giovedì 27 agosto 2015

ERASMO DA ROTTERDAM – Elogio della Follia – (Tradotto dal latino e condensato da P.L. Leoni in lingua italiana corrente)



                                 I

LA FOLLIA ESORDISCE E SPIEGA COME IMPOSTERÀ IL SUO DISCORSO

Checché se ne dica, ecco la prova decisiva che io sola, la Follia, sono in grado di tenere allegro il genere umano. Infatti, non appena mi sono presentata a questa affollatissima assemblea, con indosso la divisa variopinta dei buffoni e sul capo il classico berretto a sonagli, i vostri volti si sono illuminati e mi avete applaudito con entusiasmo, dimenticando  le vostre angosce. È bastata la mia presenza.
Fra poco capirete perché sono venuta qui oggi, folleggiando anche nel vestire. Ma dovete seguirmi con ben altra attenzione di quella che riservate in chiesa ai predicatori, o in teatro agli attori, o in piazza ai ciarlatani.
M’ispirerò all’antico genere encomiastico  e quindi ascolterete un elogio, ma non quello di un personaggio famoso, bensì il mio: l’elogio della Follia. Né mi curo dei sapientoni che dànno del pazzoide a chi si loda svisceratamente da sé. Che c’è di più coerente della Follia che canta le proprie lodi? Chi mi conosce meglio di me? E non è meglio lodarsi che farsi lodare dagli altri, magari in cambio di qualcosa? E poi, se nessuno mi loda, perché non dovrei lodarmi da me?
Si sa che la gente è ingrata. Tutti mi corteggiano e si servono di me, ma nessuno ha il coraggio di fare un bell’elogio della Follia.
Ebbene, aspettatevi da me un discorso estemporaneo, non elaborato, perché mi piace dire quel che mi salta in mente. Non faccio come quegli oratori che fanno finta di parlare a braccio, mentre si sono scervellati per ore a preparare il loro discorso.
Perciò non vi annoierò con la definizione di me stessa. Perché dovrei indicare i miei limiti se il mio potere è sconfinato? Una definizione di me non potrebbe che essere riduttiva e non farebbe che offuscare un’immagine che avete sempre chiarissima davanti agli occhi.
Il mio volto non vi basta a capire che sono un’autentica dispensatrice di beni? Non vedete il mio sguardo, che è lo specchio del mio animo? Io non riesco a mostrare in volto una cosa, mentre ne ho un’altra nel cuore.

II

È LA FOLLIA CHE GARANTISCE LA CONTINUITÀ DEL GENERE UMANO

Orbene, che cosa può esserci di più dolce e prezioso della vita? Ma a chi, se non a me, va il merito della sua riproduzione?
Posso essere più esplicita, secondo il mio costume? È forse con la testa, col volto, col cuore, con le mani, con le orecchie (parti che tutte si possono nominare con decoro) che si generano gli esseri umani? No davvero! Propagatrice del genere umano è quella parte così buffa che non si può nominare senza ridere. E, ditemi, quale uomo porgerebbe il collo al capestro del matrimonio se prima ne considerasse gli svantaggi? Quale donna accosterebbe un uomo, se conoscesse e avesse in mente i pericolosi travagli del parto e i fastidi di allevare i figli? Perciò, se dovete la vita al matrimonio, cercate di capire quello che dovete a me. D’altra parte quale donna dopo la prima esperienza vorrebbe riprovarci, se non ci fosse il mio aiuto?
È così che sono nati anche i grandi filosofi (ai quali adesso sono subentrati i teologi),  i re, i santi e i papi, che sono i più santi di tutti, tanto che già da vivi si fanno chiamare «santità».

III

LA FOLLIA RENDE PIACEVOLE LA VITA CHE ALTRIMENTI SAREBBE INSOPPORTABILE

Ma non solo la riproduzione della vita, anche tutto quello che nella vita vi è di piacevole, lo si deve a me.
Se togliete il piacere alla vita, che rimane?
E non fatevi confondere da quelli che predicano contro il piacere. Fanno finta, per distoglierne gli altri e tenerselo tutto per sé.
Ditemi voi, quale momento della vita non sarebbe triste, difficile, brutto, insipido, tedioso senza il piacere, cioè senza un pizzico di follia?
Tanto per cominciare, chi non sa che l’infanzia è la più lieta e gradevole delle età dell’uomo? Che cos’hanno i bambini per indurci a baciarli e a vezzeggiarli? Che cosa, se non quella grazia che la natura provvidamente infonde nei neonati in modo che possano conciliarsi la simpatia di chi li deve accudire e proteggere?
E l’adolescenza non piace a tutti? Non è forse merito mio se gli adolescenti sono così privi di senno e perciò sono sempre di buonumore? Ma va detto che gli adolescenti, con l’esperienza e l’educazione, rapidamente maturano e vien meno il loro  fascino. Più si allontanano da me e meno vivono felici.
Fino a che non sopraggiunge la penosa vecchiaia. Tanto penosa che nessuno riuscirebbe a sopportarla se, ancora una volta, impietosita da tanto soffrire, io non venissi in aiuto e non riportassi all’infanzia quanti sono prossimi alla tomba. Tanto è vero che il volgo li chiama rimbambiti, cioè bambini di ritorno.
Volete sapere come opero questo prodigio? Non ne faccio misteri. Li faccio bere alla fonte dell’oblio. Così dimenticano le tristi esperienze della vita e tornano a essere felici  come bambini.
Grazie a me dicono cose senza senso, come i bambini. Ma è proprio questo che li rende piacevoli. Sono infatti liberi dagli affanni dell’età matura, non avvertono il tedio della vita. Così riscuotono la simpatia degli amici, che gradiscono la loro compagnia. Sono addirittura più simpatici dei bambini, che non sono in grado di sostenere una piacevole conversazione.
Considerate inoltre che ai vecchi piacciono moltissimo i bambini, e ai bambini i vecchi, poiché ogni simile ama il suo simile. In che differiscono se non nelle rughe e negli anni, che nel vecchio sono di più? Per il resto: capelli radi e sbiaditi, bocca senza denti, corporatura ridotta, desiderio di latte, garrulità, mancanza di senno, smemoratezza, irriflessione. E più invecchiano più somigliano ai bambini, finché, come bambini, senza il tedio della vita, senza il senso della morte, lasciano la vita.
Se gli esseri umani si guardassero dalla saggezza e vivessero sempre sotto la mia protezione, la vecchiaia nemmeno ci sarebbe, ma solo un’eterna giovinezza.
Non vi accorgete che gli uomini seri, cogitabondi, impegnati in faccende complicate, consumano la loro linfa vitale?
Soltanto io sono in grado di prolungare la giovinezza, altrimenti fuggevolissima. Quelli del Brabante sono famosi perché si dice che, mentre altrove la maturità è l’età della saggezza, essi più invecchiano e più diventano matti. Non c’è infatti popolazione più gioconda di quella. Ma anche i miei connazionali Olandesi, vicini al Brabante sia geograficamente che nei costumi, si sono ben meritati il soprannome di matti, e ne vanno fieri.
Vadano pure gl’imbecilli a cercare rimedi all’invecchiamento. Solo io possiedo la formula che risuscita la giovinezza svanita, anzi la mantiene per sempre.

IV

ASTUTAMENTE LA FOLLIA HA AFFIANCATO ALL’UOMO L’ESSERE PIÙ FOLLE CHE CI SIA: LA DONNA

Guardate con quanta previdenza la natura ebbe cura di spargere dappertutto un pizzico di follia. Se infatti, secondo i filosofi, la saggezza consiste nel farsi guidare dalla ragione, mentre la follia consiste nel farsi trascinare dalla passioni, proprio come rimedio al tarlo del pensiero la natura infuse nell’essere umano più passioni che ragione.
Confinò la ragione in un angolo della testa, lasciando il resto del corpo ai turbamenti delle passioni. Così l’ira occupa il torace e la concupiscenza estende il suo dominio fino al basso ventre. Quanto possa la ragione contro queste due fiere avversarie ce lo dice la condotta abituale degli uomini. La ragione protesta fino a sgolarsi ed enuncia i princípi morali; ma quelle passioni la subissano di grida potenti finché lei è costretta a dichiararsi vinta.
Ma la mia trovata più brillante è stata quella di aver affiancato all’uomo un animale deliziosamente spassoso che addolcisce, con un pizzico di follia, la gravità del temperamento maschile. Quando Platone, infatti, sembra in dubbio circa la collocazione della donna, se fra gli animali razionali o fra i bruti, vuole solo sottolineare la straordinaria follia di questo sesso. E se per caso una donna vuole passare per saggia, ottiene solo di essere due volte folle. Come la scimmia è sempre scimmia, anche se si veste con abiti preziosi, così le donne sono sempre donne, cioè folli, comunque si mascherino.
Ma  non così folli, voglio sperare, da aversene  a male perché perfino io, la Follia in persona, le giudico folli. La donne, infatti, se ci pensassero bene, considererebbero  un dono della Follia il fatto di essere, sotto molti aspetti, più fortunate degli uomini.
In primo luogo, hanno il dono della bellezza, che giustamente mettono al disopra di tutto, contando su di essa per tiranneggiare gli stessi tiranni. Quanto all’uomo, di dove gli viene, se non dal senno, l’aspetto rude, la pelle ruvida, la barba folta, e un certo che di senile? Le donne, invece, con le guance sempre lisce, con la voce sempre sottile, con la pelle morbida, danno quasi l’impressione d’una eterna giovinezza. Ma che altro desiderano poi in questa vita, se non di piacere agli uomini quanto più è possibile? Non mirano forse a questo belletti, bagni, acconciature, unguenti, profumi, nonché tante arti volte ad abbellire, dipingere, truccare il volto, gli occhi, la pelle? C’è forse qualche altro motivo che le faccia apprezzare dagli uomini più della follia? In cambio di che, se non del piacere, gli uomini concedono tanto alle donne? Ma il piacere viene proprio dalla loro follia. Pensate a tutte le sciocchezze che un uomo dice quando parla con una donna, a tutte le stupidaggini che fa ogni volta che si mette in testa di ottenerne i favori.


