abbandonare il riposo quotidiano, se chiamato a fatiche brevi e
prontamente remunerate. L’indomani i quattro cominciarono a montare quello che
si rivelò come un Carro di Tespi, forse
l’ultimo dei teatri ambulanti, così denominati, promossi prima della guerra dal
Ministero della cultura popolare. La compagnia teatrale sarebbe arrivata un
paio di giorni dopo, col treno fino a Borgovecchio e con la corriera dalla
stazione ferroviaria a Collefino.
L’arrivo dei commedianti fu già uno spettacolo.
Bastava guardare com’erano vestiti, come
si muovevano e come parlavano. Gli uomini avevano i capelli tinti come quelli
delle signore ricche di Collefino e quasi tutti portavano al collo una sciarpa
lunghissima. Le donne calzavano scarpe non adatte alla polvere e alla buche e
sembrava che rischiassero continuamente di cadere. Maschi e femmine salutavano
la gente, che li guardava con evidente curiosità, senza manifestare alcun segno
di imbarazzo, ma piuttosto come se gradissero di essere oggetto di quell’attenzione.
Gli attori raggiunsero le case dove, mancando a Collefino alberghi e
locande, avevano prenotato camere con
uso di cucina. Si sarebbero trattenuti quindici giorni per esaurire il loro cartellone,
che comprendeva drammi popolari come La
cieca di Sorrento, Il fornaretto di
Venezia, Le due orfanelle e così
via.
Tra
i commedianti c’era una ragazza di circa dodici anni, di nome Stella, alla
quale i genitori cercavano di procurare un’istruzione, nonostante che la
frequenza di una scuola fosse resa impossibile dal girovagare della compagnia.
Qualcuno parlò ai genitori di Stella della maestra Stefania e la descrisse come
donna di cultura superiore a quella che le poteva derivare dal titolo di
studio, e per questo ricercata anche per ripetizioni agli alunni della scuola
media. Stefania era abituata a dare
lezioni, perché aveva una grande passione per lo studio e per l’insegnamento.
Lo studio le permetteva di progredire nell’insegnamento e l’impegno delle
lezioni private la stimolava a studiare. Le sue lezioni, dati i tempi, erano
quasi sempre gratuite e i suoi allievi erano, durante l’estate, seminaristi e villeggianti rimandati a
ottobre. Nel resto dell’anno, la maestra Stefania insegnava nelle scuole
elementari di Collefino e, la sera,
aiutava qualche studente di scuola media. Ella poteva vantarsi che
nessuno studente affidato alle sue cure era stato mai bocciato o rimandato a
ottobre. Quindi Stefania, se accettò di dare qualche lezione gratuita alla
giovane commediante, fece ciò che tutti si aspettavano, ma dovette ammettere
dentro di sé che, in questo caso, provava una particolare curiosità. Pensava
che sarebbe stato interessante studiare la personalità di una ragazza che non
aveva mai posato il capo, per più di quindici giorni, nello stesso luogo e, sebbene cresciuta tra gente sveglia, non
poteva che aver raccattato un’istruzione frammentaria e sconclusionata.
Fu
così che un pomeriggio squillò il campanello della casa del farmacista. Carlo
si precipitò ad aprire con la speranza di accogliere la ragazza della quale gli
avevano parlato. Era proprio lei, ed era bellissima. Il ragazzo fu quasi
tramortito da due occhi verdi che lo fissarono in volto con una forza e una
sicurezza che lo impietrirono. Non ebbe nemmeno la forza di abbassare gli occhi
o distogliere lo sguardo. Rimase a occhi spalancati e senza parole fino a
quando la ragazza sorrise e piegò la testa su un lato con quella mossa che, da
che mondo è mondo, serve a ispirare simpatia. Carlo, sebbene si fosse ripreso
solo parzialmente, le porse la mano, si presentò e le diede il benvenuto. Gli
automatismi inculcati da una buona educazione erano stati utili. La ragazza,
accompagnata da Carlo, incedette verso il salotto, dove l’attendeva la maestra
Stefania, con passo sicuro ed elegante, proprio quel passo con cui Carlo
l’avrebbe poi vista calcare il palcoscenico.
