giovedì 27 agosto 2015




UN AMORE DI BADANTE

Una graziosa badante fa innamorare il nipote della sua assistita, poi gli riserva una grossa sorpresa.

C
arlo ha varcato la soglia della trentina inquietante, torbida d’istinti moribondi, come la stigmatizzò Guido Gozzano; ma è sereno. Da qualche tempo ha rotto il lungo fidanzamento con Claudia. Lei gli ha detto, con sincerità: «Non capisco perché stiamo ancora insieme». E lui le ha risposto, con altrettanta sincerità: «Nemmeno io.»
Adesso Carlo respira l’aria frizzante della libertà, in uno stato di rilassamento della mente e dei sensi; sebbene consapevole che affiorerà, prima o poi, la paura della solitudine.
Intanto la nonna s’è ammalata e non è più in grado di vivere sola nella sua casa.
«Carlo, non dovete preoccuparvi per me. Ho assunto una badante. Se vieni a trovarmi te la presento.» La telefonata della nonna incuriosisce il giovane, che dopo qualche ora, benché abbia la chiave, suona alla porta del ben noto appartamento.
Viene ad aprire una giovane donna in tuta lilla e scarpe da tennis, che lo invita a entrare con un: «Priego, si accuomodi
«Sono Carlo, il nipote della signora Evelina... piacere.»
«Piaciere… Svetlana.»
La nonna non vedeva l’ora di raccontare al nipote della badante appena assunta: «È bielorussa, ha trentotto anni… L’ho già messa in regola... Me l’ha raccomandata l’infermiera che viene per le punture. Parla poco l’italiano, ma capisce quasi tutto… E poi è una bella donna… hai notato?»
«Certo che ho notato.»
E mentre la nonna racconta i suoi acciacchi, Carlo guarda in tralice Svetlana che si muove con agilità e con premura.
«Attienta nuonna!» esclama la bielorussa, essendosi accorta che la vecchia signora rischia di rovesciarsi addosso l’infuso d’orzo.
Carlo nota che la badante è molto giovanile e i capelli biondi raccolti a coda di cavallo ne mettono in risalto il bel collo e le orecchie ben proporzionate. Svetlana mostra di accorgersi di essere osservata e abbassa i begli occhi azzurri… un po’ pudicamente e un po’ vezzosamente.
Da quel giorno le visite alla nonna diventano quotidiane e Carlo non manca mai di dedicare qualche minuto anche alla badante, con la scusa d’interessarsi delle sue peripezie  per raggiungere l’Italia e trovarvi lavoro... Anche se la bielorussa trova difficoltà ad esprimersi in italiano e, quando prova a rispondere in inglese, è Carlo a trovarsi in difficoltà.
La nonna si rende perfettamente conto delle attenzioni di Carlo alla badante, ma evita di fare illazioni, per non sciupare quell’incentivo alle gradite visite del nipote.
Finché, un bel giorno, nell’accompagnare Carlo alla porta, Svetlana si offre di fargli compagnia fino al portone. 
Appena si chiude la porta dell’ascensore, la badante abbraccia Carlo e gli stampa un caldo bacio sulla bocca, poi gli sussurra: «Ti amo tanto!»
«Ti amo e ti desidero» risponde Carlo.
«Dove?... Quando?» interroga la donna.
Il primo giorno di riposo della badante, la coppia si ritrova in una stanza d’albergo. Entrambi nudi sotto le coperte, animati dal fuoco    dell’innamoramento,    dediti    ai    pochi preliminari richiesti dal lungo digiuno sessuale.
Ma la donna, improvvisamente, si ritrae, si mette seduta a ridosso del cuscino, si tira il lenzuolo fino a coprirsi il petto e, con accento campano-veneto, dice tutto ciò che ha da dire: «Adesso, bello mio, devi sapere la verità… tutta la verità… Non sono bielorussa, non mi chiamo Svetlana e non ho trentotto anni. Ma sono di Latina, mi chiamo Donatella e ho ventisette anni. Il passaporto e il permesso di soggiorno li ho comprati da una disgraziata che aveva un altro passaporto e doveva rientrare in patria. Ho pensato che, passando per straniera, avrei trovato facilmente vitto, alloggio e stipendio… e che nessuno avrebbe indagato sulla mia famiglia. Con una madre ammazzata dal marito e un padre in galera non avrei avuto molte possibilità.»
Carlo cerca di rimettere in ordine la sua mente e il suo corpo, entrambi storditi da quella gragnola di pugni. Ma sia il software che l’hardware non rispondono.
Deve intervenire nuovamente la donna: «Adesso, bello mio, vediamo se Donatella è in grado di portare a buon fine quel che Svetlana ha preparato... Se sono riuscita a farti innamorare una volta, perché non dovrei riuscirci la seconda?... Del resto sono sempre la stessa persona.»
Poi Donatella comincia ad armeggiare  per risvegliare la virilità di Carlo e, appena verifica di esserci riuscita, conclude dantescamente: «Poscia, più che ’l dolor, poté il digiuno


LA NEVICATA DELL’85

Francesca e Stefano rimangono soli in casa durante la storica nevicata. Una situazione ideale per lo scatenamento dell’eros.

R
adi fiocchi di neve, timidamente, esplorano il terreno. Giovanni teme il ritorno dell’inverno, quello vero, che nel 1985 gli segnò il cuore con una piaga indelebile.
I genitori di Francesca erano in settimana bianca; la giovane aveva organizzato una festicciola con i più affiatati compagni di liceo:  una decina, tra ragazzi e ragazze, tutti  matricole universitarie di belle speranze, tranne Stefano. Questi aveva acciuffato per un pelo la maturità e lo stress dello studio forzato e degli esami gli aveva annientato ogni capacità di proseguire negli studi. Diceva che si sarebbe imbarcato su un mercantile e avrebbe girato il mondo alla ricerca di se stesso. L’insinuazione beffarda dei compagni che, per quanti sforzi avesse fatto, non avrebbe trovato niente, non sembrava scuoterlo. Inutile dire che l’ostinazione di Stefano affascinava le ragazze. Soprattutto quando inventava itinerari internazionali, citando Paesi di cui sapevano poco e città che non avevano mai sentito nominare. Ovviamente, se le ragazze erano attratte da Stefano, i ragazzi ne erano irritati, ma non tanto da escluderlo dalla compagnia. Del resto ciascuno di loro s’immaginava già principe del foro, o chirurgo di successo, o ricco commercialista… e quel pazzerello di Stefano faceva un po’ di tenerezza.
Quando fu finita la pizza e si passò ai salumi e ai formaggi, il vino aveva già cominciato a scaldare l’atmosfera, e il conseguente ottimismo fece sottovalutare l’intensità della nevicata che stava cominciando. Ma uno di loro era più lucido e più guardingo.
«Me ne torno a casa» disse a un certo punto Stefano, «questa nevicata non mi piace, se continua per un’altra mezz’ora si blocca la città. Vi consiglio di smammare anche voi.»
«Tu saresti colui che vorrebbe affrontare i mari in tempesta!» lo provocò Valerio, il più loquace della compagnia.
«Ce l’avete con lui perché non è un piccolo borghese ambizioso come noi. La sua non è pavidità, ma saggezza di chi si appresta ad affrontare il mondo senza intisichirsi su mucchi di libri; senza disseccarsi in studi che dovrebbero garantire la perpetuazione del nostro benessere di topi che hanno paura di abbandonare la dispensa» disse Simonetta, la più intellettuale del gruppo, cercando una sintesi tra concetti socio-psicologici e pulsioni senti-mentali.
Stefano mantenne quell’atteggiamento di sicurezza che tanto piaceva alle donne. Salutò con bacetti discreti le compagne e con strette di mano i compagni, s’incappottò e si diresse verso l’uscita consigliando, con estrema concisione: «Smammate!»
La nevicata continuava minacciosa e tutti seguirono il consiglio di Stefano.
Tutti, tranne uno: Giovanni.
«Anche i miei sono in settimana bianca. Nessuno mi aspetta. Posso fermarmi?»
«Certo…  la nevicata, prima o poi, finirà; e, comunque vada, ci sono in casa vari letti per dormire.»
Giovanni colse nelle parole di Francesca un tentativo, forse subliminale, di seduzione… sufficiente per infiammare la sua giovanile vitalità. L’immaginazione del giovane vide rifulgere di seducente femminilità quell’amica carina, ma fredda e distaccata, che sembrava portare scritto in fronte non ci provare, perché perderesti tempo.
A Giovanni sembrò doveroso, anzi inevitabile, intraprendere un garbato corteggiamento.
«Francesca, a me fa molto piacere farti compagnia, ma, se ti senti in imbarazzo, non farti scrupoli… non ho paura di affrontare la neve.»
«Ti prego, resta. Non ti mangio mica. Vieni a sederti con me sul divano, stiamo vicini e godiamoci questa strana neve incessante che sta coprendo ogni cosa e silenziando la città.»
Il giovane si sedette accanto a Francesca, non tanto vicino da toccarla, ma nemmeno tanto lontano da non essere raggiunto da un micidiale impasto: l’odore di una colonia di gran marca con quello di un  corpo accaldato di giovane donna.
«Giovanni, avvicìnati, passami un braccio intorno alle spalle; vieni, stiamo un po’ guancia a guancia.»
Giovanni eseguì con crescente turbamento e azzardò un bacio sulla guancia della ragazza.
Con uno scatto improvviso, Francesca saltò a cavalcioni su Giovanni, gli afferrò la nuca, pretese di essere baciata sulla bocca con energia e innescò un’azione che, nonostante il diaframma degli indumenti, spossò entrambi in pochi minuti.
Mentre i due giovani, strettamente abbracciati, cercavano di mettere ordine nei rispettivi stati d’animo, squillò il telefono. Francesca si sciolse dall’abbraccio e andò a rispondere nell’altra stanza.
Il silenzio reso profondo dalla neve, l’udito perfetto di Giovanni e l’imprudenza (?) di Francesca consentirono al giovane di captare le seguenti parole: «Stefano, stai tranquillo, sai che amo solo te e desidero solo te… Adesso ti saluto.. ciao, ciao, ciao.»


ANA CLARA

Un funzionario comunale, trascurato dalla moglie, trova il modo di superare lo sconforto.