V

QUANDO NEGLI UOMINI CALA L’INTERESSE  PER LA DONNA, LA FOLLIA METTE A DISPOSIZIONE I PIACERI DEI BAGORDI

Vi sono uomini, specialmente anziani, che alle donne preferiscono il bere e provano il massimo piacere nel banchettare. Ma anche nei banchetti, perché riescano bene, c’è bisogno della follia. Infatti, se nella comitiva non c’è qualcuno capace di far ridere, s’invita qualcun altro che, con la sua amenità, garantisca che il banchetto non si trascini nel silenzio e nella noia. A che scopo, infatti, riempirsi il ventre di ghiottonerie e di vino se anche gli occhi, le orecchie e l’anima intera non si nutrissero di risa, di scherzi, di facezie? Ma cibi del genere solo io posso ammannirli.

VI

ANCHE L’AMICIZIA SAREBBE IMPOSSIBILE SENZA L’INTERVENTO DELLA FOLLIA

Ci sarà pure chi trascuri piaceri del genere e si ritenga soddisfatto dell’amore e della familiarità degli amici, affermando che l’amicizia vale più di tutto. E considerano l’amicizia un bene non meno necessario dell’aria, del fuoco, dell’acqua; tanto soave che se togli l’amicizia togli il sole. Ma che succede se dimostro che anche di questo bene così grande sono io il motore? Ve lo dimostro alla buona, senza sottigliezze dialettiche, ma facendovelo toccare con mano.
Ebbene, chiudere gli occhi davanti ai difetti degli amici e amarne come qualità alcuni vizi evidenti non ha niente a che fare con la follia? Eppure così avviene tra i comuni mortali. Quanto a quelli che si ritengono superiori, tra loro l’amicizia non nasce affatto o è qualcosa di cupo e  scostante.


VII

MA IL CAPOLAVORO DELLA FOLLIA È IL MATRIMONIO

Quanto si è detto dell’amicizia a maggior ragione vale per il matrimonio. Quanti divorzi in più, e quanti fatti ancora peggiori si verificherebbero se la convivenza non si corroborasse con le adulazioni, le indulgenze e le dissimulazioni: tutte cose che hanno a che fare con me. Quanti matrimoni si celebrerebbero se il fidanzato prudentemente s’informasse dei passatempi a cui già molto prima delle nozze si dedicava la sua verginella così delicata e apparentemente pudica? E, a celebrazione avvenuta, quanti ne durerebbero, se tante imprese delle mogli non rimanessero ignorate per la negligenza e l’ingenuità dei mariti? Vale a dire che giustamente è merito della Follia se il marito ama la moglie e la moglie il marito, e se in casa regna la pace e il vincolo tiene.
Si ride del cornuto, del becco (quanti nomi non gli si danno!) quando asciuga con i baci le lacrime dell’adultera. Ma quanto è meglio lasciarsi ingannare così che rodersi di gelosia e volgere tutto in tragedia!
Insomma, senza di me nessun legame familiare, ma anche nessun altro legame potrebbe durare felicemente. Il popolo si stancherebbe del governo, il dipendente del datore di lavoro, il locatore dell’inquilino, l’ospite dell’ospite ecc. Per fortuna,  io li induco a ingannarsi a vicenda, ad adularsi, a far finta di non vedere.
Pensate che esagero, ma ne sentirete ancora delle belle.


VIII

L’AMOR PROPRIO È UN ALTRO DONO DELLA FOLLIA

Chi odia se stesso come può amare gli altri? Chi non è in pace con se stesso, come può stare in pace con gli altri? Nessuno lo potrebbe affermare se non fosse più folle di me. La Natura, infatti, in molte cose più matrigna che madre, ha posto nell’animo dei mortali un tarlo: lo scontento di sé e l’ammirazione per gli altri. Ma intervengo io e instillo l’amor proprio e l’ammirazione di se stessi, che è il colmo della follia.
Ma se togliessi all’uomo l’amor proprio, suonerebbero fredde le parole dell’oratore, il musicista annoierebbe, l’attore sarebbe fischiato, il poeta sarebbe sbeffeggiato, il pittore sarebbe ritenuto un imbrattatele  e il medico farebbe la fame.
Se vuoi essere accettato, devi accettare te stesso; e devi essere il primo a lodarti, e non senza una punta di adulazione.
Quanto a me, mi prodigo affinché nessuno sia scontento del proprio aspetto, carattere, schiatta, posizione, educazione e patria; tanto che né un irlandese si cambierebbe con un italiano, né un tracio con un ateniese, né uno scita con un abitante delle Isole Fortunate. Infatti, dove è avara la natura supplisce l’amor proprio.


IX

PERCHÉ GLI UOMINI DOVREBBERO FARSI LA GUERRA SE NON VE LI SPINGESSE LA FOLLIA?

Aggiungo ora che non si può intraprendere nulla di grande senza il mio aiuto. A me si deve l’invenzione di ogni nobile arte. Non è forse la guerra una nobile arte? Non è il coronamento di ogni celebre impresa? Eppure che c’è di più folle  dell’impegnarsi, per non so quali cause, in un confronto da cui, immancabilmente, ognuna delle due parti trae più danno che guadagno? Dei caduti, poi, poco si parla. Quando le schiere in armi si fronteggiano e le trombe intonano il loro suono rauco, non servono certo i sapienti logorati dagli studi, col loro poco sangue privo di calore  e che a malapena tirano il fiato. C’è bisogno di gente ben piantata; con moltissima audacia e pochissimo cervello.
È vero che la prudenza ha un grande peso in guerra; ma solo a livello di chi comanda. E poi si tratta di prudenza militare, non filosofica. Per il resto la guerra è affidata a parassiti, ruffiani, briganti, sicari, contadini, imbecilli, debitori e altri rifiuti del genere; non a filosofi da tavolino.

X

NON VI È NIENTE DI PIÙ INUTILE DEL FILOSOFO, NEMICO DELLA FOLLIA

Quanto all’inutilità dei filosofi è buon testimone lo stesso Socrate,  che  meglio avrebbe fatto a consigliare di tenersi lontani dalla sapienza, se si vuol vivere da uomini. D’altra parte, quando fu processato, che cosa se non la sapienza lo costrinse a bere la cicuta? Infatti mentre andava filosofando d’idee e di nuvole, mentre misurava il salto delle pulci, mentre ammirava la voce delle zanzare, non imparava nulla di ciò che riguarda la vita di tutti i giorni. In aiuto del maestro, sull’orlo di una condanna capitale, interviene il discepolo Platone, difensore così egregio che, turbato dal rumoreggiare della folla, a malapena riesce a pronunciare qualche frase smozzicata.
Nonostante ciò, si esalta il detto di Platone che fortunati saranno gli Stati se a reggerli saranno chiamati i filosofi, o se i reggitori si daranno alla filosofia. Se invece studi la storia, ti accorgi che non c’è peggior sciagura che concentrare il potere nelle mani di un filosofo o di un letterato.
Comunque, se i filosofi fossero asini solo riguardo alla politica, ci potremmo accontentare; il guaio è che sono altrettanto incapaci in ogni altra occasione della vita. Invita a pranzo un filosofo: disturberà col suo cupo silenzio o romperà le scatole con noiose questioncelle. Portalo a uno spettacolo: guasterà con la sua faccia il divertimento della gente. Se c’è da sbrigare un affare ordinario della vita, si comporta come un pezzo di legno. A tal punto è incapace di rendersi utile a se stesso, ai suoi e alla società, perché inesperto delle faccende usuali e delle accettate consuetudini, che si fa odiare. Egli non è in sintonia con un mondo che trabocca di follia, quindi è meglio che si ritiri in un deserto a godere della propria saggezza.

XI

È LA FOLLIA, NON LA FILOSOFIA, CHE TIENE UNITI I POPOLI

Ma, per tornare al fenomeno prezioso dell’adulazione, cos’altro raggruppò nella città gli uomini primitivi e conservò la coesione delle comunità? Cosa mai riportò alla concordia cittadina la plebe romana che già stava per spingersi ad atti irreparabili? Forse un discorso filosofico? Nemmeno per sogno! Al contrario, fu il ridicolo e puerile apologo del ventre e delle altre membra. E la storia è piena di simili sciocchezze che fanno presa su quella grossa e potente bestia che è il popolo.
Viceversa, quale città ha fatto sue le leggi dei filosofi? Sono io che tengo uniti i popoli. Che c’è infatti di più folle di un candidato che lusinga il popolo in tono supplichevole, che compra i voti, che va in cerca degli applausi di tanti stolti, che si compiace delle acclamazioni, che si fa portare in trionfo?
Eppure questa follia genera gli Stati; su di essa poggiano i governi, le magistrature, la religione, le assemblee, i tribunali. La vita umana non è altro che un gioco della Follia.