Carlo
si rese conto che da quel giorno le ragazze avrebbero rappresentato un
problema, anzi, il problema principale.
Stefania
accolse la nuova e temporanea allieva con una rapida stretta di mano, perché le
venne subito l’impulso di carezzarle fuggevolmente i capelli scuri, che erano
piuttosto corti e acconciati con una frangetta un po’ troppo precisa e curata
per una ragazzina di quell’età. Con quel gesto di tenerezza voleva mettere
Stella a
suo agio. E la ragazza stette al gioco, manifestando di gradire il gesto
con un timido sorriso, molto diverso da quello che aveva incantato Carlo sulla
porta di casa.
La
prima lezione durò una mezz’ora e il ragazzo, non avendolo la madre congedato,
ne fu silenzioso spettatore. Fu in
quello spazio di tempo che prese coscienza che sua madre non era la donna più
bella del mondo, o almeno era insidiata da quella ragazza piovuta chissà da
dove. Nel contempo assistette a un fenomeno particolare: la voce dell’allieva
aveva una strana musicalità, la dizione era perfetta, come quella che poteva
conoscere chi ascoltava la radio e andava al cinema, e sua madre affinava
progressivamente la propria dizione senza lasciar trapelare se lo facesse per
divertimento o per soggezione. Ma è possibile che lo facesse senza rendersene
conto. Quasi una gara tra la maestra e l’allieva.
Quando
Carlo la riaccompagnò alla porta, Stella lo interrogò: «Ti piacciono i
fumetti?» e, senza attendere risposta, «Io
ti posso prestare molti Albi dell’Intrepido,
che raccoglie mio zio Ruggero, se tu mi presti quei Topolino che stanno su una mensola, nel salotto di tua madre.
Preparali per domani, quando ritorno.»
Carlo fu messo a proprio agio da quella proposta di traffico culturale che gli dava modo di fare amicizia con la
ragazza senza doversi lambiccare il cervello per studiare una strategia.
Il
giorno seguente ottenne da sua madre, che comprendeva lo stato d’animo del
figlio, di partecipare alla lezione al fianco di Stella. In questa occasione Carlo si rese conto che
Stella, molto ignorante nelle materie scolastiche stabilite per la sua età,
possedeva un eloquio sciolto, maturo, molto più elegante di quello dei membri
del C.L.D., che gli era fino ad allora apparso come la quintessenza dell’intellettualità.
Soprattutto, Stella sapeva affrontare
con eleganza e profondità le passioni umane, come l’amore e l’odio, l’eroismo e
la viltà. Questi temi erano schivati dai provinciali del C.L.D., che avevano
paura di aprire la gabbia a quelle passioni che consideravano bestie selvatiche
e feroci. Ma Stella ne parlava con la competenza e l’efficacia che le derivava
dalla dimestichezza coi testi dei drammi popolari coi quali si doveva misurare
tutti i giorni. Carlo si rese conto che gli attori, aiutati o meno dal talento
naturale, non potevano essere in grado di interpretare senza commuoversi, cioè
senza comprendere e condividere la passione umana che il personaggio era
deputato a esprimere. E tutto ciò, nonostante i difetti, gli eccessi, i vizi e
i vezzi degli attori che il ragazzo intuiva, ma senza farsene un problema.
Alla
fine della lezione, Carlo, accompagnando Stella alla porta, le offrì i Topolino che gli erano stati richiesti,
anche se aveva già notato che la ragazza non aveva portato con sé gli Albi dell’Intrepido. «Vieni a trovarmi
stasera dietro al teatro, prima dello spettacolo» disse Stella respingendo
garbatamente l’offerta di Carlo. Poi lo salutò con un sorriso smagliante.