D
ino Serranti, dottore in scienze politiche, è un funzionario del Comune di Roma che, alla soglia dei cinquant’anni, sta attraversando un periodo difficile.
La moglie Tiziana, da quando è diventata nonna, trascorre lunghi periodi a Milano, dove risiede la figlia. I periodi di lontananza si sono fatti sempre più lunghi e, nei brevi rientri a Roma, Tiziana si mostra sempre più fredda col marito.
Dino ha cercato di parlare alla moglie del proprio disagio per la piega che ha preso il loro matrimonio, ma ha ricevuto una dura risposta:  «Méttiti in testa che Valeria mi preme più di te. Sono ancora giovane  e posso aiutarla a tirare su il bambino senza che sia costretta a sacrificare la sua professione. Non le peso finanziariamente, come non ho mai pesato su di te, perché, grazie all’esodo dalle Poste, ho la mia pensione.»
Dino si è chiuso, più che nel rancore, nel senso d’inutilità della propria vita. È così che, quando la sua solitudine (in tutti sensi) comincia  a pesargli, decide di provvedere, a cominciare dal cercare un aiuto per le faccende domestiche. Infatti questo impegno l’opprime più del letto vuoto e delle serate in solitudine davanti al televisore.
Oliviero, il barista del locale che frequenta da anni, è l’uomo  più adatto per dargli un aiuto nel cercare una domestica affidabile.
Oliviero non lo delude e, il giorno dopo, gli prospetta la soluzione.
«Lei è razzista dotto’?»
«No, assolutamente no!»
«Allora ho trovato quella che fa per lei. È una donna capoverdiana sulla trentina, di pelle scura… insomma è una mulatta. Deve lasciare il lavoro attuale presso una famiglia perché non la vogliono mettere in regola con la nuova legge. Se lei è disposto a regolarizzarla è tutta sua.»
«Ma è una persona affidabile?»
«Tutta casa e chiesa. Certo, provenendo dai tropici, ha un comportamento un po’ flemmatico, cioè fa il proprio dovere senza agitarsi.»
«Mi ci faccia parlare. Grazie!... Per ora.»
Ana Clara è proprio scura. Seduta su una poltrona  del salotto, espone le proprie condizioni a Dino.
«Vorrei essere regolarizzata per avere il permesso di soggiorno. Chiedo vitto e alloggio e orario e paga sindacale. So fare tutte le normali faccende domestiche.»
«Per me va bene. Adesso mi dica qualcosa della sua vita.»
«Cioè?»
«Mi dica dove è nata e cresciuta e come è arrivata a Roma. Mi parli della sua famiglia.»
«Sono nata e cresciuta a Tarrafal de São Nicolau, nello stato di Capo Verde. Sono di religione cattolica. Mi hanno trovato un posto a Roma i francescani che hanno una missione nella mia città. Sono arrivata con un visto turistico e, quando è scaduto, sono entrata in clande-stinità. Ho due figli che vivono a Capo Verde, a casa di mio padre, insieme ad altre tre sorelle che hanno due figli ciascuna. Non ho un marito.  Ma non mi consideri una donna leggera, perché a Capo Verde le ragazze mettono al mondo dei figli per il piacere di essere madri e, se il fidanzato non le sposa o il marito si dilegua, i nonni materni sono felici di tenere figlie e nipoti nelle loro case.»
Sei mesi dopo, Tiziana entra nella casa di Roma per fare una cernita di documenti, abiti e oggetti da portare a Milano per il proprio trasferimento definitivo. La casa è vuota, ma si accorge che c’è qualcosa di strano. Indumenti femminili che non sono i suoi, indumenti di bambini  e fotografie di gente di colore incorniciate e sparse un po’ dappertutto. Si distende nel divano del salotto per evitare uno svenimento e, quando riapre gli occhi, si trova davanti, poggiata sul tavolino,  una grande cornice d’argento che contiene una foto illuminante. Suo marito  tiene sulle ginocchia  un bambino e una bambina di colore e ha la mano destra poggiata sul ventre di una donna di colore in evidente stato di gravidanza. Dino e la donna si guardano e si sorridono.
Tiziana raccoglie in fretta le poche cose che le appartengono, le stipa  nel trolley e se la svigna.
A Milano l’attende l’uomo che le ha preso il cuore. Dino e i suoi mulatti non avranno fastidi.


GITA A BELGRADO

Una moglie maltrattata dal marito trova conforto durante una gita a Belgrado.

S
ono le sei del mattino. Teodoro Pavan, provvisto della sua nuova borsa da viaggio, si ferma davanti al passaggio  pedonale che immette in piazza dell’Unità d’Italia, nel lato dove prospetta il  Palazzo della Regione Friuli-Venezia Giulia.
«Anche voi state aspettando il pullman della gita a Belgrado?» chiede Teodoro a una coppia che  sta lì in piedi, affiancata da due trolley.
«Sì, l’appuntamento è proprio qui» risponde l’uomo.
«La ringrazio, non ero sicuro del posto esatto dove si ferma il pullman per raccogliere noi di Trieste.»
«Noi siamo Marisa e Arnaldo Carniel, e lei?» interviene la donna.
«Mi chiamo Teodoro Pavan.»
«È solo?» s’informa la signora Marisa, mentre la faccia di Arnaldo Carniel esprime disapprovazione per la curiosità della moglie.
«Sì, sono solo.»
«È  celibe?» incalza la signora Marisa mentre il marito dà segni evidenti d’insofferenza.
«Sì, vivo da solo e sono abituato a viaggiare da solo.»
La conversazione s’interrompe perché sta fermandosi il pullman carico di udinesi assonnati.
L’accompagnatrice turistica invita Teodoro a prendere posto: «Lei è fortunato, signor Pavan,  ha a disposizione due posti.»
«Questa volta l’essere celibe mi avvantaggia.»
«Dica piuttosto che non si è svegliata una bella ragazza di Udine che avrebbe dovuto sedere accanto a lei.»
«La chiama fortuna, questa?»
«Quando avrà  finito di conversare, signorina, ci dica dove dobbiamo sederci» interviene seccato Arnaldo Carniel.
«Chiedo scusa, i vostri posti sono sull’altro lato… tre file più indietro.»
«Proprio sulle ruote posteriori» si lamenta il signor Arnaldo, disapprovato dalla moglie con una leggera gomitata.
“Non mi sembrano due coniugi affiatati” pensa Teodoro Pavan. “Devono avere all’incirca la mia età, tra i quaranta  e i cinquanta. Lei è piuttosto sveglia e attraente. Lui è scostante… e piuttosto brutto. Non per la calvizie (anch’io sono calvo e non mi considero brutto), ma perché la nasconde con un parrucchino scuro. Le rughe precoci, in particolare quelle intorno alla bocca, rivelano un temperamento bilioso…  Ma la signora non è niente male…  e lui non può non soffrirne.”
Teodoro, mentre gli udinesi sonnecchiano, cerca di concentrarsi nella lettura del Mangialibri  di Klaas Huinzing, ma la sua attenzione è attirata dai coniugi Carniel, che bisticciano continuamente, anche se a voce bassa, appena percettibile da dove siede  Teodoro.
Dopo un quarto d’ora di discussione a bassa voce, Marisa Carniel si alza di scatto e va sedersi accanto a Teodoro.
«La disturbo se mi siedo qui?»
«S’accomodi pure.»
«Lei si domanderà che mi sta succedendo.» 
«Questo è ovvio, ma non è tenuta  a darmi spiegazioni.»
«Mio marito s’irrita ogni volta che mi vede serena e felice. Adesso sta facendo del tutto per rovinarmi questa gita.»
«Ci vuole pazienza. Il rapporto di coppia ha alti e bassi.»
«Io la pazienza l’ho esaurita.»
«Mi dispiace… Adesso si rilassi.»
Marisa tira indietro lo schienale della poltrona e assume un postura di elegante abbandono, che il viso ormai sorridente rende leggermente voluttuosa.
La conversazione dura un paio d’ore, senza che Arnaldo Carniel venga a reclamare  la consorte. E quando il pullman fa sosta per la prima colazione nel bar di una stazione di servizio, Teodoro e Marisa sanno molte cose l’uno dell’altra e possono considerarsi amici. Ma nel bar i due si tengono a distanza per un tacito accordo di non provocare ulteriormente il signor Arnaldo. Anzi, Marisa si avvicina al marito e gli dice qualcosa che fa il suo effetto, perché, quando risalgono sul pullman, tornano a sedersi vicini.
Durante il veloce pranzo in un self service, i due coniugi stanno insieme e Teodoro si sforza di non guardarli, ma quel che vede gli basta per notare che si parlano poco  e con freddezza.
Nel primo pomeriggio il pullman scarica i passeggeri alle terme di Baja Rusanda, in Voivodina, dove è prevista una lunga sosta per usufruire dei servizi termali. Teodoro sceglie la piscina e, quando vede arrivare Marisa in costume da bagno, ricorda, dopo un leggero e piacevole shock, che l’amica gli aveva detto della preferenza del marito per i fanghi. E Teodoro le aveva detto della propria preferenza per la piscina.
«Complimenti, hai proprio un bel fisico!»
«Grazie, ma non sono dell’umore giusto per apprezzare i complimenti… Mio marito mi sta esasperando… Se potessi tornerei indietro.»
Ma la signora Marisa non sembra troppo esasperata quando si muove abilmente nell’acqua e richiama l’attenzione di Teodoro: «Guarda un po’ che sa fare una professoressa di educazione fisica.»
La sera, dopo la cena nell’Hotel Centar di Novi Sad, che Marisa consuma a fianco del marito, sempre più indispettito, i gitanti si ritirano nella loro camere.
Teodoro si fa una doccia e si distende sul letto con in mano il Mangialibri e nella mente una segreta speranza.
Marisa bussa e chiede di entrare. Indossa l’accappatoio bianco dell’albergo: «Mio marito mi ha fatto una scenata e se n’è andato a fare una passeggiata notturna per smaltire la rabbia. Ma credo che si fermerà al bar qui sotto fino  a quando non dovrò andare a recuperarlo ubriaco.»
Ciò detto, si siede sul letto e si toglie l’accappatoio: «Mi vuoi?»
Caso tipico di domanda retorica.


TORREDIRUTA

Sergio Mattei, neolaureato in filosofia, è stato abbandonato dalla fidanzata. Per superare la malinconia va a villeggiare in un paesino sperduto. Proprio il posto che gli ci voleva.

Essere un filosofo non significa avere raffinati pensieri… Consiste nel risolvere i problemi della vita, non in teoria, ma in pratica.
Henry David Thoreau