XII

SENZA LA FOLLIA NON VI SAREBBE LA SAGGEZZA

Quanto alle arti, cosa mai se non la sete di gloria ha suscitato nell’animo umano la brama d’inventare e tramandare ai posteri tante discipline ritenute nobili? Furono uomini davvero folli quelli che hanno creduto valesse la pena di conquistare a prezzo di tante faticose veglie quella fama di cui niente può essere più vano. Ma intanto dovete alla Follia tante cose egregie della vita, e, ciò che soprattutto conta, dovete alla Follia altrui il vostro sollazzo.
Non stupitevi adesso se, dopo essermi attribuita tanti meriti, rivendicherò anche la saggezza. Qualcuno potrebbe dire che è come mettere insieme l’acqua col fuoco. Però, se mi prestate attenzione, riuscirò a dimostrarvelo. Dunque, se la saggezza si fonda sull’esperienza, chi meglio può fregiarsi del titolo di saggio? Forse il sapiente che, per modestia o per timidezza, nulla intraprende, o il folle, che non teme né il pericolo né le difficoltà? Il sapiente si rifugia nei libri e ne ricava solo masturbazioni mentali. Il folle prende di petto le situazioni, ne affronta i rischi e così  acquista la saggezza. Infatti sono due i principali ostacoli alla conoscenza della realtà: la vergogna, che annebbia  l’animo, e la paura, che blocca l’azione. La Follia libera da entrambe.


XIII

La Follia concilia gli opposti e rende possibile agli esseri umani recitare la commedia della vita

State adesso a sentire quanto sono lontani dal vero i sapienti, che sono fissati con l’inconciliabilità degli opposti: vita e morte, bellezza e bruttezza, ricchezza e miseria, gloria e infamia, cultura e ignoranza, forza e debolezza, generosità e abiezione, letizia e malinconia, prosperità e miseria, amicizia e inimicizia, salutare e nocivo.
Io vi dimostro che gli opposti non solo possono stare insieme, ma la loro  coesistenza è alla base della commedia della vita.
Se uno strappasse la maschera agli attori che sulla scena rappresentano un dramma, mostrando agli spettatori la loro autentica faccia, forse che costui non rovinerebbe lo spettacolo meritando di esser preso da tutti a sassate e cacciato dal teatro come un pazzo furioso? Di colpo tutto muterebbe aspetto. Dissipare l’illusione significa togliere senso all’intero dramma, poiché a tenere avvinti gli sguardi degli spettatori è proprio la finzione, il trucco. L’intera vita umana non è altro che uno spettacolo in cui, chi con una maschera, chi con un’altra, ognuno recita la propria parte finché, a un cenno del capocomico, abbandona la scena. Costui, tuttavia, spesso lo fa recitare in parti diverse, in modo che chi prima si presentava come un re ammantato di porpora, compare poi nei cenci di un povero schiavo. Certo, si tratta di una metafora; ma la commedia umana si svolge proprio così.
Se un saggio disceso dal cielo si mettesse a gridare improvvisamente che il personaggio a cui tutti guardano come a un dio non è neppure un uomo, perché come le bestie si lascia dominare dalle passioni; e, se ad un altro che piange il padre morto ordinasse di ridere perché il padre, finalmente, ha cominciato a vivere, dato che questa vita altro non è che morte; e se desse del bastardo a un terzo che mena vanto di una nobile nascita, ma che è ben lontano dalla virtù, unica fonte di nobiltà; se allo stesso modo parlasse di tutti gli altri, non agirebbe costui proprio in modo da sembrare a tutti matto da legare? Infatti non vi è nulla di più stolto di una saggezza inopportuna. La vera saggezza sta nel fare buon viso all’andazzo generale. Ammetto che questa è follia, ma si riconosca che è così che si recita la commedia della vita.

XIV

LA FOLLIA È ALLA BASE DELLA VERA SAPIENZA

Adesso la devo dire ancora più grossa. Vi voglio dimostrare che nessuno, senza la follia,  può accedere alla vera sapienza, quella che è considerata il massimo della felicità.
Cominciamo col dire che è pacifico che tutte le passioni rientrano nella sfera della follia: ciò che distingue il savio dal pazzo è che questi si fa guidare dalle passioni, mentre il primo ha per guida la ragione. Tuttavia questi elementi emotivi, non solo assolvono la funzione di guide per chi scala il monte della sapienza, ma spronano e stimolano a conquistare la vetta.
Sbaglia Seneca quando afferma che il vero sapiente è immune dalle passioni. Un essere così non esisterà mai. Se esistesse un uomo incapace d’amore e di pietà, sordo a ogni naturale richiamo, un uomo che non sbaglia mai e nulla perdona, contento solo di sé, quest’uomo sarebbe da rifuggire come un mostro.
Un uomo siffatto quale città lo eleggerebbe come capo? Quale donna sopporterebbe un simile marito? Quale comitiva un simile convitato? Quale servo un simile padrone? Chi non preferirebbe uno normalmente matto, gentile con la moglie, gradito agli amici, buon commensale; uno con cui si stia bene insieme e che, in sintesi,  non ritenga estraneo a sé niente di ciò che è umano?
Ma ora basta con i sapienti, parliamo di cose più serie.

XV

LA FOLLIA PROCURA LE ILLUSIONI CHE SALVANO DALLA DISPERAZIONE

Supponiamo che uno possa salire tanto in alto da vedere quante avversità minaccino la vita, quanto infelice e miserabile sia la nascita, quanto faticosa l’educazione, e tutte le offese cui va incontro la fanciullezza, tutti gli affanni della gioventù, e com’è pesante la vecchiaia, come amara la morte; tutta la schiera delle malattie e degli altri guai; nulla mai che sia immune da un amaro veleno; per non dire di quei mali che l’uomo subisce dall’uomo, come la povertà, la prigionia, l’infamia, la vergogna, la tortura, le insidie, il tradimento, le ingiurie, i processi, le frodi. Di fronte a tanta sconfinata infelicità egli si dispererebbe. È per questo che proprio gli uomini più consapevoli della condizione umana sono più propensi al suicidio. Ma sarebbero guai se tale consapevolezza si diffondesse.
Io invece,  puntando un po’ sull’ignoranza, un po’ sulla spensieratezza, un po’ sulla debolezza della memoria, riesco a ottenere che  proprio chi ha meno motivi di restare in vita, ama di più vivere e non è sfiorato dal tedio della vita.
Si deve a me se si vedono in giro tanti vecchi svaniti, sdentati, curvi, miseri, rugosi, senza capelli, senza denti, lascivi, ma a tal segno amanti della vita e tanto inclini a fare i giovinetti, che si tingono i capelli, nascondono la calvizie con il parrucchino e ostentano smaglianti dentiere. E c’è tra loro chi si strugge d’amore per una fanciulla e combina sciocchezze più di un ragazzino. Ed è ormai frequente che vecchi rammolliti, già sull’orlo della fossa,  sposino giovinette, anche se povere  e destinate a fare la gioia di altri.
E non vi è nulla di più spassoso di certe vecchie, praticamente già morte tanto sono messe male, che hanno sempre sulle labbra il ritornello: la vita è bella; fanno le vezzose, si profumano, s’imbellettano, stanno sempre allo specchio, si radono le parti intime, ostentano le tette avvizzite, sollecitano con tremuli mugolii il desiderio che vien meno, bevono, si inseriscono nelle danze delle fanciulle, scrivono bigliettini amorosi. Sono cose di cui tutti ridono come di indubbie follie; e hanno ragione: Ma loro, le vecchie, per merito mio, sono felici.
Ai miei pazzi non importa proprio nulla della riprovazione degli altri. Sono tanto impegnati ad applaudirsi che non s’accorgono dei fischi.
I filosofi sostengono che l’uomo è infelice se vive nell’ignoranza, se s’inganna, se è prigioniero della follia. Ma essere uomo è appunto questo. Nessuno è infelice quand’è in armonia con la propria natura. Mica possiamo compiangere l’uomo perché non può volare come gli uccelli, né camminare a quattro zampe come gli altri mammiferi, o perché, a differenza dei tori, non è dotato di corna? Né compiangeremmo un bel cavallo perché non sa di grammatica. In realtà, come non è infelice il cavallo che ignora la grammatica, così non è infelice l’uomo per la sua follia, che è conforme alla sua natura.


XVI

LA SCIENZA È UNA CALAMITÀ PERCHÉ VUOL FARE A MENO DELLA FOLLIA

Ma gli esperti del ragionamento tortuoso non si danno per vinti. È dono peculiare dell’uomo, dicono,  la conoscenza scientifica, che gli serve per compensare con l’ingegno ciò che la natura gli ha negato. Come se fosse verosimile che la natura, così sollecita nei confronti delle zanzare e perfino delle erbette e dei fiorellini, fosse stata leggera solo nella creazione dell’uomo, rendendogli necessarie quelle scienze  inadatte a renderlo felice. Le scienze dunque sono penetrate fra gli uomini, insieme alle altre calamità della vita mortale, per opera di coloro da cui partono tutti i malanni, i demoni del male.
La gente semplice dell’età dell’oro, del tutto priva di dottrina, viveva sotto l’unica guida della natura e dell’istinto. Che bisogno c’era della grammatica, quando tutti parlavano la stessa lingua e si cercava solo di capirsi l’un l’altro? A che la dialettica, se non c’era contrasto di opposte posizioni? A che la retorica, se nessuno intentava cause al prossimo? E che bisogno c’era della giurisprudenza, se non c’erano quei cattivi costumi che, senza dubbio, hanno fatto nascere le buone leggi? Erano troppo religiosi per scrutare con empia curiosità i misteri della natura, la grandezza, i moti, gl’influssi delle stelle, le cause riposte delle cose, giudicando vietato ai mortali il tentativo di conoscere più di quanto era loro concesso.
Non passava loro per la mente lo stolto desiderio di andare a cercare cosa ci fosse di là dal cielo.  Col graduale esaurirsi dell’età dell’oro, dapprima, come ho detto, dai demoni del male furono inventate le scienze, ma poche, e limitate a pochi. Poi misero becco i Caldei, con la loro superstizione, e quei perdigiorno dei Greci, con le loro disquisizioni. Basterebbe la  grammatica a rovinare una vita intera.