Dopo
cena, Carlo doveva recarsi con i genitori al Carro di Tespi per lo spettacolo d’esordio. Il C.L.D. aveva
sottoscritto un abbonamento collettivo coi posti riservati, perciò si poteva
arrivare anche all’ultimo momento. Ma Carlo chiese con tale apprensione il
permesso di avviarsi prima, da solo, che i genitori non ebbero il coraggio di
ostacolarlo. Così, quasi un’ora prima dell’inizio dello spettacolo, Carlo
cominciò a far capolino dallo spigolo di un muro, a giusta distanza per poter
vedere quando Stella fosse uscita dal retro del teatro. Trepidò per una
mezz’ora, cercando anche di darsi un contegno per non attirare la curiosità dei
passanti, quando avvistò la ragazza che entrava e usciva dal teatro. Allora
s’incamminò col pacchetto dei giornalini verso un incontro che, con sua grande
consolazione, avveniva in luogo pubblico. Così non si sarebbe trovato
nell’imbarazzo di un colloquio a quattr’occhi, al quale non si sentiva adatto e
preparato, e molti avrebbero potuto notare la sua amicizia con quella splendida
ragazza. Se poi l’avesse notata anche qualche suo compagno, magari uno di
quelli che non facevano altro che parlare e sparlare di donne, la soddisfazione
sarebbe stata grande. «Ma guarda che culo quel Ciccio Bomba! Zitto zitto, ha
accalappiato l’attricetta», avrebbe senz’altro detto qualcuno dei più
stronzetti… e gli sarebbe scoppiato il fegato.
L’incontro
fu breve, ma amichevole e foriero di futuri incontri. «Devo scappare a
cambiarmi per lo spettacolo» disse Stella durante lo scambio dei giornalini. «Stasera
applaudimi, mi raccomando, poi domani mi porti a fare un giro per il paese.
Ciao.»
Quando
Stella entrò in scena, nella parte di una delle due orfanelle, Carlo rimase stupito di come la sua amica sembrasse più
grande di almeno quattro anni. E, sebbene si spellasse le mani negli applausi,
non riuscì a seguire il filo dello spettacolo, tanto era assorto
nell’immaginare l’incontro di domani e quelli futuri.
Il
giorno seguente fu quello della passeggiata di Stella e Carlo lungo le vie e le
piazze di Collefino. Stella ascoltava le parole di Carlo, che le faceva da
guida illustrando come poteva le povere cose che offriva il paese, e sorrideva
a tutti. Carlo assumeva l’espressione di chi adempie un dovere di ospitalità,
salutava chiamando per nome quelli che conosceva meglio e facendo agli
altri un appena percettibile cenno col
capo. Inserì nella conversazione qualche aneddoto divertente che riguardava
persone viste per strada, anche perché si andava rendendo conto che l’ambiente
umano in cui Stella stava crescendo era quello della compagnia teatrale, forse
più stimolante, ma molto più ristretto della benché piccola comunità di
Collefino. In ogni modo, durante quella passeggiata, nonostante la tensione e
l’impegno, Carlo fece esperienza della vera felicità. Il culmine fu quando,
passando davanti alla farmacia, gli venne l’idea di entrare con Stella, di
infilarsi da solo nel retrobottega, di attirarvi suo padre e di chiedergli
cinquanta lire per offrire il gelato alla sua amica. Il farmacista guardò il figlio simulando una certa
severità, ma gli mise in mano un biglietto da cento lire.
Il
Caffè Rossetti - Gelateria era
l’unico di Collefino e produceva ben cinque gusti di gelato: cioccolato, crema,
nocciola, limone e caffè. Nonostante godesse di una posizione di monopolio, la
famiglia Rossetti faceva un ottimo gelato e, a detta di tutti, anche un
eccellente caffè. La consumazione dei
due enormi coni da venticinque lire, seduti su due sedie davanti al Caffè Rossetti – Gelateria, fu piuttosto
lunga, ma tale non parve a Carlo, che provava molto più gusto a guardare in tralice le facce dei passanti,
che a leccare quel trionfo di crema e di cioccolato.