L
a laurea in filosofia non aveva portato  fortuna  a Sergio Mattei. La donna che amava intensamente, illudendosi di essere altrettanto intensamente ricambiato, non si era presentata per assistere all’esame di laurea. Olga si era resa irreperibile e il giorno seguente gli aveva inviato un messaggio con la posta elettronica: «Adesso che ti sei laureato posso dirtelo senza lo scrupolo di influire negativamente sul tuo esame. La lettura della tua tesi su  Kierkegaard mi ha angosciato, però mi ha aperto gli occhi. Come fa una geologa a passare la vita con un segaiolo mentale?  Parto domani per le Cascate dell’Iguazú. Non so quando ritornerò. Non cercarmi. Addio.»
Il padre di Sergio, vedovo e con quel solo figlio, si era reso conto del suo stato di prostrazione e lo aveva invitato a collaborare nel proprio negozio di macellaio: «Così ti guadagni il pane fino a quando non avrai trovato un lavoro confacente ai tuoi studi. E chissà che non ti venga la voglia di ereditare il mestiere di tuo padre e  rinunciare a una vita da povero.»
Sergio era troppo abbattuto per avere la forza di rifiutare e poi si sentiva in dovere di non stare con le mani in mano mentre suo padre  si sfiancava per non farlo mancare di nulla.
Sono passate alcune settimane, ma l’umor nero di Sergio persiste. Arrivata l’estate, il padre decide di  spingerlo a fare una vacanza. Scelgono insieme un borgo di montagna, dove una famiglia annuncia su internet di offrire alloggio e pensione completa a una persona, nei mesi di luglio e agosto, per periodi non inferiori a 15 giorni.
La prospettiva di fare lunghe passeggiate solitarie e di respirare aria buona alletta un po’ Sergio, che prenota per la prima quindicina di luglio.
La mattina del 1° luglio, dopo un lungo viaggio per strade inconsuete e dieci chilometri finali di strada a fondo naturale, sale con la propria utilitaria a Torrediruta. Benedice il navigatore satellitare e  bussa alla porta di casa Fortini col prevalente desiderio di fare una bella doccia.
«Sono Sergio Mattei… piacere.»
«Piacere… Sono Vera Fortini» risponde  la quarantenne belloccia  che è venuta ad aprire, «s’accomodi, tiri dentro il trolley e si sieda. Prendiamo un caffè a facciamo quattro chiacchiere… Sabinaaa! »
Sergio non fa in tempo a sedersi che compare la copia ventenne di Vera.
«Ha bisogno del bagno?» si premura di chiedere Vera, mentre Sabina sta squadrando l’ospite senza nascondere una punta di piacevole sorpresa.
«Veramente avrei solo bisogno di una doccia.»
«Ah! La doccia è il vanto di questa casa» lo rassicura Vera. «L’abbiamo installata l’anno scorso, quando hanno costruito il serbatoio di accumulo sui ruderi della torre e l’acqua non manca più… salvo imprevisti. Io e Sabina stiamo sempre sotto la doccia: almeno due volte al giorno e, d’estate, anche tre.
Sergio si rende conto che dovrà dividere il bagno con la famiglia... Ma com’è composta la famiglia?
Vera intuisce il pensiero di Sergio: «Non si preoccupi, io  e mia figlia siamo sole. Mio marito se n’è andato da un pezzo, s’è fatto un’altra famiglia e ci manda qualcosa per vivere. Sabina poi va a passare i fine settimana dal fidanzato,  che sta a Vallebassa. Ma stia tranquillo, sono io che cucino e faccio le camere.»
«Scusatemi se metto becco» interviene Sabina, «ma il signore viene dalla città e bisogna spiegargli che qui ci troviamo in una frazione sperduta di appena cinquanta abitanti. Ma possiamo offrire aria buona e un bel panorama, una casa modesta ma pulita e una camera che cedo volentieri andando a dormire nel lettone con mia madre. Possiamo anche offrire cibo buono, perché mia madre cucina bene e anch’io m’arrangio. C’è un particolare: le porte della stanze, compreso il bagno, hanno vecchie serrature, ma si sono perse le chiavi… Basta bussare.»
Sergio finalmente può entrare nella camera che gli è stata assegnata e prenderne possesso con l’assistenza premurosa delle due donne. L’ambiente ha una rusticità montana: soffitto basso con grosse travi e tavole, un assito per pavimento, finestra piccola rivolta ai ruderi della torre che dà il nome al villaggio, un letto di ferro, un comodino e un armadio ottocenteschi.
Uscite le donne,  Sergio prova l’emozione della doccia. È abituato, vivendo solo con suo padre, a non chiudere  a chiave le porte. Ma qui ci sono in giro due donne con due paia di occhi molti vispi.
Rientrato in camera,  non appena ha finito di vestirsi, sente bussare. Vera, con la tempestività di chi conosce bene gli uomini, vuole prendere accordi sul vitto.
Sergio rassicura Vera di non avere particolari esigenze alimentari. Preparasse tranquillamente ciò che vuole.
«D’accordo, anche perché strada facendo s’aggiusta la soma
«Che vuol dire?» 
«È un proverbio che deriva dal fatto che mentre l’asino cammina, il carico legato al basto si assesta. Nel nostro caso, mangiando troveremo la soluzione migliore. Intanto vado a preparare le tagliatelle per il pranzo di oggi.»
«Posso assistere alla preparazione?»
«Vuole controllare se sono brava?»
«In verità non ho mai visto preparare le tagliatelle in casa.»
Vera si lava accuratamente le mani; indossa un grembiule bianco, fresco di bucato; sfila la spianatoia e il mattarello di faggio dagli appositi alloggiamenti nel tavolo della cucina;  pone su un angolo della spianatoia un vaso di coccio pieno di farina e due grosse uova.
«Oggi adopero due uova d’oca invece di quattro di gallina, perché l’uovo dell’oca pesa il doppio dell’uovo di gallina. E poi è più grasso e la pasta viene più buona.»
«Come si calcola la quantità delle uova?»
«Un uovo di gallina per ogni persona più uno ogni tre persone. Questa è la mia dose.»
Sergio guarda affascinato le mani di Vera  che preparano la pasta, la manipolano, la stendono col mattarello e, dopo una breve asciugatura della sfoglia, data la stagione estiva, l’arrotolano e la tagliano a striscioline.
In verità Sergio non guarda solo le mani di Vera, ma anche il leggero tremolio del petto della donna, ben consistente e  contenuto dal reggiseno. Non può fare a meno di paragonarlo ai modesti seni della geologa, che ancora incombe nei propri pensieri.
L’affabilità di madre e figlia è talmente coinvolgente che, in un paio di giorni,  Sergio si scioglie, recupera il buonumore e comincia a pensare sempre meno intensa-mente a Olga.
Ormai i tre formano un terzetto molto affiatato e si danno del tu, giocano a carte e, nelle ore fresche della sera, vegliano fino a tardi sotto un piccolo portico, conversando del più e del meno.
«Ho letto da qualche parte» lo provoca Sabina  «che se  un filosofo ti dà una risposta, non sei più in grado di capire nemmeno la domanda che avevi posto; ma tu non parli difficile… che razza di filosofo sei?»
«In primo luogo, non sono un filosofo, ma un semplice studioso delle opere dei filosofi; in secondo luogo, ogni disciplina ha il suo linguaggio che serve agli esperti per intendersi meglio tra di loro, ma che è più o meno incomprensibile ai non esperti;  in terzo luogo, tieni conto che siamo tutti, in un certo senso,  dei filosofi, altrimenti vivremmo in modo del tutto insensato.»
«Lo sapevo che non dovevo provocarti!»
«S’è fatto tardi» interloquisce Vera, ponendo fine alle provocazioni della figlia che costringono il giovane a risposte complicate. «Domani mi alzo presto per scendere a Vallebassa a fare la spesa. È giorno di mercato.»
«Se vuoi, ti accompagno volentieri» si offre Sergio.
«Ti ringrazio, ma tu sei qui in vacanza ed è meglio che vada a fare una passeggiata. Anche Sabina rimane qui perché deve mettere in ordine la casa.»
Il mattino seguente, quando Sergio va a fare la doccia, s’accorge che la porta del bagno non è ben chiusa e che dentro c’è qualcuno. Quando mette a fuoco lo spiraglio della porta, non può fare a meno di vedere Sabina che si sta asciugando. Con una carta calma, essendo un uomo rispettoso, ma pur sempre un uomo, si ritira nella propria camera.
Dopo qualche istante, lo raggiunge Sabina, che indossa un accappatoio blu: «Il bagno è libero. Tocca a te, mio bel guardone.»
A questo punto i sensi del giovane sono all’erta, ma l’abitudine a riflettere, che gli ha inculcato la filosofia, lo porta ad attendere la terza provocazione. In attesa degli eventi, decide così di andare a lavarsi, di vestirsi, di sedersi sul letto e di prendere in mano uno dei libri che ha portato con sé, il Diario di un seduttore di Søren Kierkegaard.
Non passano dieci minuti che Sabina chiede di entrare e si va a sedere sul letto al fianco di Sergio. Indossa un abitino da casa a fiori rossi su fondo rosa e porta i lunghi capelli castani raccolti a crocchia.
«Vorrei sapere perché non mi fai la corte. Ho qualcosa che non va?»
«Non ti manca proprio niente.»
«E allora?  Non mi pare che tu abbia un’innamorata, altrimenti non saresti salito quassù a passare le vacanze.»
«Non ho un’innamorata, ma un innamorato l’hai tu.»
«L’avevo. Domenica passata ho rotto e alla fine di questa settimana non scenderò a Vallebassa» lo rassicura Sabina sorridendo.
«L’hai presa bene!»
«E se il motivo del mio buonumore fossi tu?»
Ciò detto, Sabina afferra il libro di Kierkegaard e lo fa volare sul comò: «Vediamo se hai imparato qualcosa dell’arte del seduttore.»
«Veramente… Kierkegaard … »
«Zitto! Non me ne frega niente di Kierkegaard» chiarisce Sabina… e gli chiude la bocca con un bacio. «Adesso chiudo la porta a chiave, così ce la prendiamo comoda.»
«Da dove è uscita fuori codesta chiave?»
«È un segreto» dichiara Sabina, strizzando l’occhio mentre scioglie i capelli. Poi i giovani si liberano degli indumenti aiutandosi a vicenda. Ma lo fanno molto rapidamente perché quel che si aspettano (e che accadrà) è un piacere intenso, gioioso e appagante.
“Questa casa è più sconvolgente della cascate dell’Iguazú” riflette Sergio tra il primo e il secondo amplesso. “Che la geologa vada a farsi fottere dove vuole!”
I giorni che seguono sono pieni di sesso, di conversazioni e di progetti.  Alle conversazioni e ai progetti partecipa molto attivamente anche Vera, alla quale Sergio propone di fare conoscenza col padre. Chissà che non ne esca una seconda coppia?  Si potrebbe vivere tutti in città con la macelleria e villeggiare a Torrediruta.
«Se son rose fioriranno!» sospira Vera, che in cuor suo non vede l’ora di conoscere il padre di Sergio.

ODORE DI COCCOINA

Un quindicenne alle prese con una maestra molto particolare.