XVII

LE SCIENZE PIÙ UTILI A CHI LE PRATICA SONO QUELLE PIÙ VICINE ALLA FOLLIA

Tuttavia, tra tutte le scienze, le più utili a chi le pratica sono quelle più vicine alla follia. I teologi fanno la fame, i fisici soffrono il freddo, gli astrologi sono derisi, i dialettici non contano nulla, mentre un medico fa più fortuna di cento di loro messi insieme. Più è ignorante, avventato, leggero, tanto più ha successo. La medicina, infatti, si riduce, per lo più, a lisciare il paziente. Il secondo posto, con un brevissimo stacco, spetta ai legulei; la loro professione è irrisa per lo più dai filosofi, fra il generale consenso, come un’arte da asini. Tuttavia questi asini fanno grandi affari. Le loro proprietà crescono continuamente, mentre il teologo, dopo aver scandagliato tutti gli aspetti della divinità, rosicchia lupini, impegnato nella guerra continua con cimici e pidocchi.

XVIII

MA È VERAMENTE FELICE SOLO CHI SI TIENE LONTANO DA OGNI SCIENZA

Se è fortunato chi si dedica alle scienze più affini alla follia, è ancora più fortunato chi si mantiene aderente alla natura rifuggendo da ogni scienza e dalla relativa applicazione.
Non vedete che, tra le specie animali, se la passano meglio di tutte quelle che hanno come guida la natura? Guardate le api: che c’è di più felice e più mirabile? Non hanno neppure tutti i sensi. Ma quale architetto potrebbe avvicinarsi alla perfezione delle loro costruzioni? Quale filosofo ha mai concepito una repubblica come la loro? Invece il cavallo è più vicino all’uomo dal punto di vita dei sensi e, diventatone compagno, è anche vittima delle umane calamità. Gli capita di sfiancarsi nella corsa per la vergogna di perdere la gara; in guerra rischia la pelle e morde la polvere come il cavaliere. Per non parlare del morso, degli sproni appuntiti e della stalla, dove è prigioniero, del frustino, delle redini, del cavaliere, insomma della schiavitù cui si è assoggettato nel tentativo di fare l’eroe. È più invidiabile la sorte delle mosche e degli uccellini, che vivono alla giornata obbedendo solo all’istinto; sempre che lo consentano le insidie degli esseri umani. Perdono infatti il loro naturale splendore gli uccelli chiusi in gabbia e ammaestrati a imitare la voce umana. Il prodotto della natura è insomma ben migliore di quello che l’intervento dell’uomo ha adulterato.
E tra gli uomini antepongo, sotto tutti i punti di vista, i semplici ai dotti e i piccoli ai grandi.
È proprio vero che i più lontani dalla felicità sono, tra i mortali, quelli che aspirano alla sapienza. Doppiamente stolti, perché hanno dimenticato la loro condizione di uomini e sfidano la natura con ordigni costruiti dalla loro perizia. I meno infelici sembrano quelli che rimangono più vicini alla semplicità degli animali.

XIX

COMUNQUE, I PIÙ FELICI DI TUTTI SONO I MATTI

Chi è più felice, tra gli esseri umani, di coloro che volgarmente sono considerati stolti, sciocchi, scimuniti? Tutti appellativi, a mio parere, onorevolissimi.
Essi non hanno paura della morte. Non è mica cosa da poco! Non li tormentano rimorsi di coscienza; non li turbano le storie sugli spiriti dei defunti; non hanno paura delle apparizioni; non si angustiano per il timore di mali incombenti; non stanno in ansia per il futuro. Ignorano la vergogna, il timore, l’ambizione, l’invidia, l’amore. Peraltro più sono vicini alla stupidità degli animali e più sono immuni dal peccato, come garantiscono i teologi.
Cari sciocchissimi saggi, fate la somma degli affanni che vi tormentano notte e giorno e riconoscete quanti mali risparmio ai miei folli.  Non solo essi  vivono in perpetua letizia, scherzando, canterellando, ridendo, ma offrono anche a tutti gli altri motivi di piacere, scherzo, divertimento e riso, come se la benevolenza divina proprio a questo li avesse votati: a rallegrare la tristezza della vita umana. Così, mentre gli esseri umani provano, caso per caso, sentimenti diversi verso i loro simili, nei confronti di questi pazzi nutrono sempre sentimenti amichevoli: li vanno a cercare, li nutrono, li soccorrono, non tenendo in nessun conto quanto possano dire o fare. Nessuno desidera far loro del male. Persino le bestie feroci li risparmiano, istintivamente consapevoli della loro innocenza. Per questo sono a me particolarmente cari, e da tutti onorati.
Gli uomini potenti si dilettano di questi pazzi e non ne possono fare a meno. Di gran lunga li preferiscono ai filosofi austeri, anche se foraggiano costoro per ragioni di prestigio. E si capisce benissimo perché preferiscono i pazzerelli. Perché i saggi portano tristezza e talvolta, addirittura, confidando nella propria dottrina, osano sfiorare le orecchie delicate dei potenti con qualche scomoda verità. I buffoni invece offrono ai potenti ciò che desiderano con tutta l’anima: passatempi, scherzi, risate e sollazzi.
Il folle porta scritto in faccia, e traduce in parole, tutto quanto ha nel cuore. I saggi, invece, hanno due linguaggi: quello della verità e quello dell’opportunismo. È loro caratteristica mutare il nero in bianco, avendo in fondo al cuore tutt’altro da quello che dicono nei loro discorsi artefatti.
Si potrebbe osservare che le orecchie dei potenti detestano la verità e proprio per questo evitano i saggi, nel timore che a qualcuno di essi possano sfuggire cose vere ma sgradevoli. Ciò va a vantaggio dei miei folli: da loro i potenti ascoltano con piacere, non solo la verità, ma anche vere e proprie insolenze che, se le dicesse un sapiente, gli frutterebbero la morte; dette invece da un buffone, fanno ridere. Ma questo è un dono che ho riservato solo ai folli.
Si capisce anche perché le donne, più inclini per natura al divertimento e alle frivolezze, si trovano di solito tanto bene coi pazzerelli. Così, qualsiasi cosa essi facciano (magari, a volte, cose fin troppo serie) le donne le volgono in gioco.
Torniamo alla felicità dei folli. Essi, dopo aver trascorsa lietamente la vita, senza né il timore né il senso della morte, se ne vanno diritti all’altro mondo, per dilettare anche lì, coi loro scherzi, il riposo delle anime pie.
Paragoniamo quindi la condizione del saggio con quella del buffone. Vi descrivo un sapiente esemplare: un uomo che abbia consumato tutta la fanciullezza e l’adolescenza a istruirsi in mille modi, perdendo la parte migliore della propria vita in veglie senza fine, in affanni e fatiche; che nemmeno in tutto il resto della propria vita abbia mai gustato un istante di piacere; sempre parco, povero, triste, austero, inflessibile con se stesso, fastidioso e inviso agli altri; pallido, macilento, cagionevole; invecchiato e incanutito prima del tempo, colto da morte prematura senza aver praticamente mai vissuto. Ecco l’immagine perfetta del sapiente.
Parliamo adesso del folle. Ma non senza premettere che esistono due specie di follia. Quella diabolica, che suscita nei cuori dei mortali ardore di guerra, o insaziabile sete di oro, o amore turpe e scellerato, parricidio, incesto, sacrilegio, e altri consimili orrori. Ma l’altra, che nasce da me, non ha nulla in comune con questa. Essa si manifesta ogni volta che una dolce illusione libera l’animo dall’ansia e lo colma, insieme, di mille sensazioni piacevoli.
Ma non ogni errore dei sensi o della mente merita il nome di follia. Se uno che ci vede poco scambia un mulo per un asino, se un altro ammira come un monumento di dottrina una rozza poesia, non si può senz’altro chiamarlo pazzo. Ma se uno sbaglia, non solo coi sensi, ma anche col giudizio della mente, e questo gli accade sempre e in proporzioni insolite, di lui, sì, diremo che ha un ramo di pazzia; come chi, sentendo un asino ragliare, credesse di ascoltare un meraviglioso concerto, o chi, povero e di umili origini, credesse di essere ricco sfondato.
Ma quando questa specie di follia, come di solito accade, assume aspetti piacevoli, è di non piccolo diletto, sia per coloro che ne sono posseduti, sia per quelli che stanno a vedere senza esserne colpiti. Si tratta, si badi, di un’affezione molto diffusa; più di quanto di solito si crede. Il pazzo ride del pazzo, e a vicenda si offrono diletto. E non di rado vi accadrà di vedere che, di due pazzi, il più pazzo è quello che più si prende gioco dell’altro.
 Eppure, ve lo assicuro, uno è tanto più felice quanto più la sua follia è multiforme, purché si mantenga entro il genere a me peculiare: un genere così diffuso che non so se fra tutti gli uomini se ne possa trovare uno solo che sia costantemente saggio, e che sia del tutto immune da una qualche forma di pazzia. La differenza è tutta qui: chi, vedendo una zucca, la scambia per la moglie, viene chiamato pazzo perché la cosa succede a pochissimi. Chi invece, avendo la moglie in comune con altri, giura che è la più virtuosa delle donne, è felice del suo errore; e nessuno lo chiama pazzo, perché la cosa accade spesso e dovunque.