Gli
incontri dei due ragazzi continuarono sia in occasione delle lezioni della
maestra Stefania, sia fuori del teatro, con scambi di giornalini, sia al bar,
con mangiate di enormi gelati, ma anche con bevute di aranciate e di gazzose,
fino a quando Stella non invitò Carlo dentro il teatro, per parlare senza gente
tra i piedi. Carlo andò, né gli passò per l’anticamera del cervello di
rifiutare, ma con uno strano malessere, perché si sentiva inadeguato a una
situazione che, per quello che poteva capire, era il sogno di ragazzi e ragazze
un po’ più grandi. Se l’invito gli fosse stato rivolto da una ragazzina di
Collefino, si sarebbe ben guardato dall’aderire, perché incontri troppo
appartati tra coppie di ragazzi, soprattutto se di sessi diversi, rientravano
tra le cose severamente proibite e altrettanto severamente punite. Ma Stella,
per una suggestione che forse il suo nome suggeriva, appariva a Carlo come una
splendida creatura scesa dal cielo, un essere estraneo alla volgarità del
piccolo mondo di Collefino e di altri simili posti. Stella era luminosa, non era pudibonda, come molte
ragazze del paese, né sfrontata, come altre, né incostante, come altre ancora.
Stella
accolse Carlo col suo bel sorriso, gli fece visitare tutto, proprio tutto, il
teatro e gliene svelò i segreti. Poi lo fece sedere in una poltroncina in fondo
alla piccola platea, salì sul palcoscenico e intonò una canzone accompagnandosi
con la chitarra. Mentre Stella, con voce intonata, anche se ancora un po’
infantile, cantava Torna a Surriento, Carlo,
ebbe paura della desolazione in cui sarebbe piombato dopo la partenza di
Stella. Sarà stato l’effetto della musica e delle parole di quella canzone,
ma aveva un gran voglia di piangere. Fu
solo grazie alla convinzione che i maschi devono trattenere ad ogni costo le
lacrime, che, con uno sforzo immane, riuscì a rimanere apparentemente
imperturbato. Stella non riuscì a finire la canzone, si andò a sedere vicino al
ragazzo. Avrebbe voluto domandargli: «Come sono andata? Si sente bene la mia
voce da quaggiù? Pensi che sia pronta per cantare in pubblico?». Ma non ci
riuscì. Carlo si accorse che Stella lacrimava e non si scompose fino a quando
la ragazza si asciugò le lacrime, si alzò e s’incamminò verso l’uscita.
Arrivò
il giorno della partenza della compagnia. La maestra Stefania volle
accompagnare la giovane allieva al treno, con un gesto di affetto ma anche di
riservatezza. L’addio a Stella sarebbe stato dato alla stazione ferroviaria di
Borgovecchio invece che alla partenza della corriera da Collefino. Così il
farmacista ingaggiò l’unico noleggiatore di auto del paese. Nel divanetto
posteriore della Fiat 1100 del 1939 si accomodarono, si fa per dire, la maestra
Stefania, il figlio Carlo e l’allieva Stella. Stefania si mise in mezzo, a
evitare una sconveniente contiguità tra i due giovani. Il farmacista si sedette
vicino all’autista.
Giunti
alla stazione ferroviaria, quando si vide e si sentì arrivare il treno, Carlo
lo guardò con la curiosità di un ragazzo che non ha mai visto un treno. Ma
subito si sentì preso da un odio feroce per quel mostro di ferro che avrebbe
inghiottito Stella e l’avrebbe portata lontano, tanto lontano che non l’avrebbe
vista più. Gli occhi, il sorriso, la voce, l’incedere elegante, le parole dolci
di quella cara e singolare creatura sarebbero scomparsi per sempre. E lui
sarebbe tornato il Ciccio Bomba di
prima, deriso dai compagni e guardato dalle
ragazze del paese con disattenzione e magari con una punta di compatimento.
“Maledetto
treno!”, andava ripetendo Carlo dentro di sé, mentre gli attori caricavano i
bagagli e prendevano posto. Il farmacista, che non aveva perso di vista quel
suo unico figlio evidentemente sofferente, gli si avvicinò, gli poggiò una mano
sulla spalla e, stringendola appena un po’, gli disse piano: «Il treno te l’ha
portata, e il treno te la porta via. Il treno ha avuto la sua parte nel
portarti una gioia che non passerà, perché farà parte dei tuoi ricordi.»