I
n un casa di paese, pochi anni dopo la fine della seconda guerra mondiale.
«Ti rendi conto che Moreno è quasi analfabeta? Se la cava coi conti e legge tanto, ma non sa scrivere. La mia povera sorella, Dio l’abbia in pace! lo levò da scuola quando lo bocciarono all’esame di terza elementare. Ma che poteva fare? Quel debosciato di mio cognato, che il diavolo se lo porti! non è stato mai in grado di guadagnarsi il pane. Aveva tante idee ma non le sapeva mettere in pratica; passava da un mestiere all’altro; così mia sorella si doveva rompere le reni per far mangiare la famiglia. Non poteva durare. Adesso mi ritrovo con questo nipote orfano di entrambi i genitori e semianalfabeta. Ma non mi sembra stupido… anche se s’imbambola  troppo spesso…  per i miei gusti.»
Lina, fiera donna di mezz’età, si sta sfogando col marito Abelardo, severo ex appuntato dei Carabinieri. Si stanno coricando, ed è l’unico momento della giornata in cui si trovano insieme da soli. Non hanno avuto figli, anche perché si sono sposati in età matura, e Moreno, l’orfano di fatto adottato, vive con loro e cresce sano e robusto, soprattutto da quando riesce a mangiare almeno tre volte al giorno, grazie a Zia Lina.
Abelardo ascolta con calma solenne mentre si spoglia e indossa un camicione da notte. Ha assunto l’espressione assorta di quando si rende conto di dover dire qualcosa d’intelligente, ma non ci riesce.
«Si dovrà fare qualcosa» sentenzia finalmente Abe-lardo.
«Ho parlato con Elvira, la figlia di Checco il mugnaio e di Carolina. È una maestra diplomata, ancora senza posto, e può dare qualche lezione a Moreno per fargli prendere la licenza elementare.»
«Ci sarà da spendere.»
«Ho parlato anche di questo con Elvira. Per adesso non vuole niente, perché sta preparandosi per il concorso magistrale e potrà dedicarsi poco a Moreno. Si limiterà a un paio di lezioni. Poi, una volta che avrà dato il concorso, in base all’impegno che  riterrà necessario per portare Moreno alla licenza, parleremo anche di soldi.»
«Quand’è così, procedamus» sentenzia Abelardo, che ha imparato in caserma due o tre parole di latino da un maresciallo ex seminarista.
Il mattino seguente zia Lina accompagna Moreno nel negozio di generi alimentari e diversi di Fedora e, su consiglio della negoziante,  gli compra penna, calamaio, un quaderno con le righe per la quarta elementare e una carta assorbente.
Nel primo pomeriggio Moreno, munito dell’attrezzatura per scrivere, s’incammina verso la casa della signorina Elvira. È più incuriosito che emozionato. Da quando è uscito dall’orfanatrofio, ha scoperto di avere un temperamento calmo e un carattere positivo.
È in questo stato di grazia che Moreno sale il vicolo verso la casa della signorina Elvira.
L’accoglie Carolina: «Sali, Elvira ti sta aspettando. È tanto impegnata con lo studio, povera figlia mia, ma non poteva dire di no a Lina… l’ha vista troppo preoccupata. E poi siamo mezzi parenti.»
Moreno viene introdotto in una saletta da pranzo della quale, con ogni evidenza, Elvira ha fatto il proprio studio. Sul tavolo ci sono libri, riviste, quaderni grossi e piccoli, penna e calamaio, un paio di forbici e un vasetto di alluminio con scritto coccoina - colla bianca solida per ufficio.
Moreno rimane in piedi, mentre aspetta che Elvira esca dalla sua camera, e si gode il forte odore di mandorla che  proviene dal tavolo.
Elvira, che Moreno conosce solo di vista, arriva un po’ scarmigliata e con indosso un vestaglietta rosa. Messa così non può dirsi una bellezza.
«Ciao, siediti, stavo incollando degli articoli ritagliati da una rivista di pedagogia su questo quadernone. Senti l’odore di mandorle della coccoina?»
«È un odore buono, non l’avevo mai sentito.»
«Dunque tu vorresti prendere la licenza di quinta elementare? Fammi vedere quello che sai fare. Leggi qui.»
Moreno posa gli occhi sulla pagina del libro che Elvira gli ha aperto e comincia a leggere dal punto in cui la maestra ha messo il dito.
«Vedo che te la cavi bene con la lettura. Quando leggi da solo leggi a voce alta o in silenzio?»
«In silenzio.»
«Oh, ma allora sei un pezzo avanti. Lo sai che la capacità di leggere in silenzio era rarissima nell’antichità e, ancora oggi, molte persone di scarsa cultura ancora leggono solo a voce alta?»
«Il mio problema è la scrittura.»
«Allora dovrai fare molti esercizi… Sù, coraggio, sei un ragazzo intelligente e anche carino. Diventerai un bell’intellettuale.»
Moreno, nella sua cameretta, si dedica scrupolosamente  all’esercizio di copiatura assegnatogli dalla maestra. Fa il calcolo degli anni che lo dividono da Elvira (cinque o sei?) e si rende conto di non aver avuto il tempo e il coraggio di fissare lo sguardo sulla maestra. Ricorda bene solo la voce, dal tono alto, molto femminile, e la spaziatura ampia, come se non avesse molto fiato, e la netta sensazione che la maestra si sforzasse di parlare in buon italiano; come se fosse abituata a usare due linguaggi, uno più o meno dialettale in famiglia e col popolino, l’altro per le altre occasioni, compreso l’insegnamento.
Moreno risale per la seconda lezione il vicolo di Elvira. È concentrato sul proposito di prestare attenzione non solo a ciò che la maestra dice, ma anche a ciò che Elvira è.
Lo accoglie il solito odore di mandorla della coccoina. Elvira e già seduta, lo invita a sederle accanto e a farle vedere il copiato.
«Bravo! Possiamo tralasciare il dettato. Sei in grado di passare direttamente dal copiato al tema.»
«Quando mi farà scrivere con la penna biro?»
«Abbi pazienza, la penna biro, oltre a costare ancora troppo, non è abbastanza perfezionata.  Ma ho l’impressione che s’imporrà e distruggerà l’arte della calligrafia. Ti consiglio di continuare con il pennino, poi, quando sarà arrivato il momento, ti regalerò una penna stilografica. Cerca di resistere il più possibile alla biro, come sto facendo io. Quando avrai preso l’abitudine alla flessuosità del pennino avrai acquisito un’arte che ti sarà utile anche quando scriverai col dito sulla sabbia.»
Mentre Elvira parla con passione della calligrafia, Benito la scruta con occhiate rapide, ma penetranti, che la maestra fa finta di ignorare.  Un po’ dà la cosa per scontata, un po’ si diverte, un po’ quell’allievo la intriga con la sua evidente maturità, dovuta forse al combinarsi di un temperamento mite con una vita difficile.
Moreno nota molte cose: Elvira non indossa la vestaglietta rosa, ma una camicetta bianca di picchè con  minuscoli rombi in rilievo e una gonna a fiori azzurri di diverse tonalità; ha i capelli castani mossi e lunghi legati a coda di cavallo; il collo e le orecchie  sono ben fatti e proporzionati; gli occhi marrone sono piuttosto grandi e con un leggero taglio orientale; il volto è regolare con sopracciglia castane ben curate; i denti sono perfetti e le labbra sono di un colore naturale rosa molto più carico di quello della pelle.
L’odore della coccoina si mescola a quello della colonia alla lavanda, fino a quando il naso giovane ed efficiente di Moreno non percepisce l’effluvio del giovane corpo di donna. È a quel punto che il ragazzo deve fare uno sforzo per non tradire il proprio turbamento.
«Moreno caro, tu mi dai l’impressione di essere un po’ avanti come maschietto. Ce l’hai una fidanzatina?»
«Non credo di essere diverso e di fare cose diverse dai ragazzi della mia età. Mi sembra presto per fidanzarmi.»
«Non sono d’accordo… Tiro a indovinare. Hai lasciato la scuola a otto anni e, dai dieci ai quattordici, sei stato in orfanatrofio; da un anno stai quasi sempre chiuso in casa dei tuoi zii. È un bel po’ che ti sei accorto di essere uomo e che te la spassi da solo. Non hai mai frequentato ragazze e, quanto all’amore, conosci soltanto le stupidaggini che vi raccontate voi ragazzi, un po’ corrette da ciò che vedi al cinema e leggi su libri, fumetti e fotoromanzi, ma senza capirci granché.»
Moreno abbassa la testa, a conferma della diagnosi, non sapendo scegliere fra il mostrarsi offeso e chiudersi, o aprirsi e rimettersi ai consigli della maestra. Ma Elvira riprende la parola per venirgli in aiuto.
«Mi sono accorta di come mi guardavi, mi spogliavi con gli occhi, mi annusavi e ti gustavi le tue fantasie. Non ti eri mai trovato così vicino a una donna giovane. E io non ho problemi a mostrarti come è fatta una donna sotto i vestiti e a darti una mano a crescere come uomo consapevole, anche perché non lo diresti a nessuno. Non hai con chi parlare di queste cose. E poi non credere che me ne importerebbe più di tanto. Siamo soli in casa. Va’ a togliere la chiave dalla porta.»
Moreno, con le gambe tremanti e un leggero senso di vomito, scende a sfilare la chiave dalla toppa e, quando ritorna, Elvira lo tranquillizza: «Mettiti seduto e rilassati. Guardami mentre mi spoglio e mi rivesto, senza muoverti e senza cercare di toccarmi. Se sarai stato bravo, alla fine t’insegnerò a baciare.»
Moreno si siede con i gomiti poggiati sul tavolo e il volto sorretto dalle mani. È un alunno disciplinato, pronto a una lezione che non avrebbe mai immaginato.
Elvira, senza particolari moine, come se nessuno la stesse guardando, si sbottona la camicetta, se la toglie e la poggia su una sedia; poi si toglie le scarpe e si sfila la gonna; rimane in sottoveste bianca di seta dalla quale sguscia in pochi secondi; ormai non indossa altro che  reggiseno e mutandine; si cala le spalline del reggiseno, libera le braccia e fa ruotare i gancetti del reggiseno sul davanti  per slacciarli comodamente e rimanere a seno nudo; poi si toglie le mutandine, fa un giro su se stessa  e si riveste.
Moreno non si è mosso. La maestra gli si avvicina e gli sussurra all’orecchio: «Adesso hai visto che c’è sotto i vestiti di una donna. Cerca di ricordarlo e di non farti abbindolare con le smancerie e i finti misteri. Passiamo al bacio, che è fondamentale in ogni rapporto fra corpi umani. Vale più un bel bacio che una congiunzione intima. T’insegno a baciare… anche se non dimenticherò d’insegnarti a scrivere.»
Più che di un bacio si tratta di una lezione, fredda e professionale, sul baciare la bocca, che dura una decina di minuti.
«E adesso, caro Moreno, ti do un comando: “Non innamorarti di me!” Non per la differenza d’età, né per lo scandalo; ma solo e semplicemente perché sono già innamorata. Vieni domenica a pranzo e ti farò conoscere il mio amore, che viene per me da molto lontano. Mi accompagnerà a dare gli scritti del concorso magistrale.»
«Come vuole lei, signorina maestra. Arrivederci.»
Moreno scende lentamente i gradoni del vicolo, impegnato in un turbine di pensieri e di sentimenti. Adesso sa che la vita è più complicata di quella che insegnano negli orfanatrofi.
Domenica andrà a pranzo da Elvira, ma più per dovere di cortesia che per curiosità.
Zia Lina consegna a Moreno un involto di carta paglia caldo e profumato: « È un coniglio a porchetta con le patate. L’ho promesso a Carolina per ricambiare la disponibilità di Elvira. Mangiatevelo alla mia salute.»
In casa di Elvira, Moreno consegna il pacco ancora caldo a Carolina e saluta Checco, il capo famiglia, poi cerca con lo sguardo Elvira. La maestra compare quasi subito, si avvicina a Moreno e gli sussurra: «Vieni in camera mia, ti presento il mio amore.»
Nella camera c’è un letto a una piazza con la testata di legno di noce e, a fianco, il comodino con la lastrina di marmo grigio.
Sulla parete di fronte, tra l’armadio e la finestra, c’è un sommier su cui sta seduta una bella donna sulla trentina con la sigaretta accesa e il sorriso sulle labbra tinte di rosso scarlatto.
Moreno prende atto che il mondo è ancora più complicato di quanto gli sembrava dopo l’ultima lezione di Elvira.


LA CASCATELLA

Il tedio di una vacanza estiva nel paese natale fa affiorare una passione latente.