XX

TRA I SEGUACI DELLA FOLLIA VANNO ANNOVERATI ANCHE I CACCIATORI …

Appartengono alla schiera dei miei seguaci anche coloro per i quali non vi è nulla di meglio di una partita di caccia. Che piacere squartare la selvaggina! Il plebeo può squartare tori e castrati, ma compirebbe un delitto se lo facesse con un capo di selvaggina: questa è prerogativa dei nobili. A capo scoperto sta il nobile, piegati i ginocchi, col coltello destinato allo scopo (è vietato servirsi di uno strumento qualunque), con gesti rituali, in pio raccoglimento, taglia determinate membra in un determinato ordine. Una folla silenziosa lo circonda, ammirata come se assistesse a non so quale nuovo rito, mentre si tratta di uno spettacolo visto e rivisto. Costoro, cacciando e cibandosi in continuazione di selvaggina, mentre ottengono solamente di trasformarsi press’a poco in fiere, si illudono invece di menar vita da re.
XXI

… E GLI ALCHIMISTI...

Altri miei seguaci sono quelli che tentano di trasformare la natura degli elementi e cercano per terra e per mare la quinta essenza. Si nutrono di una speranza così dolce da non tirarsi mai indietro di fronte a spese e fatiche e, con mirabile spirito d’inventiva, ne pensano sempre qualcuna per ingannarsi una volta di più e per rivestire l’inganno di liete apparenze, fino a dare fondo alle loro sostanze. Tuttavia non smettono di sognare e spingono anche gli altri verso la medesima felicità. E quando l’ultima speranza li ha abbandonati, si consolano col motto che “le grandi cose basta averle volute”. E accusano allora la brevità della vita, inadeguata alla grandezza dell’impresa.

XXI
… E FORSE ANCHE I GIOCATORI

Sono in dubbio se annoverare tra i miei seguaci i giocatori. Ma senza dubbio è uno spettacolo di spassosa follia vedere gente così schiava del gioco da eccitarsi al rumore dei dadi. Quando poi, obbedendo al costante stimolo della speranza di vincere, si sono completamente rovinati, defraudano chiunque gli càpiti, meno coloro che li hanno vinti nel gioco.  Così credono di comportarsi da persone serie. E che dire di quando, ormai vecchi, con la vista che vacilla, ricorrendo alle lenti, continuano a giocare? E, quando infine l’artrite impedisce loro l’uso delle mani, arrivano a pagare un sostituto che getti sulla tavola, per loro, i dadi. Gran bella cosa sarebbe il gioco, se il più delle volte non volgesse in passione rabbiosa; ma qui siamo ormai fuori dal mio regno.

XXII

SENZ’ALTRO SONO SEGUACI DELLA FOLLIA I BIGOTTI E I CREDULONI …

Sono senz’altro miei seguaci coloro che si divertono ad ascoltare o narrare storie di miracoli o di prodigi fantastici e non si stancano mai di ascoltare favole in cui si parla di eventi portentosi, di spettri e di altre cose del genere. Quanto più la favola si scosta dal vero, tanto più volentieri ci credono, tanto più voluttuosamente le loro orecchie ne sono solleticate. Di qui, non solo un apprezzabile passatempo contro la noia, ma anche una fonte di guadagno, specialmente per i preti e i predicatori.
Sono della stessa schiera coloro che nutrono la folle ma piacevole convinzione di non essere esposti a morire in giornata, solo perché hanno visto il simulacro ligneo o l’immagine dipinta di san Cristoforo; o credono di tornare sani e salvi dalla battaglia, se hanno rivolto le debite preghiere alla statua di santa Barbara; o di arricchirsi in breve rendendo omaggio a sant’Erasmo in certi giorni, con speciali candeline e determinate formulette.
Che dire poi di quelli che, nell’illusione d’indulgenze accordate ai loro peccati, computano quasi con l’orologio alla mano il periodo da passare in purgatorio, numerando secoli, anni, mesi, giorni e ore? O di quelli che, fidando in formule insensate e ridicoli amuleti forniti, per naturale disposizione o per guadagno, da qualche ciurmatore, coltivano speranze illimitate: ricchezze, onori, piaceri, salute, lunga vita, vecchiaia vegeta, e, alla fine, nel regno dei cieli, un seggio proprio accanto a Cristo. Per questo però c’è sempre tempo. Meglio godersi le delizie della vita: le delizie dei beati possono aspettare.
Immaginate un mercante, o un soldato, o un giudice che, rinunciando a una sola monetina dopo tante ruberie, crede di avere lavato una volta per tutte il fango di un’intera vita e ritiene che tanti spergiuri, tanta libidine, tante ubriacature, tante risse, tante stragi, tante imposture, tante perfidie, tanti tradimenti, siano riscattati al punto da poter ricominciare da zero una nuova catena di delitti.
E chi è più folle, o meglio più felice, di quanti recitando ogni giorno sette versetti del salterio si ripromettono una beatitudine sconfinata? Roba da matti! Persino io me ne vergogno. Sono cose, tuttavia, che godono l’approvazione, non solo del volgo, ma anche di chi propina insegnamenti religiosi.

XXIII

… E COLORO CHE SI RACCOMANDANO AI SANTI INVECE DI IMITARLI

Analogamente si venerano i santi per ottenerne benefici di ogni genere. Uno deve far passare il mal di denti; un altro deve assistere le partorienti; un altro fa recuperare gli oggetti rubati; un altro salva il  naufrago, un altro protegge il gregge ecc. Troppo lungo sarebbe elencarli tutti. Ve ne sono che da soli possono essere utili in parecchi casi; vi ricordo la Vergine, madre di Dio, alla quale il volgo attribuisce quasi più poteri che al Figlio.
Ma che cosa chiedono gli uomini a questi santi, se non cose che sanno di follia? Fra tanti ex-voto di cui sono zeppe le pareti di certe Chiese, ne avete mai visti di chi fosse guarito dalla follia, o che fosse diventato, sia pure di un’inezia, più saggio? Uno si è salvato a nuoto; un altro, ferito dal nemico, è riuscito a sopravvivere; un altro, con l’aiuto di un santo protettore dei ladri, è caduto dal patibolo per poter continuare ad alleggerire delle loro ricchezze quelli che non le meritano; un altro è guarito dalla febbre con disappunto del medico; a un altro il veleno, invece di ammazzarlo, gli ha fatto da medicina, con delusione della moglie che si era data da fare per niente; un altro, rimasto  sotto le macerie, è sopravvissuto; un altro, infine, colto sul fatto da un marito, è riuscito a svignarsela.
Nessuno che renda grazie per essere stato guarito dalla pazzia. Gran bella cosa mancare di senno, se i mortali tutto deprecano, fuori che la follia.
A tal punto la cristianità intera trabocca di vaneggiamenti del genere; e i sacerdoti stessi sono pronti ad ammetterle e incoraggiarle, non ignorando il guadagno che di solito glie ne viene. Se però nel frattempo qualche saggio impertinente si permettesse di  dire le cose come stanno: «Morirai bene, se bene avrai vissuto; laverai i tuoi peccati, se all’offerta di una moneta aggiungerai il pentimento con lacrime, veglie, preghiere, digiuni, e un radicale cambiamento di vita; avrai la protezione di questo santo, se ne imiterai la vita». Se quel saggio si mettesse a ripetere queste cose e altre del genere, le anime dei mortali passerebbero dalla letizia allo sgomento.

XXIV

SONO TRA I SEGUACI DELLA FOLLIA ANCHE QUELLI CHE ORGANIZZANO IL PROPRIO FUNERALE...

Rientrano nella mia congrega coloro che, da vivi, stabiliscono la pompa del proprio funerale con tanta cura da indicare il numero delle torce, degli incappucciati, dei cantori e delle lamentatrici, come se dovessero assistere allo spettacolo e, da morti, potessero vergognarsi qualora il cadavere non fosse sepolto con la debita magnificenza.

XXV

… E COLORO CHE VANTANO IL PROPRIO CASATO

Per quanto cerchi di non dilungarmi, non riesco proprio a passare sotto silenzio coloro che, in nulla diversi dall’ultimo ciabattino, ostentano un vano titolo nobiliare e mostrano con orgoglio i ritratti degli antenati. Ti enumerano uno dopo l’altro bisavoli e trisavoli ricordandone i nomi, ma di sé hanno poco da dire.Tuttavia vivono in  perfetta letizia. Né mancano gli sciocchi che guardano a questa razza di animali come se fossero divinità.

XXVINÉ VANNO DIMENTICATI GLI ATTORI, I CANTANTI, GLI ORATORI E I POETI
E non dimentichiamo i cosiddetti artisti. Faresti prima a trovarne uno disposto a cedere il campo paterno che a rinunziare al suo talento, soprattutto nell’ambito degli attori, dei cantori, degli oratori e dei poeti. Uno meno vale più è sicuro di sé. E più è sicuro di sé più ha successo. Quanto meno si vale tanto più si è ammirati. Perché sforzarsi di acquisire una cultura autentica che costerebbe tanta fatica e renderebbe più timidi, restringendo così la cerchia degli ammiratori?

XXVII

L’ORGOGLIO DELLE NAZIONI E DELLE CITTÀ È UN ALTRO PRODOTTO DELLA FOLLIA …

Mi rendo conto che la natura, come ha infuso un amor proprio nei singoli individui, ne ha instillato uno comune a tutti i cittadini di ciascuna nazione, e addirittura, di una stessa città. Di qui la pretesa degli Inglesi di primeggiare, oltre che nel resto, sul piano della bellezza, della musica e delle laute mense; gli Scozzesi vantano nobiltà, parentele regali, nonché dialettiche sottigliezze; i Francesi rivendicano la raffinatezza dei costumi; i Parigini pretendono la palma della scienza teologica vantandone un possesso quasi esclusivo; gli Italiani affermano la loro superiorità nelle lettere e nell’eloquenza. Tutti si cullano nella piacevole convinzione di essere i soli non barbari fra i mortali. Primi, in questo genere di felicità, sono i Romani, ancora immersi nei bellissimi sogni dell’antica Roma; quanto ai Veneti, si beano del prestigio della loro nobiltà. I Greci, quali inventori delle arti, si vantano delle antiche glorie dei loro famosi eroi; i Turchi e tutti gli altri musulmani pretendono il primato anche in fatto di religione e quindi deridono i cristiani come superstiziosi. Molto più gustoso è il caso degli Ebrei che aspettano sempre incrollabili il proprio Messia. Gli Spagnoli non la cedono a nessuno in fatto di gloria militare; i Tedeschi si compiacciono dell’alta statura e della conoscenza della magia.