A
quel punto Stella, richiamata dai suoi, che avevano paura che il treno partisse
senza di lei, si precipitò da Carlo, lo abbracciò per la prima e l’ultima volta
e, per la prima e l’ultima volta, lo baciò sulla bocca con rapidità e con
intensità. Poi, mentre Carlo si toccava
le labbra, cercando di trattenere quella nuova e stupenda sensazione, Stella fu inghiottita dal treno.
LA FRASCHETTA
La bellezza straordinaria di Elviretta
preoccupa la famiglia e agita i cuori.
d
aprile, dopo aver travasato il vino, il Pretozzo riaprì la sua fraschetta.
Aveva tirato a lustro l’ampio tinaio; le due tine di castagno, una grande per
il bianco e una piccola per il rosso, erano state accuratamente lavate dentro e
fuori; i tavoli e le panche, con l’aggiunta di qualche sedia impagliata, erano
stati disposti a ridosso delle pareti libere, di cui era stata rinnovata la
foderatura con carta da pacchi, a salvaguardia delle giubbe degli avventori.
Il
Pretozzo aveva una marcia in più rispetto agli altri agricoltori che aprivano
fraschette. Una prova era la carta da pacchi invece dei fogli di giornale,
un’altra il fissaggio al muro della
carta coi tappi a corona della Birra Peroni trapassati da un chiodo.
Ma
quell’anno c’era un’altra novità. Stava per ritornare da Roma Elviretta,
l’unica figlia del Pretozzo, che era andata per alcuni anni a vivere con la zia
per prendere la licenza media. A scuola la ragazza se l’era presa comoda e il
padre aveva dovuto mandare alla sorella polli, patate, uova, formaggi e ogni altro ben di Dio per sei lunghi anni
scolastici.
Quando
il Pretozzo, a fine giugno, andò a prendere la figlia alla corriera, rimase un
po’ frastornato dall’av-venenza della ragazza diciassettenne, anche se l’aveva
vista soltanto tre mesi prima, a Pasqua. Ma questa volta l’emozione paterna era
influenzata dal suo proposito di mettere la figlia come aiuto nella fraschetta,
lasciando la madre alle mille incombenze della moglie di un coltivatore
diretto.
Sarebbe
stato opportuno mettere la figlia, giovane
e attraente, sotto lo sguardo degli avventori della fraschetta, tutti
maschi, e alla portata delle loro lingue e delle loro mani? Avrebbe dovuto
marcarla stretta, ma inevitabil-mente sarebbe rimasta sola in alcune ore della
giornata. E il vino da smaltire era
tanto. La vendita si sarebbe protratta fino alla fine di settembre. Tre mesi di
ansia.
D’altra
parte, la presenza della ragazza, purché ben istruita sul modo di vestire, di
parlare e di muoversi per non provocare gli avventori, poteva essere utile per gli affari della
famiglia.
Il
Pretozzo imbottì la figlia di prediche e la madre rincarò la dose, e, dopo
qualche giorno, Elviretta fece il suo ingresso nella fraschetta. L’avevano
fatta vestire con un abito più che modesto e, per giunta, le avevano fatto
indossare un grembiule grigio da cantiniera.
Il
Pretozzo dovette rendersi conto che gli uomini, quando la bellezza femminile
esorbita dalla normalità, non hanno
bisogno di essere attratti dagli abiti, dal trucco e dalle movenze. Giovani e
vecchi sono colti da una specie di follia collettiva.
Il
vecchio poeta, che non manca mai tra gli avventori di una fraschetta, non
riuscì a trattenersi dal dedicarle un’ottava:
Dal giorno che Elviretta è qui
presente
ad allietare tutti gli
avventori
mostrando una bellezza
sconvolgente,
è finita la pace in tutti i
cuori.
Se ognuno confidasse ciò che
sente,
tutti il Pretozzo metterebbe
fuori.
Perciò meglio è star zitti e
riservati…
anche se siamo tutti
innamorati.
Il
Pretozzo non era presente quando il poeta cantò l’ottava, ma lo venne a sapere
e meditò seriamente di ritirare la figlia dalla fraschetta. Però il conflitto
tra la responsabilità di padre e l’interesse economico non durò a lungo, perché
il vino fu esaurito prima di Ferragosto.