I
l professor Mario De Stefani entra con passo strascinato nel Caffè Roma per bere qualcosa di fresco e fare due chiacchiere.
«Ciao Venturi’»  dice al gestore, che sta asciugando il piano del bancone con  flemma sapiente. Fa caldo e sono soltanto le undici del mattino; la giornata di lavoro di Venturino finirà dopo mezzanotte; non è il caso di affannarsi.
«Professo’, di là c’è Agata, la Morona, che vi ha cercato.»
Mario si dirige verso la saletta adiacente, quella coi tavoli per giocare a carte. Sola soletta, seduta con le gambe accavallate davanti a una coppa di gelato c’è Agata, la cugina di sua moglie, anche lei in vacanza nel paese natale. Quarantenne di bella presenza, porta, come tante donne nate nel paese, il nome della santa patrona. Per le altre, quel nome un po’ difficile da usare nelle modalità colloquiali, viene diminuito in Agatina. Ma alla nostra Agata, col suo metro e settanta e con le sue forme floride,  il diminutivo non si addice. Così, fin da ragazza, in onore della sua cascata di capelli corvini, l’hanno ribattezzata la Morona. E lei ha sempre mostrato di gradire quel soprannome che l’affranca dalla massa delle Agate, sottolineando un suo aspetto fisico del quale è tutt’altro che scontenta.
Agata sta gustando il famoso gelato di Venturino nei tre gusti cioccolato, crema e nocciola. Anche perché non c’è altro da scegliere; a parte il gusto di limone, di cui la donna non è golosa. Quanto alla panna, meglio non esagerare coi grassi.
Quando vede entrare Mario, con un bel sorriso stampato sul bel volto di uomo maturo, ma ancora prestante, si sente sollevata e apprezza il gesto con cui, nell’avvicinarsi a lei, si è tolto gli occhiali da sole. La donna, quel sabato mattina, s’è infilata nel Caffè Roma con la speranza d’incontrare qualcuno della sua affiatata comitiva di villeggianti e di concordare un programma per la domenica; e ha chiesto proprio di lui, l’amico col quale è sempre un piacere interloquire. Non vedendo nessuno, ha ordinato, più per disimpegno che per gola, il gelato da duecento lire che Venturino le ha servito in una di quelle coppe cromate che ancora sono in uso nei caffè di paese.
«Accòmodati, professo’.  Che ti faccio portare? Intanto assaggia questa nocciola appena uscita dalla sorbettiera e dimmi se non è una delizia». Ciò detto, Agata porge al professore, col proprio cucchiaino, un bocconcino di crema alla nocciola. Il gesto confidenziale non può mettere in imbarazzo Mario, che ha sempre avuto, fin dall’infanzia, grande familiarità con la cugina di sua moglie. Ma quel giorno il piccolo gesto familiare innesca un crescendo di pericolose emozioni.
Mario si fa portare una coppa di gelato al limone e ne offre un assaggio alla donna, che lo rifiuta scuotendo quasi impercettibilmente il capo e con un sorriso che esprime apprezzamento del gesto cortese. Ma subito si pente e infila il proprio cucchiaino nel gelato al limone e ne preleva una piccola porzione. L’ uomo percepisce quel ripensamento non come un cedimento alla gola, ma come intenzione di curare quell’atmosfera di confidenza, che deve preludere a una lunga e piacevole conversazione. «Tu hai una gran voglia di parlare e io una gran voglia di ascoltarti» azzarda il professore, fissandola negli occhi giusto il tempo di farla sorridere, più divertita che sorpresa.
«Allora veniamo al dunque, che facciamo domani? Comincio ad annoiarmi di queste vacanze; anche mio marito ha bisogno di andare da qualche parte, perché torna stasera dopo una settimana in quel buco di ufficio postale; i miei figli hanno le loro compagnie. Allora ho pensato di riunire la comitiva e fare una bella scampagnata, come ai vecchi tempi. Si parte con comodo dopo la Messa delle otto, ciascuno porta qualcosa da mangiare; si fanno quattro chiacchiere; si mangia e si beve, magari si balla, poi si torna  a casa col fresco. Se vengono tutti, siamo una decina e bastano due o tre macchine: la mia, la tua e, se occorre, quella di Giovanni».
Quindi la donna scavalla le gambe e si allunga sulla poltroncina, come liberata di un peso. Nell’assumere la nuova posizione piega leggermente la schiena e lascia scendere un po’ il seno florido. Poi rimane in attesa della risposta di Mario che, in quei movimenti, non ha potuto fare a meno di cogliere la fugace apparizione di un bel tratto di cosce. Neppure se lo avesse voluto avrebbe fatto in tempo a distogliere lo sguardo. Ma, com’è suo dovere, fa finta di niente.
«Sai che pensavo?» risponde Mario non appena ritrovata la necessaria concentrazione, «si potrebbe organizzare una riedizione di quelle belle gite adolescenziali, quando non avevamo il pensiero del lavoro e della famiglia e il tormento dello studio era neutralizzato dalla lunga pausa estiva. Quelle belle gite che furono belle fino alla stagione degli innamoramenti. Ma la nostra comitiva durò più delle altre perché le coppie sembravano predestinate, anche se erano piuttosto il frutto di un lavorio paziente delle famiglie. Del resto ancora oggi la nostra comitiva regge perché non è avvelenata dallo strascico di vecchie gelosie e frustrazioni. Salvo residui di antichi sentimenti opportunamente dissimulati».
A questo punto Mario s’interrompe, perché il discorso sta prendendo una piega che non gli piace e negli occhi di Agata sta affiorando la stessa malinconia che lei vede negli occhi di lui.
«Professo’, non perdiamo tempo in discorsi complicati» taglia corto la donna, «piuttosto scegliamo il posto, che deve essere adatto sia alla prima che alla seconda colazione, e, soprattutto, che sia fresco. Poi diciamo a  ciascuno quello che deve portare. Del resto sappiamo che Giovanni ci tiene a farci bere il suo vino e che Valeria è contenta di offrirci le sue lasagne. Io preparo l’arrosto, anche se con questo caldo mi costa una certa fatica, e penso al pane e al dolce. Chiedi a tua moglie di preparare una bella insalata russa e di mettere dentro a una scatola piatti, posate, bicchieri e tovaglioli per tutti. Non dimenticarti la macchina fotografica e il mangiadischi a pile.»
Mentre ascoltava le disposizioni organizzative di Agata, Mario ha elaborato mentalmente un progetto parzialmente alternativo,  poiché desidera dare alla gita un significato più fortemente rievocativo. Il luogo giusto e una organizzazione opportuna ravviverà i ricordi giovanili. Ciò potrà destare emozioni contrastanti, ma romperà la monotonia di una villeggiatura in cui quotidianamente affiorano il tedio e la malinconia. Il diavoletto che ciascuno  porta sulla propria spalla cerca continuamente di rovinare una vacanza serena e a lungo desiderata, facendo volare l’immaginazione verso la vita ordinaria che sta aspettando il nostro ritorno. E la vita ordinaria ci chiama con un perfido canterellare di sirena.
«Avrei un’idea» esordisce Mario, rinunciando, per non annoiare Agata,  a illustrare i propri pensieri, ma confidando nella sensibilità e nell’affetto dell’amica. «Sono più di vent’anni che non andiamo alla cascatella. Lì c’è posto per pescare, fare il bagno, cucinare, prendere il sole, giocare e ballare. C’è pure, là vicino, se riusciamo a ritrovarla, una sorgente di acqua ferruginosa che non ha un gran sapore, ma è freschissima. Non sarà difficile catturare qualche granchio per fare un bel sugo. Credo che sappiamo ancora accendere il fuoco e scolare la pasta utilizzando il coperchio della pentola, come fanno i militari. Prenotiamo da Arturo un paio di chili di porchetta e carichiamo sulle auto tutto ciò che serve, senza dimenticare i teli per asciugarci, cambiarci i costumi da bagno e riposarci sull’erba».
«Mario!»  esclama Agata avvicinandosi all’amico e prendendogli la mano, mentre gli occhi le si sono fatti lucidi, «mi stai facendo commuovere. Tutto quello che hai detto è già successo tanti anni fa. Non hai paura che la cosa ci faccia più male che bene? E poi, come sarà ridotta la strada per la cascatella? Ci sarà ancora qual bel prato fresco? Non sarà ormai coperto di rovi?».
«La sindrome dei vent’anni dopo non mi spaventa. Anzi, può servire a combattere la nostalgia. Quanto al posto, possiamo andare a dare un’occhiata. Un tempo ci andavamo a piedi in tre quarti d’ora,  ma, con la macchina, ci mettiamo meno di dieci minuti. Te la senti?». Gli occhi della donna gli fanno capire che se la sente. Mario paga il conto e va a prendere la sua FIAT 128 verde bottiglia.
Percorrono tre chilometri sulla provinciale che corre in margine all’alveo del torrente. Imboccano la strada vicinale sterrata, che ricordano bene e, prima che il percorso diventi troppo stretto e scosceso,  trovano il modo di parcheggiare l’auto in un terreno incolto, al margine della macchia. Scendono a piedi verso il torrente e, dopo un centinaio di metri e molti incespicamenti,  avvertono il rumore della cascatella, un salto di appena due metri che nel tempo ha scavato un laghetto. Al di là del laghetto c’è il prato, più piccolo di come lo ricordano, ma sufficiente a fungere da spiaggia, poiché le rive del piccolo specchio d’acqua sono altrimenti inaccessibili a causa della vegetazione. Il tutto sembra perfetto.
Si tolgono i sandali. Mario arrotola i pantaloni fin sopra al ginocchio. Agata con una mano regge i sandali e tiene sollevata la gonna, mentre dà l’altra mano all’amico per essere aiutata a non perdere l’equilibrio nel guadare il piccolo torrente. Devono fare attenzione a posare i piedi sui sassi più grossi, più solidi e più utilmente posizionati.
Raggiunto il prato, essendo piuttosto accaldati, si soffermano a riposare e a ispezionare il luogo con gli sguardi.
«Ti dispiace se mi bagno un po’? Non so proprio resistere» dice Mario. E resta in attesa dell’assenso dell’amica, dalla quale stranamente non si aspetta obiezioni sul fatto che non ha il costume da bagno né indumenti di ricambio e che non possono trattenersi a lungo. L’assenso di Agata arriva in forma di un sorriso comprensivo e di un cenno del capo che significa: “Se proprio ci tieni!”
Quindi Mario si toglie la camicia, la canottiera e i pantaloni e resta coperto dai soli boxer bianchi. Agata finge di non guardare. Mario entra prudentemente in acqua ed esegue tutte le abluzioni necessarie per affrontare con prudenza le fresche acque del torrente. Saggia il fondo del laghetto e verifica che in nessun punto la profondità supera il metro e mezzo. S’inginocchia per immergersi fino al mento, mentre Agata lo guarda divertita. Si mette in piedi nel punto più profondo e, con un cenno dello mano, invita la donna a scendere in acqua mostrandole la prova vivente che non c’è bisogno di saper nuotare.
«Ma sì!» dice Agata.
Mario non la l’ha potuta sentire, a causa dello scroscio della cascata, ma quando lei comincia a spogliarsi, le dà cavallerescamente le spalle, fino a quando la donna, in mutandine e reggiseno, non si è immersa in acqua fino al collo e gli dice: «Puoi voltarti.»
Il bagno, per mille ragioni, è breve e casto. Escono dall’acqua e si vanno a sedere sugli scogli asciutti, in riva al laghetto, confidando che il basalto rovente e i raggi del sole di luglio asciughino rapidamente i loro corpi e i loro indumenti intimi. Mario mette a disposizione dell’amica la sua canottiera asciutta per usarla come asciugamani.
Mentre entrambi meditano su come riprendere la conversazione, Mario vede la testa di un rettile che sbuca dalla base dello scoglio su cui è seduta Agata  e subito le sussurra: «Sta’ ferma, mi raccomando!» Intanto ha raccolto un sasso e, scavalcando la donna, si avvicina al rettile per colpirlo da vicino. Ma, prima che Mario lo raggiunga, il rettile scivola rapidamente nell’acqua. «Era solo una biscia. Le bisce d’acqua non sono velenose.» Così Mario rassicura la donna, che s’era irrigidita e aveva soffocato un grido di spavento per non disturbare l’azione protettiva dell’amico.
Poi, senza alcun indugio, Agata  si getta tra le braccia di Mario, ma dosando tempo e languidezza affinché i loro corpi si allaccino strettamente. Né può fare a meno di ricordare di aver letto da qualche parte che il mito dell’Eden esprime una realtà che si verifica tutti i giorni, e che il rettile è sempre in agguato per cogliere i momenti di debolezza della donna, come quello del vedersi sfiorire senza aver colto tutti i vantaggi della fioritura. Appoggia il volto su una spalla di Mario, consapevole che la folta capigliatura corvina gli avrebbe vellicato il viso  e gli avrebbe sfiorato le narici.
Mario è sorpreso, non tanto dall’abbraccio di Agata, che sembra il capitolo di una storia già scritta da qualche parte, ma dalla flessuosità del corpo della donna. Mai ha immaginato una sensazione del genere nel pensare ad Agata. Le membra dei due combaciano perfettamente e Mario pensa che la mano misteriosa che gioca col mondo s’è finalmente decisa a congiungere quelle due tessere del puzzle, come previsto  dal grande disegno.
Pochi minuti dopo, un angolo erboso riparato dalle fratte li accoglie per un amplesso caldo e silenzioso...  Avviene ciò che entrambi, per tanti anni,  hanno tante volte immaginato. Un lungo bacio consuma i residui effetti dei meccanismi ormonali, prima d’indossare gli indumenti scaldati dal sole per  riguadare il torrente e raggiungere la 128 verde bottiglia.


LA LEPRE DEL CIRENEO

Discorsi e poesie di caccia e di cucina in una vecchia osteria di paese.

O cara luna, al tuo tranquillo raggio
Danzan le lepri nelle selve; e duolsi
la mattina il cacciator, che trova
l’orme intricate e false; e dai covili
error vario lo svia; salve, o benigna
delle notti reina.
Giacomo Leopardi