                                                       XXVIII
… COSÌ COME L’ADULAZIONE.
         
L’amor proprio è dunque una forma di follia che consiste nell’accarezzare se stessi. Ma, se si accarezza un altro, si tratta di adulazione. Oggi, però, l’adulazione non gode buona fama; tutti ritengono che l’adulazione non si può accompagnare alla fedeltà, ma si renderebbero conto di quanto si sbagliano se solo guardassero all’esempio che viene dalle bestie. Chi, infatti, è più adulatore del cane? E, al tempo stesso, chi è più fedele? A meno che non si vogliano considerare più utili all’uomo i leoni,  le tigri e i leopardi. È vero che c’è una forma d’adulazione davvero perniciosa con cui taluni, perfidamente beffando gl’ingenui, li portano alla rovina. Ma l’adulazione che a me s’ispira nasce dal candore ed è vicina alla virtù molto più della ruvida schiettezza che si suole contrapporle. La mia adulazione rincuora gli animi abbattuti, raddolcisce la tristezza, riscuote dall’inerzia, sveglia gli ottusi, dà sollievo ai malati, mitiga i violenti, mette pace fra gli innamorati e ne conserva l’armonia, convince i fanciulli a studiare, rallegra i vecchi, ammonisce e ammaestra i potenti senza offenderli, lodandoli solo apparentemente. Insomma, fa in modo che ciascuno sia di sé più contento, il che è parte della felicità, e addirittura la parte più importante. Che cosa può esservi di più gentile di due muli che si grattano a vicenda?

XXIX
L’ANIMO UMANO È ATTRATTO PIÙ DALLA FINZIONE CHE DALLA REALTÀ: SU QUESTO SI BASA LA FORTUNA DELLA FOLLIA

Ma se è male, dicono, essere ingannati; è ancora peggio non essere ingannati. Sono, infatti, proprio privi di buon senso quanti ripongono la felicità dell’uomo nelle cose stesse. Essa dipende dal nostro modo di vederle. Infatti tale è l’oscurità e varietà delle cose umane che niente si può sapere con chiarezza.
Se poi qualcosa si può sapere, spesso abbiamo poco da rallegrarcene. L’animo umano è dominato più dalla finzione che dalla verità. Basta assistere a una predica in chiesa. Se il discorso si fa serio, tutti sonnecchiano, sbadigliano, si annoiano. Ma, se l’«urlatore» di turno (è stato un lapsus, volevo dire l’«oratore») tira fuori una di quelle storielle che si raccontano a veglia, tutti si ridestano e si mettono ad ascoltare a bocca aperta. Così pure i santi più leggendari (per esempio san Giorgio, o san Cristoforo, o santa Barbara) sono venerati con maggiore pietà rispetto a  san Pietro, a san Paolo e allo stesso Gesù Cristo. Le cose vere, anche le meno rilevanti, come la grammatica, costano tanta fatica. Un’opinione, invece, costa così poco, e alla nostra felicità giova altrettanto, se non di più. Se una moglie decisamente brutta, al marito sembra una venere, non sarà forse come se fosse bella davvero? Conosco un tale che alla sposa novella donò alcune gemme false facendogliele credere, con la parlantina che aveva, non solo assolutamente vere, ma anche rare e di valore inestimabile.
Ditemi un po’, che differenza c’era per la fanciulla, visto che quei pezzetti di vetro rallegravano altrettanto i suoi occhi e il suo cuore? Il marito, frattanto, aveva evitato una spesa e godeva dell’illusione della moglie che gli era grata come se avesse ricevuto doni di gran pregio.
Che differenza pensate vi sia fra coloro che nella caverna di Platone contemplano le ombre e le immagini delle varie cose, senza desideri, paghi della propria condizione, e il sapiente che, uscito dalla caverna, vede le cose vere? Se qualche differenza c’è, è a vantaggio di chi preferisce ingannarsi.

XXX
LA FOLLIA FA DEL BENE A TUTTI E NON VUOLE ESSERE RINGRAZIATA

La capacità di scacciare gli affanni è giustamente considerata il maggior merito del vino. Almeno  fino a che, smaltita la sbornia, gli affanni tornano all’assalto. Ma io procuro un’ebbrezza molto più piacevole, efficace e duratura.
A pochi tocca in sorte la bellezza, a pochissimi l’eloquenza, le ricchezze e il potere. La forza spesso non basta per non soccombere in guerra; la sensibilità induce alla malinconia; la salute è insidiata dalle malattie; il mare inghiotte la maggior parte di quelli che vi si avventurano; per non parlare degli incendi, dei terremoti, delle alluvioni e delle altre calamità naturali. Io sola stringo tutti in un generoso abbraccio. 
Nessuno mi dedica templi  e mi erige monumenti. Ma, se pure mi stupisco di questa ingratitudine, non me ne offendo. Col buon carattere che mi ritrovo, ci passo sopra. D’altronde gli esseri umani non fanno che dimostrarmi coi fatti, e non con le cerimonie, la loro devozione. Essi mi portano nel cuore e modellano su di me i loro costumi.
Quanti sono coloro che accendono candele alla Vergine, magari in pieno giorno, quando non ce n’è bisogno? Ma quanti  cercano d’imitarne la castità, la modestia, l’amore per il regno dei cieli?
E perché mai dovrei desiderare un tempio, quando tutto il pianeta è il mio tempio? Mi mancano i devoti solo dove mancano gli esseri umani. Non sono così sciocca da andare in cerca di statue di pietra, o di legno, o di gesso dipinto, che spesso sono adorate dagli sciocchi al posto di coloro che esse rappresentano. Io credo di avere tante statue quanti sono gli uomini che, anche senza volerlo, mostrano nel volto la mia immagine vivente.
Se qualcuno giudica questo mio discorso esagerato, andiamo un po’ a vedere la vita stessa degli uomini, per mettere in chiaro quanto mi devono, e in che conto mi tengono, siano essi dei potenti o dei poveri diavoli.
Non esaminerò la vita di uomini qualunque, per non farla troppo lunga, ma solo quella di personaggi in vista, da cui sarà facile giudicare gli altri. Perché sprecare il fiato per il popolino, che indiscutibilmente tutto mi appartiene? Tante, infatti, sono le forme di follia di cui il popolo trabocca, e altre ne inventa ogni giorno.
Che varietà nel tumultuoso agitarsi dei folli!
Uno si strugge d’amore per una donnetta, e quanto meno è riamato tanto più ama senza speranza. Uno sposa la dote e non la donna. Uno prostituisce la sposa, mentre un altro, roso dalla gelosia, la spia.
C’è chi spende tutto ciò che ha per rimpinzarsi, a rischio di ridursi in breve a morire di fame; chi si abbandona al sonno e all’ozio; chi gode nel vivere da povero pur di arricchire gli eredi; chi, per un guadagno modesto e incerto, va in giro per il mondo rischiando la vita; chi cerca di arricchirsi in guerra invece di starsene al sicuro in casa sua; chi spera di arricchirsi senza fatica circuendo vecchi senza eredi e chi, per lo stesso scopo, fa la corte a vecchie danarose.
Ma la razza più stolta e abietta è quella dei mercanti che, pur trattando la più sordida delle faccende e nei modi più sordidi, pur mentendo, spergiurando, rubando, frodando a tutto spiano, si credono superiori agli altri perché hanno le dita inanellate d’oro. Né mancano di adularli certi fraticelli per carpirne parte dei profitti. C’è chi, ricco solo di speranza, sogna la felicità, e già questo sogno, per lui, è la felicità. C’è chi si compiace di essere creduto ricco, mentre a casa muore di fame. C’è chi dilapida rapidamente tutto quello che possiede e c’è chi accumula con mezzi leciti e illeciti. C’è chi si raccomanda per farsi candidare a cariche pubbliche e c’è chi è contento di starsene accanto al fuoco. C’è chi intenta cause temerarie e interminabili e arricchisce l’avvocato che è in combutta con la parte avversa. C’è chi ha la mania di  rinnovare il mondo e c’è chi  lascia a casa moglie e figli per andarsene a Gerusalemme, a Roma, a San Giacomo di Compostella.
Insomma, se potessimo contemplare dall’alto gli uomini nel loro agitarsi senza fine, crederemmo di vedere uno sciame di mosche e di zanzare in contrasto fra loro, intente a combattersi, a tendersi tranelli, a rapinarsi a vicenda, a scherzare, a giocare, a riprodursi, a cadere e a morire. Si stenta a credere che razza di terremoti e di tragedie può provocare un animaletto così piccino e destinato a vita così breve. Infatti, di tanto in tanto, un’ondata di guerra o di pestilenza ne colpisce e ne distrugge migliaia e migliaia.