A
 Collefino, ma pure altrove, li chiamano fancazzisti. Sono quelli che trovano sempre qualche ora da aggiungere al meritato riposo per discettare di argomenti futili.
Nell’anno di grazia 1950, i fancazzisti di Collefino si dividevano  tra il Caffè Rossetti–Gelateria e l’ Osteria Salvini. I primi si dedicavano prevalentemente allo sport, i secondi quasi esclusivamente alla caccia.
Più suggestiva era l’ Osteria Salvini, che  era più di una bettola e meno di una trattoria. Sull’insegna di latta verniciata c’era scritto Vino e Cucina. Ma se il vino non mancava mai, sostituibile con la birra e miscelabile con la gazzosa, si cucinava solo la sera. I venditori umbri di porcelli, i carbonai e i tagliaboschi toscani, nonché altri commercianti di passaggio s’infilavano di mattina nell’osteria, ma trattavano i loro affari o si scambiavano informazioni davanti a un pezzo di cacio e a due fette di spalletta. Non bevevano certo acqua, ma vino con moderazione.
Invece le sera venivano serviti, a seconda dei giorni, delle stagioni e delle prenotazioni:  fettuccine con le rigaglie di gallina, gnocchi di patate col sugo di castrato, polenta di granturco con le costarelle di maiale, lombrichelli di acqua e farina mantecati con olio aglio pomodoro peperoncino, agnello a bujone, cacciagione in salmì, coniglio a porchetta, polpette di  carne in umido. E il vino scorreva a fiumi.
Ma il pomeriggio l’ Osteria Salvini era appannaggio dei cacciatori, che parlavano  e parlavano, tra una mano di tressette e tre mani di briscola, quasi sempre dello stesso argomento, e tenevano lubrificato l’apparato vocale con vino e  gazzosa.
L’osteria era gestita da Bradamante Salvini, detto l’Appuntato, per via della sua trascorsa militanza nell’Arma dei Carabinieri, e dalla zi’ Aminta, sua consorte. Il fatto che l’uno portasse il nome di un personaggio femminile e l’altra quello di un personaggio maschile della poesia del Cinquecento non li metteva a disagio; così come lasciava indifferenti gli avventori, quasi sempre semianalfabeti, che solo per brevità, e non per ossequio alla sua mascolinità, accorciavano il nome dell’oste in Bramante.
La squadra del gestore era completata dalla fantesca Caterinella e da Benito, quindicenne nipote di Aminta, orfano di entrambi i genitori, assunto come figlio adottivo e sguattero.
Quando i cacciatori sproloquiavano, mentre la zi’ Aminta e Caterinella stavano al riparo in cucina, Benito ascoltava con piacere, senza metter bocca, mentre serviva le bevande. Nonostante la giovane età, era consapevole che si stava recitando un dramma antico quanto il genere umano. Gli attori si alternavano sulla scena e recitavano seguendo il solito canovaccio. Chi era di turno come spettatore, rimuginava sulla parte che avrebbe dovuto recitare, e prestava ascolto nei limiti in cui gli era necessario per cogliere  il tempo giusto della propria entrata in scena. Benito intuiva che si trattava di un rito ancestrale in cui la verità veniva piegata all’esigenza di elevarsi sopra lo squallore della vita quotidiana e di esorcizzare l’angoscia esistenziale. Quasi come in un circolo di fumatori d’oppio. Però la droga, pur avendo il suo costo, non aveva conseguenze fisiche. Il vino li aiutava, ma, proprio perché avevano trovato una via di fuga più efficace, raramente i cacciatori cadevano nel baratro dell’alcolismo.
Benito, che aveva ufficialmente un’istruzione elementare, era un lettore accanito di tutto ciò che gli capitava e un ascoltatore solitario e indefesso della radio. Al resto provvedeva la sua fervida immaginazione. Perciò, assistendo silenzioso alle conversazioni dei cacciatori, non s’irritava per le palesi esagerazioni e le conclamate bugie, né s’annoiava per la prevedibilità di ogni sproloquio. Anzi, si dilettava nell’affinare sempre di più una  sua trasfigurazione di quegli incontri.
Volava con la fantasia all’era delle caverne, a una sera di centomila anni prima. Un gruppo di uomini primitivi, cacciatori di animali zoccolati, poggiate a terra le poderose clave, sedeva a consumare le carni arrostite di un cavallo selvatico e a tracannare una birra primitiva. Gl’indumenti di pelle rozzamente conciata apparivano più decorosi dei panni indossati dai poveri collefinesi del 1950. Il gruppo discettava su vicende di caccia. Nei volti  barbuti e nelle voci erano riconoscibili i clienti della trattoria Salvini. Le donne e i bambini stavano rintanati nella caverna; quelle fertili con un figlio al seno e un altro nella pancia. Non c’erano vecchi perché la vecchiaia non era stata ancora inventata. Nel buio, a una certa distanza dai cacciatori, lampeggiavano gli occhi dei leopardi. Aspettavano che gli uomini satolli si addormentassero e che nel semicerchio di tizzoni posto davanti alla caverna s’aprisse qualche varco.  I cuccioli d’uomo erano bocconi prelibati per i leopardi, che a quell’epoca provvedevano al controllo demografico. Ma altri occhi giravano attorno alla caverna ed erano quelli dei lupi e degli sciacalli, aspiranti amici dell’uomo. Aspettavano impazienti, ma discreti, di poter addentare gli ossi e altri avanzi troppo coriacei per i denti degli uomini. Lupi e sciacalli, il giorno seguente, avrebbero, con istintivo opportunismo, attirato il gruppo di caccia verso i luoghi dove pascolavano i grandi erbivori. Era facile immaginare come sarebbe andata a finire: i cuccioli di lupi e sciacalli sarebbero stati prima o poi accolti, allevati e selezionati dagli uomini e, col nome di cani, avrebbero assunto il ruolo di amici fedelissimi.
I  cacciatori immaginati da Benito celebravano lo stesso rito che si celebrava in certi pomeriggi nell’ Osteria Salvini. Anche la vita quotidiana dei cacciatori collefinesi, tutto sommato, somigliava a quella dei loro antenati cavernicoli. Le pelli erano state sostituite con tessuti di fibre animali e vegetali, le clave avevano ceduto il posto ai fucili, i lupi e gli sciacalli erano diventati cani, le donne e i bambini stavano al riparo, ma la vita era comunque dura e piena d’insidie. Soprattutto, come centomila anni prima,  non se ne riusciva a capire il senso. Ma i pomeriggi all’ Osteria Salvini davano sollievo, e la certezza che si sarebbero ripetuti dava consolazione.
Un giovedì pomeriggio, un colpo di scena interruppe il rito dei cacciatori nell’ Osteria Salvini. Inaspettate, si stagliarono sulla porta le figure del Marchese di Borgovecchio e del Cireneo.
Vinicio de Paolis, Marchese di Borgovecchio, aristocratico di mezz’età e appassionato cacciatore, frequentava di tanto in tanto l’ Osteria Salvini riuscendo a mimetizzarsi tra quei poveretti e a far dimenticare la propria differenza di classe e di educazione.
Guerrino Guerrini, factotum del Marchese, era detto il Cireneo perché, come spiegavano ironicamente a Borgovecchio, aiutava il Marchese a portare la croce del matrimonio.  Ma non c’era malizia dietro l’ironia, perché la Marchesa de Paolis era una santa donna, e per di più una malattia l’aveva ridotta in carrozzella. Il Cireneo, oltre a sbrigare varie faccende per la casa e le proprietà del Marchese, accompagnava la Marchesa nelle sue passeggiate, soprattutto nelle sue visite di beneficenza. Ella usava frequentare le case dei poveri, che nel 1950 erano tanti, per dispensare parole di conforto e distribuire viveri, vestiti e denaro. Era molto amata, ma non tutti sapevano che aveva alle sue spalle la generosità del Marchese il quale, non avendo figli, non si preoccupava di conservare il patrimonio per i nipoti.
Il Marchese era abbigliato con elegante semplicità. Invece il Cireneo ostentava una splendida giacca da caccia, probabile dono del padrone. Ma ciò che colpì gli avventori di Bramante fu la lepre enorme che il Cireneo teneva a penzoloni per le zampe posteriori. Egli entrò silenzioso nell’osteria, mentre tutti salutavano con garbo il Marchese; depositò la grossa lepre su un tavolo e cominciò a gironzolare in attesa dei commenti. I cacciatori si assieparono intorno alla lepre, che doveva pesare quasi cinque chili, un peso enorme per quel tempo in cui non era cominciato il ripopolamento con animali ungheresi.
«Se la signora Aminta sarà così cortese da cucinare questa  lepre, siete tutti invitati a mangiarla sabato sera» esordì il Marchese, dopo aver ottenuto il generale silenzio.
Ma Bramante mise becco per affermare ciò che tutti pensavano: «Rischio di perdere un illustre cliente, ma questa lepre non è stata uccisa da un vero cacciatore, perché è stata colpita a fermo. Lo dimostrano la testa fracassata e il corpo intatto.»
Il Marchese taceva. Tutti si rivolsero verso il Cireneo, che stava attizzando il fuoco nel grande camino e che, dopo alcuni lunghi secondi, si decise a parlare, quasi senza voltarsi: «L’ho ammazzata io. Sapete che non sono un cacciatore. Mentre il Marchese girava coi suoi segugi, io andavo in giro a una certa distanza senza cane, ma col fucile imbracciato, come ho sempre fatto per passare il tempo, senza mai prendere niente. A un certo punto lo sguardo m’è caduto su due occhi che mi fissavano impauriti. Vedevo solo gli occhi, perché sapete che la lepre ferma nel suo covo è perfettamente mimetizzata. Solo gli occhi, tenuti aperti dalla paura, possono tradirla. Se avessi battuto il piede a terra per farla schizzar via, come avrebbe fatto un vero cacciatore,  non sarei mai riuscito a colpirla. Perciò ho mirato a quegli occhi e ho sparato. Vi giuro che speravo di non colpirla. Quando ho visto l’animale distendersi stecchito sul terreno e ne ho intuito la dimensione straordinaria, ho pensato solo al piacere che mi avrebbe dato la vostra invidia, e ho sperato che invitandovi a mangiarla avrei evitato il vostro disprezzo. Ma non è andata così.»
Bramante, pago dell’umiliazione del Cireneo, aveva nel frattempo notato che Olinto Ribichini, detto il Poeta per la sua abilità nel cantare ottave a braccio su qualsiasi argomento, stava fissando il vuoto come quando era ispirato e pronto a esibirsi.
«Adesso il Poeta ci canta qualche ottava per rimetterci di buonumore» concluse Bramante, e s’accomodò su una panca.
Il Poeta s’alzo in piedi, si sberrettò e, circondato da attenzione, curiosità e rispetto, cantò:

Cauta la lepre, con il batticore,
mòvesi al loco scelto per covile;
e, ben sapendo di lasciar d’afrore
scia permanente, che naso sottile
pòle sentir d’astuto predatore,
procede a zigghe  zagghe  in modo vile:
così tracciando per colui che passa
d’effluvio intricatissima matassa.

Il cacciator, che cerca la sua preda,
ha perso il fiuto fin da’ tempi antichi;
è un predator, benché non se n’avveda,
che, per quanto s’ingegni e s’affatichi,
sarìa costretto, s’ altri non provveda,
a nutrirsi d’insetti e di lombrichi.
Perciò, in mancanza di risorse umane,
con atto d’umiltà, ricorre al cane.

Il cane che per ciò da pelo è detto,
con grande diligenza il muso abbassa
e col suo fiuto, ch’è quasi perfetto,
dipanar cerca l’aerea matassa.
Non senza al cacciatore aver predetto
ch’è sulla pista… ma con voce bassa.
Giunto presso il covil, la coda drizza
e ratta, al suo abbaiar, la lepre schizza.

La serata aveva preso una piega mondana e venne in ballo quale fosse il miglior destino della lepre. Prevalevano i fautori del salmì, ma vennero fuori in modo petulante, richiamandosi alla tradizione locale, anche i fautori del bujone.
Il Poeta, ormai nel vortice dell’ispirazione,  fece capire di voler dire la sua e riprese il canto:

Il bujone provien dal tempo antico
e s’inventò tra il Lazio e la Toscana
per cucinar, con spezie che non dico,
la pecora di razza maremmana.
Di carne ovina  inver sarei nemico
se col bujon non fosse resa urbana.
Però sinceramente vado pazzo
per ogni carne nel prefato guazzo.

Il salmì, come dice la parola,
è cucina d’origine francese,
ed è molto gradevole alla gola.
Ai nostri dì, senza tante pretese,
s’adopra non per una carne sola;
e nel condire non badiamo a spese.
Però il poeta, non senza ragione,
lo raccomanda per la cacciagione.

Benito, che non aveva ancora aperto bocca,  decise che era arrivato il suo momento, e propose di cucinare la lepre mezza in salmì e mezza a bujone.
L’opinione di un ragazzo valeva, in quell’epoca, meno di niente. Ma sulla porta della cucina era comparsa da qualche minuto zi’ Aminta, che, puntati i pugni sui fianchi, sentenziò: «Si fa come dice mio nipote!»
Caterinella, seminascosta dalla mole della padrona, annuiva con decisi movimenti del capo.



STELLA

Carlo, ragazzo undicenne, conosce la giovane commediante Stella e gli si aprono le porte di un breve paradiso.