XXXI
C’È POI LA FOLLIA DEI GRAMMATICI…

Sarei io stessa un’autentica pazza se continuassi a elencare tutte le forme di follia proprie del volgo. Mi rivolgerò a quelli che fra gli esseri umani passano per sapienti.
Fra loro al primo posto stanno i grammatici, che sarebbero certamente la genìa più perniciosa se non ci fossi io a mitigare, con una dolce forma di follia, i guai di quella infelicissima professione. Su di essi, infatti, pesano infinite  maledizioni: sempre affamati, sempre sporchi, se ne stanno nelle loro scuole (le chiamo scuole, ma dovrei dire camere di tortura) fra turbe di ragazzi e invecchiano nella fatica; assordati dagli schiamazzi, imputridiscono nel puzzo e nel sudiciume; tuttavia, per mio beneficio, avviene che si ritengano i primi tra gli uomini. Sono così contenti di sé, quando col volto truce e con la voce minacciosa atterriscono la tremebonda folla degli alunni; quando le suonano a quei disgraziati con sferze, verghe e scudisci, e in tutti i modi incrudeliscono a loro capriccio.  Intanto, per loro, quel sudiciume è la quintessenza del nitore, quel puzzo sa di maggiorana, quell’infelicissima schiavitù è pari a un regno.  Ma si sentono ancora più felici perché sono convinti di  essere dei dotti.
C’è poi un’altra fonte di piacere: quando uno di loro scova in un foglio ammuffito una paroletta di uso non comune, o quando, scavando da qualche parte, tira fuori un frammento di un antico sasso che porta un’iscrizione mutila. Che esplosioni di gioia allora, che trionfi, che elogi! E che diremo di quando vanno sbandierando a tutto spiano i loro insulsissimi versiciattoli, che non mancano peraltro di ammiratori? Ma la scena più divertente si ha quando si scambiano lodi e complimenti, e a vicenda si danno una lisciatina. Se poi uno di loro incappa in un lapsus, e un altro più avveduto per caso se ne accorge, allora sì che ne viene fuori una tragedia a base di polemiche, di litigi, di ingiurie!
Ho conosciuto una volta un tale, dotto in svariati campi: sapeva di greco, di latino, di matematica, di filosofia, di medicina. Ormai sessantenne, messo da parte tutto il resto, da oltre vent’anni si tormenta sulla grammatica, ritenendo di poter essere felice se vivrà abbastanza da stabilire con certezza come vadano distinte le otto parti del discorso. Finora nessuno, né dei Greci né dei Latini, ci è riuscito pienamente.
E scoppia quasi una guerra se uno considera congiunzione una locuzione avverbiale. A questo modo, pur essendovi tante grammatiche quanti sono i grammatici, questo tale non tralascia di leggerne ed esaminarne minuziosamente nessuna, per barbara o goffa che sia nello stile. Guarda infatti con sospetto chiunque faccia in materia un tentativo, sia pure insignificante, attanagliato com’è dalla paura che qualcuno lo privi della gloria, vanificando  annose fatiche. Preferite chiamarla follia o stoltezza? A me poco importa, purché siate disposti a riconoscere che, per mio beneficio, l’animale più infelice di tutti può attingere tale una felicità da non volere scambiare la propria sorte neppure con quella dei re.

XXXII
… E DEI POETI E DEI RETORI …

I poeti mi sono meno debitori, anche se chiaramente appartengono alle mie schiere, essendo dediti a sedurre l’orecchio dei pazzi con autentiche sciocchezze e storielle risibili. Fidando nei loro mezzi promettono immortalità e divina beatitudine a se stessi e anche agli altri.
Anche i retori fanno parte della mia confraternita. Molte cose lo dimostrano, ma una in primo luogo: scrivono con tanto impegno sull’arte di scherzare. Infatti, quando sono a corto d’argomenti, cercano una scappatoia nel riso. Ebbene, non è proprio della follia eccitare il riso con detti scherzosi?
Nella stessa schiera rientrano quelli che aspirano a diventare scrittori di successo. Essi mi devono molto, soprattutto se scrivono cose leggere per il grande pubblico. 
Al contrario, gli eruditi mi sembrano infelicissimi perché  scrivono per pochi dotti; si arrovellano a fare aggiunte, tagli, sostituzioni; riprendono, limano, chiedono pareri, lavorano a un argomento anche per anni, pagando a caro prezzo un premio da nulla quale è la lode di quattro gatti. Lo pagano con tante veglie, con tanto spreco di sonno (il sonno, la più dolce delle cose!), con tanta fatica, con tanto sacrificio. Metti pure il danno alla salute, il calo della vista, la povertà, l’invidia degli altri, la rinuncia ai piaceri, l’invecchiamento precoce, la morte prematura. Credono che ne valga la pena.
Quanto più felice il delirio dello scrittore mio seguace quando, seguendo l’ispirazione del momento, mette prontamente per iscritto tutto ciò che gli passa per la testa, perfino i sogni, sapendo che più sciocche saranno le sciocchezze che scrive, e più troverà consenso nella maggioranza, cioè in tutti gli stolti e ignoranti. Che importa il disprezzo degli eruditi, sempre che leggano le loro baggianate? E che peso può avere il giudizio di pochi sapienti, se a contrastarlo c’è una folla sconfinata? Ma ancora più avveduti si rivelano coloro che pubblicano, spacciandoli per propri, gli scritti altrui e trasferiscono sulla propria persona una gloria che è frutto del faticoso impegno altrui. Confidano che, se anche saranno accusati di plagio, tuttavia, per qualche tempo, avranno tratto vantaggio dall’inganno.
Questi scrittori di successo c’è gusto a vederli quando si gonfiano perché la gente li elogia e perché i loro libri stanno esposti in libreria, o quando si scambiano elogi con altri palloni gonfiati.
I saggi deridono questi successi, ma intanto, per merito mio, quelli se la godono.

XXXIII… E DEI GIURISTI E DEI I FILOSOFI …

Fra gli eruditi il primo posto spetta ai giuristi. Nessuno più di loro è soddisfatto di sé quando citano leggi a iosa, non si sa quanto a proposito, aggiungendo glosse a glosse, pareri a pareri, facendo credere che lo studio del diritto è il più difficile che ci sia.
Accanto ai giuristi metto i filosofi. Sono così loquaci che uno qualunque di loro potrebbe gareggiare in fatto di chiacchiera con venti donne di prima scelta. Almeno fossero soltanto chiacchieroni e non anche litigiosi al punto di polemizzare con estrema tenacia per questioni di lana caprina e da trascurare spesso, nella foga della contesa, i diritti della verità. Pieni di sé come sono, godono ugualmente quando, armati di tre sillogismi, non esitano ad attaccare lite con chiunque, a qualunque proposito. Del resto la loro pertinacia li rende invincibili.