N
ell’autunno del 1950, Carlo Massetti, figlio unigenito del farmacista di Collefino e della maestra Stefania, aveva compiuto undici anni da pochi mesi. Aveva superato senza problemi gli esami di quinta elementare e, un po’ meno brillantemente, l’esame di ammissione alla scuola media. Infatti aveva confuso i re d’Italia rispondendo: «Vittorio Emanuele III» alla domanda: «Chi è il re italiano chiamato Padre della Patria?».  Per sua fortuna, il professore che l’interrogava nella scuola media di Borgovecchio non aveva nessuna voglia di intralciare la carriera scolastica del figlio di un suo compagno di squadra nella caccia al cinghiale.
Carlo Massetti si preparava dunque a frequentare la prima media. Frequentare non è esatto perché, avendo Collefino soltanto le elementari, i genitori non avevano nessuna intenzione di mandare il loro Carletto a Borgovecchio. Avrebbero dovuto costringerlo ad alzarsi tutte le mattine alle sei per prendere la corriera che l’avrebbe riportato a casa alle sei di sera. Né avevano parenti presso i quali poterlo allogare, né riuscivano a immaginare famiglie adatte dove metterlo a dozzina. Il collegio era escluso perché entrambi i genitori ne serbavano tristi ricordi. Essi erano abbastanza colti da assicurare a Carletto un adeguato insegnamento a casa, sperimentando l’alternativa educazionale che oggi chiamano home schooling.
Carlo si rendeva perfettamente conto di essere un ragazzo fortunato. Gli era capitato di nascere in una serena famiglia borghese, dato che i redditi venivano conseguiti senza affanno, ed erano di tale entità da non far mancare niente in casa e da assicurare un tranquillo avvenire. La sua famiglia peraltro era ben inserita in un gruppo che riuniva la borghesia intellettuale di Collefino. Un gruppo formato, oltre che dal farmacista, dal medico condotto, dal veterinario condotto, dal segretario comunale, dai maestri delle scuole elementari, dal geometra del consorzio di bonifica e da un paio di professori a riposo. Costoro erano animati dalla vitalità, diffusa allora in tutta Italia, propria di chi era da poco uscito dall’incubo della guerra. Il gruppo di cui parliamo aveva fondato il C.L.D. (Circolo Laureati e Diplomati), che organizzava recite, gite, mostre, conferenze, cineforum, cene, danze e quant’altro potesse allietare lo spirito e il corpo, sempre nei limiti dei sani costumi. Anche il parroco partecipava alle attività del C.L.D., con qualche imbarazzo quando venivano organizzate feste da ballo o proiezioni di pellicole con qualche bacio e abbraccio tra innamorati.
Carlo era immerso nelle gioie di quel piccolo mondo e, data l’età, non ne coglieva le piccole crepe e non si rendeva conto che non sarebbe potuto durare a lungo. Quindi, per l’età e per l’ambiente, era nella condizione di poter essere felice, di vivere quello stato di grazia che gli adulti, se hanno avuto la fortuna di provarlo, conservano nel paradiso dei loro ricordi. Un paradiso al quale attingono per alleviare la fatica di vivere. Ma c’era un problema. Carletto era grasso, ai limiti dell’obesità; portava addosso una decina di chili di soprappeso che lo facevano molto somigliare al padre, un omone con un corpo alto centottanta centimetri e pesante almeno cento chili. La maestra Stefania, di media corporatura e di fianchi proporzionati, aveva dovuto soffrire molto per partorire quel suo primo figlio che, proprio per questo, era rimasto l’unico. Carlo sapeva che la madre era una bella donna e, se non gli fosse bastato il proprio senso estetico, glielo avrebbe fatto capire l’intraprendente maestro Gaetano che una volta, non accortosi di avere alle spalle il figlio, aveva sussurrato a Stefania: «Beato tuo marito!» Ma va detto che questo genere di corteggiamento era tollerato dalla bella maestra, sia perché una reazione sdegnata avrebbe messo in pericolo la coesione del gruppo, sia perché l’ambiente era talmente ristretto e i costumi tanto castigati che anche un vago sospetto sarebbe stato considerato da tutti assurdo.
Orbene, il sovrappeso di Carletto, se per i suoi genitori sembrava inesistente, e se era considerato una fortuna dagli anziani del paese, per i quali il grasso equivaleva a benessere e salute, era oggetto di scherno da parte dei coetanei. L’appellativo più frequente che usavano nei suoi confronti era Ciccio Bomba. «Se vuoi giocare a pallone ti facciamo fare solo il portiere, perché sei un Ciccio Bomba e corri troppo piano» gli dicevano i suoi compagni. Carletto inghiottiva e accettava, pur di non isolarsi,  quel ruolo che non piace a nessun ragazzo e solitamente, nelle partitelle, viene assegnato a turno. Ma, se qualcuno ripeteva più di una volta quell’epiteto, Carletto reagiva chiamando in causa la castità di madri e sorelle, e affrontava con coraggio la conseguente rissa. Qualche volta se la cavava bene, perché era un buon incassatore e uno specialista in colpi bassi. Qualche volta trovava chi lo difendeva e lo affiancava, perché i ragazzi sono crudeli, ma hanno un loro senso del limite  e dell’onore.
Così Carlo non riusciva ad afferrare una felicità che era quasi a portata di mano. Avrebbe voluto rimediare perdendo qualche chilo, ma, se provava a contenere la sua voracità, si sentiva infiacchire  e veniva colto dalla paura di ammalarsi. C’era poi il problema delle ragazze, che non erano ancora oggetto delle sue pulsioni, ma delle quali sapeva di dovere sempre più tenere conto. Così rischiava di immalinconirsi e chiudersi in se stesso.
Ma in un bel giorno di quell’autunno del 1950, un camion con rimorchio arrivò a Collefino e scaricò nel campo boario un ammasso di tavole, di sedie e di tessuti. L’autista e il suo aiutante ingaggiarono un paio di operai sul posto. C’è sempre qualche fannullone disposto ad abbandonare il riposo quotidiano, se chiamato a fatiche brevi e prontamente remunerate. L’indomani i quattro cominciarono a montare quello che si rivelò come un  Carro di Tespi, forse l’ultimo dei teatri ambulanti, così denominati, promossi prima della guerra dal Ministero della cultura popolare. La compagnia teatrale sarebbe arrivata un paio di giorni dopo, col treno fino a Borgovecchio e con la corriera dalla stazione ferroviaria a Collefino.
L’arrivo dei commedianti fu già uno spettacolo. Bastava guardare com’erano vestiti,  come si muovevano e come parlavano. Gli uomini avevano i capelli tinti come quelli delle signore ricche di Collefino e quasi tutti portavano al collo una sciarpa lunghissima. Le donne calzavano scarpe non adatte alla polvere e alla buche e sembrava che rischiassero continuamente di cadere. Maschi e femmine salutavano la gente, che li guardava con evidente curiosità, senza manifestare alcun segno di imbarazzo, ma piuttosto come se gradissero di essere oggetto di quell’attenzione. Gli attori raggiunsero le case dove, mancando a Collefino alberghi e locande,  avevano prenotato camere con uso di cucina. Si sarebbero trattenuti quindici giorni per esaurire il loro cartellone, che comprendeva drammi popolari come La cieca di Sorrento, Il fornaretto di Venezia, Le due orfanelle e così via.
Tra i commedianti c’era una ragazza di circa dodici anni, di nome Stella, alla quale i genitori cercavano di procurare un’istruzione, nonostante che la frequenza di una scuola fosse resa impossibile dal girovagare della compagnia. Qualcuno parlò ai genitori di Stella della maestra Stefania e la descrisse come donna di cultura superiore a quella che le poteva derivare dal titolo di studio, e per questo ricercata anche per ripetizioni agli alunni della scuola media. Stefania era abituata  a dare lezioni, perché aveva una grande passione per lo studio e per l’insegnamento. Lo studio le permetteva di progredire nell’insegnamento e l’impegno delle lezioni private la stimolava a studiare. Le sue lezioni, dati i tempi, erano quasi sempre gratuite e i suoi allievi erano, durante l’estate,  seminaristi e villeggianti rimandati a ottobre. Nel resto dell’anno, la maestra Stefania insegnava nelle scuole elementari di Collefino e, la sera,  aiutava qualche studente di scuola media. Ella poteva vantarsi che nessuno studente affidato alle sue cure era stato mai bocciato o rimandato a ottobre. Quindi Stefania, se accettò di dare qualche lezione gratuita alla giovane commediante, fece ciò che tutti si aspettavano, ma dovette ammettere dentro di sé che, in questo caso, provava una particolare curiosità. Pensava che sarebbe stato interessante studiare la personalità di una ragazza che non aveva mai posato il capo, per più di quindici giorni, nello stesso luogo  e, sebbene cresciuta tra gente sveglia, non poteva che aver raccattato un’istruzione frammentaria e sconclusionata.
Fu così che un pomeriggio squillò il campanello della casa del farmacista. Carlo si precipitò ad aprire con la speranza di accogliere la ragazza della quale gli avevano parlato. Era proprio lei, ed era bellissima. Il ragazzo fu quasi tramortito da due occhi verdi che lo fissarono in volto con una forza e una sicurezza che lo impietrirono. Non ebbe nemmeno la forza di abbassare gli occhi o distogliere lo sguardo. Rimase a occhi spalancati e senza parole fino a quando la ragazza sorrise e piegò la testa su un lato con quella mossa che, da che mondo è mondo, serve a ispirare simpatia. Carlo, sebbene si fosse ripreso solo parzialmente, le porse la mano, si presentò e le diede il benvenuto. Gli automatismi inculcati da una buona educazione erano stati utili. La ragazza, accompagnata da Carlo, incedette verso il salotto, dove l’attendeva la maestra Stefania, con passo sicuro ed elegante, proprio quel passo con cui Carlo l’avrebbe poi vista calcare il palcoscenico.
Carlo si rese conto che da quel giorno le ragazze avrebbero rappresentato un problema, anzi, il problema principale.
Stefania accolse la nuova e temporanea allieva con una rapida stretta di mano, perché le venne subito l’impulso di carezzarle fuggevolmente i capelli scuri, che erano piuttosto corti e acconciati con una frangetta un po’ troppo precisa e curata per una ragazzina di quell’età. Con quel gesto di tenerezza voleva mettere Stella  a  suo agio. E la ragazza stette al gioco, manifestando di gradire il gesto con un timido sorriso, molto diverso da quello che aveva incantato Carlo sulla porta di casa.
La prima lezione durò una mezz’ora e il ragazzo, non avendolo la madre congedato, ne fu silenzioso spettatore.  Fu in quello spazio di tempo che prese coscienza che sua madre non era la donna più bella del mondo, o almeno era insidiata da quella ragazza piovuta chissà da dove. Nel contempo assistette a un fenomeno particolare: la voce dell’allieva aveva una strana musicalità, la dizione era perfetta, come quella che poteva conoscere chi ascoltava la radio e andava al cinema, e sua madre affinava progressivamente la propria dizione senza lasciar trapelare se lo facesse per divertimento o per soggezione. Ma è possibile che lo facesse senza rendersene conto. Quasi una gara tra la maestra e l’allieva.
Quando Carlo la riaccompagnò alla porta, Stella lo interrogò: «Ti piacciono i fumetti?» e, senza attendere risposta, «Io  ti posso prestare molti Albi dell’Intrepido, che raccoglie mio zio Ruggero, se tu mi presti quei Topolino che stanno su una mensola, nel salotto di tua madre. Preparali per domani, quando ritorno.»  Carlo fu messo a proprio agio da quella proposta di traffico culturale che gli dava modo di fare amicizia con la ragazza senza doversi lambiccare il cervello per studiare una strategia.
Il giorno seguente ottenne da sua madre, che comprendeva lo stato d’animo del figlio, di partecipare alla lezione al fianco di Stella.  In questa occasione Carlo si rese conto che Stella, molto ignorante nelle materie scolastiche stabilite per la sua età, possedeva un eloquio sciolto, maturo, molto più elegante di quello dei membri del C.L.D., che gli era fino ad allora apparso come la quintessenza dell’intellettualità. Soprattutto,  Stella sapeva affrontare con eleganza e profondità le passioni umane, come l’amore e l’odio, l’eroismo e la viltà. Questi temi erano schivati dai provinciali del C.L.D., che avevano paura di aprire la gabbia a quelle passioni che consideravano bestie selvatiche e feroci. Ma Stella ne parlava con la competenza e l’efficacia che le derivava dalla dimestichezza coi testi dei drammi popolari coi quali si doveva misurare tutti i giorni. Carlo si rese conto che gli attori, aiutati o meno dal talento naturale, non potevano essere in grado di interpretare senza commuoversi, cioè senza comprendere e condividere la passione umana che il personaggio era deputato a esprimere. E tutto ciò, nonostante i difetti, gli eccessi, i vizi e i vezzi degli attori che il ragazzo intuiva, ma senza farsene un problema.
Alla fine della lezione, Carlo, accompagnando Stella alla porta, le offrì i Topolino che gli erano stati richiesti, anche se aveva già notato che la ragazza non aveva portato con sé gli Albi dell’Intrepido. «Vieni a trovarmi stasera dietro al teatro, prima dello spettacolo» disse Stella respingendo garbatamente l’offerta di Carlo. Poi lo salutò con un sorriso smagliante.
Dopo cena, Carlo doveva recarsi con i genitori al Carro di Tespi per lo spettacolo d’esordio. Il C.L.D. aveva sottoscritto un abbonamento collettivo coi posti riservati, perciò si poteva arrivare anche all’ultimo momento. Ma Carlo chiese con tale apprensione il permesso di avviarsi prima, da solo, che i genitori non ebbero il coraggio di ostacolarlo. Così, quasi un’ora prima dell’inizio dello spettacolo, Carlo cominciò a far capolino dallo spigolo di un muro, a giusta distanza per poter vedere quando Stella fosse uscita dal retro del teatro. Trepidò per una mezz’ora, cercando anche di darsi un contegno per non attirare la curiosità dei passanti, quando avvistò la ragazza che entrava e usciva dal teatro. Allora s’incamminò col pacchetto dei giornalini verso un incontro che, con sua grande consolazione, avveniva in luogo pubblico. Così non si sarebbe trovato nell’imbarazzo di un colloquio a quattr’occhi, al quale non si sentiva adatto e preparato, e molti avrebbero potuto notare la sua amicizia con quella splendida ragazza. Se poi l’avesse notata anche qualche suo compagno, magari uno di quelli che non facevano altro che parlare e sparlare di donne, la soddisfazione sarebbe stata grande. «Ma guarda che culo quel Ciccio Bomba! Zitto zitto, ha accalappiato l’attricetta», avrebbe senz’altro detto qualcuno dei più stronzetti… e gli sarebbe scoppiato il fegato.
L’incontro fu breve, ma amichevole e foriero di futuri incontri. «Devo scappare a cambiarmi per lo spettacolo» disse Stella durante lo scambio dei giornalini. «Stasera applaudimi, mi raccomando, poi domani mi porti a fare un giro per il paese. Ciao.»
Quando Stella entrò in scena, nella parte di una delle due orfanelle, Carlo rimase stupito di come la sua amica sembrasse più grande di almeno quattro anni. E, sebbene si spellasse le mani negli applausi, non riuscì a seguire il filo dello spettacolo, tanto era assorto nell’immaginare l’incontro di domani e quelli futuri.
Il giorno seguente fu quello della passeggiata di Stella e Carlo lungo le vie e le piazze di Collefino. Stella ascoltava le parole di Carlo, che le faceva da guida illustrando come poteva le povere cose che offriva il paese, e sorrideva a tutti. Carlo assumeva l’espressione di chi adempie un dovere di ospitalità, salutava chiamando per nome quelli che conosceva meglio e facendo agli altri  un appena percettibile cenno col capo. Inserì nella conversazione qualche aneddoto divertente che riguardava persone viste per strada, anche perché si andava rendendo conto che l’ambiente umano in cui Stella stava crescendo era quello della compagnia teatrale, forse più stimolante, ma molto più ristretto della benché piccola comunità di Collefino. In ogni modo, durante quella passeggiata, nonostante la tensione e l’impegno, Carlo fece esperienza della vera felicità. Il culmine fu quando, passando davanti alla farmacia, gli venne l’idea di entrare con Stella, di infilarsi da solo nel retrobottega, di attirarvi suo padre e di chiedergli cinquanta lire per offrire il gelato alla sua amica. Il farmacista  guardò il figlio simulando una certa severità, ma gli mise in mano un biglietto da cento lire.
Il Caffè Rossetti - Gelateria era l’unico di Collefino e produceva ben cinque gusti di gelato: cioccolato, crema, nocciola, limone e caffè. Nonostante godesse di una posizione di monopolio, la famiglia Rossetti faceva un ottimo gelato e, a detta di tutti, anche un eccellente caffè.  La consumazione dei due enormi coni da venticinque lire, seduti su due sedie davanti al Caffè Rossetti – Gelateria, fu piuttosto lunga, ma tale non parve a Carlo, che provava molto più gusto  a guardare in tralice le facce dei passanti, che a leccare quel trionfo di crema e di cioccolato.
Gli incontri dei due ragazzi continuarono sia in occasione delle lezioni della maestra Stefania, sia fuori del teatro, con scambi di giornalini, sia al bar, con mangiate di enormi gelati, ma anche con bevute di aranciate e di gazzose, fino a quando Stella non invitò Carlo dentro il teatro, per parlare senza gente tra i piedi. Carlo andò, né gli passò per l’anticamera del cervello di rifiutare, ma con uno strano malessere, perché si sentiva inadeguato a una situazione che, per quello che poteva capire, era il sogno di ragazzi e ragazze un po’ più grandi. Se l’invito gli fosse stato rivolto da una ragazzina di Collefino, si sarebbe ben guardato dall’aderire, perché incontri troppo appartati tra coppie di ragazzi, soprattutto se di sessi diversi, rientravano tra le cose severamente proibite e altrettanto severamente punite. Ma Stella, per una suggestione che forse il suo nome suggeriva, appariva a Carlo come una splendida creatura scesa dal cielo, un essere estraneo alla volgarità del piccolo mondo di Collefino e di altri simili posti. Stella era luminosa, non era pudibonda, come molte ragazze del paese, né sfrontata, come altre, né incostante, come altre ancora.
Stella accolse Carlo col suo bel sorriso, gli fece visitare tutto, proprio tutto, il teatro e gliene svelò i segreti. Poi lo fece sedere in una poltroncina in fondo alla piccola platea, salì sul palcoscenico e intonò una canzone accompagnandosi con la chitarra. Mentre Stella, con voce intonata, anche se ancora un po’ infantile, cantava Torna a Surriento,  Carlo, ebbe paura della desolazione in cui sarebbe piombato dopo la partenza di Stella. Sarà stato l’effetto della musica e delle parole di quella canzone, ma  aveva un gran voglia di piangere. Fu solo grazie alla convinzione che i maschi devono trattenere ad ogni costo le lacrime, che, con uno sforzo immane, riuscì a rimanere apparentemente imperturbato. Stella non riuscì a finire la canzone, si andò a sedere vicino al ragazzo. Avrebbe voluto domandargli: «Come sono andata? Si sente bene la mia voce da quaggiù? Pensi che sia pronta per cantare in pubblico?». Ma non ci riuscì. Carlo si accorse che Stella lacrimava e non si scompose fino a quando la ragazza si asciugò le lacrime, si alzò e s’incamminò verso l’uscita.
Arrivò il giorno della partenza della compagnia. La maestra Stefania volle accompagnare la giovane allieva al treno, con un gesto di affetto ma anche di riservatezza. L’addio a Stella sarebbe stato dato alla stazione ferroviaria di Borgovecchio invece che alla partenza della corriera da Collefino. Così il farmacista ingaggiò l’unico noleggiatore di auto del paese. Nel divanetto posteriore della Fiat 1100 del 1939 si accomodarono, si fa per dire, la maestra Stefania, il figlio Carlo e l’allieva Stella. Stefania si mise in mezzo, a evitare una sconveniente contiguità tra i due giovani. Il farmacista si sedette vicino all’autista.
Giunti alla stazione ferroviaria, quando si vide e si sentì arrivare il treno, Carlo lo guardò con la curiosità di un ragazzo che non ha mai visto un treno. Ma subito si sentì preso da un odio feroce per quel mostro di ferro che avrebbe inghiottito Stella e l’avrebbe portata lontano, tanto lontano che non l’avrebbe vista più. Gli occhi, il sorriso, la voce, l’incedere elegante, le parole dolci di quella cara e singolare creatura sarebbero scomparsi per sempre. E lui sarebbe tornato il Ciccio Bomba di prima, deriso  dai compagni e guardato dalle ragazze del paese con disattenzione e magari con una punta di compatimento.
“Maledetto treno!”, andava ripetendo Carlo dentro di sé, mentre gli attori caricavano i bagagli e prendevano posto. Il farmacista, che non aveva perso di vista quel suo unico figlio evidentemente sofferente, gli si avvicinò, gli poggiò una mano sulla spalla e, stringendola appena un po’, gli disse piano: «Il treno te l’ha portata, e il treno te la porta via. Il treno ha avuto la sua parte nel portarti una gioia che non passerà, perché farà parte dei tuoi ricordi.»
A quel punto Stella, richiamata dai suoi, che avevano paura che il treno partisse senza di lei, si precipitò da Carlo, lo abbracciò per la prima e l’ultima volta e, per la prima e l’ultima volta, lo baciò sulla bocca con rapidità e con intensità. Poi, mentre Carlo  si toccava le labbra, cercando di trattenere quella nuova e stupenda sensazione,  Stella fu inghiottita dal treno.


LA FRASCHETTA

La bellezza straordinaria di Elviretta preoccupa la famiglia e agita i cuori.

A
d aprile, dopo aver travasato il vino,  il Pretozzo riaprì la sua fraschetta. Aveva tirato a lustro l’ampio tinaio; le due tine di castagno, una grande per il bianco e una piccola per il rosso, erano state accuratamente lavate dentro e fuori; i tavoli e le panche, con l’aggiunta di qualche sedia impagliata, erano stati disposti a ridosso delle pareti libere, di cui era stata rinnovata la foderatura con carta da pacchi, a salvaguardia delle giubbe degli avventori.
Il Pretozzo aveva una marcia in più rispetto agli altri agricoltori che aprivano fraschette. Una prova era la carta da pacchi invece dei fogli di giornale, un’altra il fissaggio  al muro della carta coi tappi a corona della Birra Peroni trapassati da un chiodo.
Ma quell’anno c’era un’altra novità. Stava per ritornare da Roma Elviretta, l’unica figlia del Pretozzo, che era andata per alcuni anni a vivere con la zia per prendere la licenza media. A scuola la ragazza se l’era presa comoda e il padre aveva dovuto mandare alla sorella polli, patate, uova, formaggi  e ogni altro ben di Dio per sei lunghi anni scolastici.
Quando il Pretozzo, a fine giugno, andò a prendere la figlia alla corriera, rimase un po’ frastornato dall’av-venenza della ragazza diciassettenne, anche se l’aveva vista soltanto tre mesi prima, a Pasqua. Ma questa volta l’emozione paterna era influenzata dal suo proposito di mettere la figlia come aiuto nella fraschetta, lasciando la madre alle mille incombenze della moglie di un coltivatore diretto.
Sarebbe stato opportuno mettere la figlia, giovane  e attraente, sotto lo sguardo degli avventori della fraschetta, tutti maschi, e alla portata delle loro lingue e delle loro mani? Avrebbe dovuto marcarla stretta, ma inevitabil-mente sarebbe rimasta sola in alcune ore della giornata.  E il vino da smaltire era tanto. La vendita si sarebbe protratta fino alla fine di settembre. Tre mesi di ansia.
D’altra parte, la presenza della ragazza, purché ben istruita sul modo di vestire, di parlare e di muoversi per non provocare gli avventori,  poteva essere utile per gli affari della famiglia.
Il Pretozzo imbottì la figlia di prediche e la madre rincarò la dose, e, dopo qualche giorno, Elviretta fece il suo ingresso nella fraschetta. L’avevano fatta vestire con un abito più che modesto e, per giunta, le avevano fatto indossare un grembiule grigio da cantiniera.
Il Pretozzo dovette rendersi conto che gli uomini, quando la bellezza femminile esorbita  dalla normalità, non hanno bisogno di essere attratti dagli abiti, dal trucco e dalle movenze. Giovani e vecchi sono colti da una specie di follia collettiva.
Il vecchio poeta, che non manca mai tra gli avventori di una fraschetta, non riuscì a trattenersi dal dedicarle un’ottava:

Dal giorno che Elviretta è qui presente
ad allietare tutti gli avventori
mostrando una bellezza sconvolgente,
è finita la pace in tutti i cuori.
Se ognuno confidasse ciò che sente,
tutti il Pretozzo metterebbe fuori.
Perciò meglio è star zitti e riservati…
anche se siamo tutti innamorati.



Il Pretozzo non era presente quando il poeta cantò l’ottava, ma lo venne a sapere e meditò seriamente di ritirare la figlia dalla fraschetta. Però il conflitto tra la responsabilità di padre e l’interesse economico non durò a lungo, perché il vino fu esaurito prima di Ferragosto.


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