XXXIV
… E DEI TEOLOGI …
Dei teologi, forse meglio farei a non parlare. A toccare quest’erba puzzolente si suscita un vespaio perché, aggressivi come sono, assalgono in gruppo con centinaia di argomenti e costringono a fare ammenda. Atterriscono chi non gode le loro simpatie scagliando come un fulmine l’accusa di eresia. Eppure, ancorché siano i meno propensi a riconoscere i miei meriti nei loro confronti, anche loro, e non di poco, mi sono debitori. Devono a me, infatti,  quell’alta opinione di sé che li rende felici, come se il terzo cielo fosse la loro dimora, dalla quale guardano dall’alto in basso, con una sorta di commiserazione, tutti gli altri mortali, come se fossero animali che strisciano a terra; mentre loro, trincerati dietro un muro di definizioni, conclusioni, corollari e proposizioni esplicite ed implicite, si ritengono inattaccabili. Spiegano a modo loro i misteri più arcani: i criteri che stanno  a base della creazione e dell’ordinamento del mondo, per quali vie la macchia del peccato si è trasmessa di generazione in generazione, in che modo, in che misura e in quanto tempo Cristo si è formato nel grembo della Vergine, come nell’Eucaristia ci possono essere gli accidenti senza la materia. Ma questo è niente. Sono altre le questioni che li esaltano: qual è l’istante della generazione divina? ci sono più filiazioni in Cristo? è sostenibile la proposizione «Dio Padre odia il Figlio»? avrebbe potuto Dio assumere figura di donna, di demonio, di asino, di zucca, di pietra? in caso affermativo, come la zucca avrebbe potuto predicare, fare miracoli, essere messa in croce? che cosa avrebbe consacrato Pietro, se avesse consacrato mentre Cristo pendeva dalla croce? e poteva Cristo, in quel medesimo tempo, essere chiamato uomo? infine, dopo la resurrezione, potremo mangiare e bere? Della fame e della sete, infatti, costoro si preoccupano fin da ora. Innumerevoli poi le sottigliezze, anche molto più sottili di queste, circa le nozioni, le relazioni, le formalità, le quiddità, le ecceità, che sfuggirebbero agli occhi di tutti, tranne a chi fosse capace di vedere nelle tenebre più profonde anche le cose che non sono in nessun luogo. Emettono poi sentenze così paradossali che i paradossi con cui si divertivano i Greci, sembrano al confronto luoghi comuni dei più rozzi e banali. Per esempio, che accomodare una volta la scarpa di un povero nel giorno del Signore è delitto più grave che strangolare mille uomini; che dire una volta tanto una sola bugia, per quanto piccina, è più grave che lasciare andare in malora il mondo intero con tutta la sua dovizia di cose utili e belle. A rendere ancora più sottili queste sottilissime sottigliezze ci sono le tante vie battute dagli scolastici. È più facile uscire da un labirinto che dalle oscure tortuosità di realisti, nominalisti, tomisti, albertisti, occamisti, scotisti. E non ho nominato tutte le scuole, ma solo le principali.
C’è tanta erudizione, tanta astrusità, che persino gli Apostoli, se si trovassero a dover discutere con questi teologi, avrebbero bisogno di un secondo Spirito Santo. Paolo poté dimostrare la sua fede, ma quando dice che «la fede è sostanza di cose sperate, e argomento di cose che non si vedono», dà una definizione manchevole dal punto di vista dottrinale. Proprio Paolo, che in modo eccellente fece professione di carità, ne dette, nel capitolo tredicesimo della prima epistola ai Corinzi, un’analisi ed una definizione difettose in sede dialettica. Gli Apostoli, certamente, celebravano l’Eucaristia con la dovuta pietà. Non credo però che (interrogati sul termine a quo e sul termine ad quem, sulla transustanziazione, sull’ubiquità di un medesimo corpo, sulla differenza tra il corpo di Cristo in cielo, sulla croce e nel sacramento dell’Eucaristia, sull’istante in cui avviene la transustanziazione) avrebbero raggiunto la sottigliezza degli scotisti.
Gli Apostoli avevano conosciuto la madre di Gesù; ma chi di loro dimostrò, con l’ineccepibile metodo filosofico dei nostri teologi, come rimase immune dalla macchia del peccato di Adamo? Pietro ha ricevuto le chiavi, e le ha ricevute da Colui che non le darebbe a un indegno; e tuttavia non so se avrebbe capito (certo non ne ha mai colto la sottigliezza) la questione del come possa possedere la chiave della scienza anche chi non ha la scienza. Gli Apostoli battezzavano in ogni luogo; tuttavia non hanno mai insegnato quale sia la causa formale, materiale, efficiente e finale del battesimo, né mai hanno fatto menzione del suo carattere delebile e indelebile. Gli Apostoli adoravano, sì, Dio, ma in spirito, attenendosi unicamente al principio evangelico: «Dio è spirito, e chi lo adora deve adorarlo in spirito e verità». Non pare tuttavia sia stato ad essi ben chiaro che dobbiamo adorare Cristo allo stesso modo, sia in persona che in una sua immagine scarabocchiata col carbone sul muro, purché vi appaia con due dita levate, i capelli lunghi e tre raggi nell’aureola che gli cinge la nuca. Come si possono cogliere queste finezze, se prima non ci si è dedicati anima e corpo, per almeno trentasei anni, alla fisica e alla metafisica di Aristotele e di Duns Scoto? Allo stesso modo gli Apostoli parlano della grazia, ma non fanno mai distinzione fra grazia gratuita e grazia gratificante. Esortano alle opere buone, ma non distinguono fra opera operante e opera operata. Dappertutto insistono sulla carità, ma non distinguono fra carità infusa e carità acquisita, né spiegano se sia sostanza o accidente, cosa creata o increata. Detestano il peccato, ma non sono riusciti a definire cosa sia quello che diciamo peccato; per questo avrebbero dovuto formarsi alla scuola degli scotisti. Né posso credere che Paolo, dalla cui erudizione si può arguire quella degli altri Apostoli, avrebbe condannato tante volte  le questioni, le controversie, le genealogie, le contese a parole, com’egli le chiama, se avesse avuto egli stesso l’abitudine a simili sottigliezze.
Anche se poi questi maestri, nella loro grande modestia, quando gli Apostoli hanno scritto una cosa in forma disadorna, e, certo, non magistrale, non la condannano, ma ne offrono un’accettabile interpretazione Quest’onore tributano in parte all’antichità, in parte all’autorità degli Apostoli. Del resto, sarebbe stata una bella ingiustizia pretendere la conoscenza di cose tanto difficili da chi non ne aveva mai sentito far parola dal divino maestro. Se però la cosa si verifica in Crisostomo, in Basilio, in Girolamo, ritengono sia sufficiente annotare: «affermazione respinta». Eppure si tratta di autori che confutarono i pagani, i filosofi, gli ebrei, per loro natura ostinatissimi; lo fecero con la vita e coi miracoli più che coi sillogismi. D’altra parte nessuno dei loro avversari sarebbe stato in grado di capire neppure una delle sottigliezze di Duns Scoto. Al giorno d’oggi, quale pagano, quale eretico non si darebbe senz’altro per vinto di fronte a tante sottilissime finezze? A meno che non fosse così ottuso da non capirle, o così impudente da schernirle,  o così esperto in quei medesimi cavilli da combattere ad armi pari. In tal caso si avrebbe un duello fra due avversari armati entrambi di una spada incantata: tutto si ridurrebbe a tessere e ritessere la tela di Penelope.
Secondo me i cristiani darebbero prova di un gran buon senso se, invece delle rozze armate che ormai da un pezzo combattono con esito incerto, inviassero contro i Turchi gli scotisti coi loro grandi schiamazzi, gli occamisti così ostinati, gl’invitti albertisti, e con essi l’intera banda dei sofisti: assisterebbero, credo, alla più divertente delle battaglie e a una vittoria mai vista prima. Chi, infatti, potrebbe essere tanto freddo da resistere ai loro strali infuocati? chi tanto torpido da non esserne stimolato? chi avrebbe la vista tanto buona da non rimanerne abbagliato?
Ma voi credete che i miei siano tutti scherzi. Posso capirlo: anche fra i teologi ve ne sono di cultura superiore che giudicano futili queste arguzie. Ve ne sono che considerano come il massimo dell’empietà, parlare con linguaggio così volgare di cose tanto misteriose, oggetto d’adorazione più che di spiegazione; discuterne usando il profano argomentare dei pagani; definirle con tanta presunzione, e infangare la maestà della divina teologia con parole e concetti così poveri e addirittura spregevoli.
Ma intanto gli altri si compiacciono beatamente di se stessi e addirittura si battono le mani, e dediti notte e giorno alle loro piacevolissime cantilene non trovano neppure un minuto per leggere almeno una volta il Vangelo o le lettere di san Paolo. E, mentre nelle scuole vanno propinando ai discepoli simili sciocchezze, credono di essere loro a salvare da rovina certa la Chiesa universale sostenendola con la forza dei loro sillogismi. E vi pare poco gratificante por mano ai misteri delle Scritture plasmandole a piacere, ora in questa ora in quella guisa, come fossero cera, ed esigere che le proprie conclusioni, già accettate da un certo numero di scolastici, siano ritenute più importanti dei decreti pontifici? Se poi qualcosa non coincide alla perfezione con le loro conclusioni esplicite e implicite, come fossero i censori del mondo, ne impongono la ritrattazione e, come se parlasse l’oracolo, sentenziano: «proposizione scandalosa», «proposizione irriverente», «questa odora di eresia», «questa suona male». Per fare un cristiano non basta più il battesimo, né il Vangelo, né Pietro, né Paolo, né san Girolamo, né sant’Agostino; addirittura non basta neppure Tommaso, il principe degli aristotelici. Ci vuole anche il voto di questi baccellieri, così sottili nel giudicare. Chi, infatti, senza l’insegnamento di questi sapienti, si sarebbe mai accorto che non era cristiano chi riteneva ugualmente corrette queste due proposizioni: «vaso da notte, tu puzzi» e «il vaso da notte puzza»? Oppure: «bolle la pentola» e «la pentola bolle»?
Chi avrebbe liberato la Chiesa da così gravi errori, di cui nessuno si sarebbe mai accorto, se costoro non li avessero denunciati col sigillo della loro alta autorità? E non saranno al colmo della gioia mentre fanno tutto ciò? o quando ritraggono con molta esattezza il mondo infernale come se per molti anni fossero stati cittadini di quella repubblica? o quando fabbricano a capriccio nuove sfere celesti, creandone infine una più grande di tutte, più bella, perché le anime beate abbiano agio di passeggiarvi, di banchettare e anche di giocare a palla? Perciò non vi stupite quando nelle pubbliche dispute li vedete con la testa così accuratamente imberrettata: è per evitare che scoppi.
A volte, anch’io rido del fatto che, quanto più il loro linguaggio è barbaro e rozzo, tanto più si credono grandi teologi, e in quel balbettare, comprensibile solo da un altro balbuziente, loro chiamano finezza d’ingegno quello che la gente non capisce. Negano infatti che sia compatibile con la dignità delle sacre lettere sottomettersi alle leggi della grammatica. Mirabile maestà, invero, quella dei teologi, se a loro soli è lecito costellare di spropositi il discorso, anche se poi hanno in comune questo privilegio con molti ignoranti.

XXXV
… E DEI RELIGIOSI E DEI MONACI …
Quasi altrettanto felici, sono quelli che comunemente si fanno chiamare religiosi e monaci, usando, in entrambi i casi, denominazioni quanto mai false. Per buona parte, infatti, sono mille miglia lontani dalla religione; e, mentre «monaco» significa «solitario», essi s’incontrano dappertutto e ad ogni passo. Non vedo chi potrebbe essere più misero di costoro, se non ci fossi io a soccorrerli. Perché, pur essendo questa genìa a tal segno detestata da tutti, che persino un incontro casuale con qualcuno di loro è ritenuto di malaugurio, si cullano tuttavia nell’illusione di essere chissà che cosa. In primo luogo ritengono che il massimo della pietà consista nell’essere tanto ignoranti da non saper neppur leggere. Poi, quando, con voce asinina, ragliano i loro salmi, sono convinti d’accarezzare in modo dolcissimo le orecchie di Dio. Neppure mancano quelli che ostentano il loro sudiciume e la loro mendicità. Dinanzi alle porte chiedono il pane emettendo muggiti lamentosi; non c’è albergo, non veicolo o nave in cui non portino scompiglio con non piccolo danno degli altri mendicanti. Così, queste carissime persone, dicono di darci un’immagine degli Apostoli con la loro sporcizia, ignoranza, rozzezza, impudenza.
E cosa c’è di più divertente delle regole attinenti al loro aspetto, la cui violazione considerano un delitto?  Il sandalo deve avere un certo numero di nodi; il cordone deve essere di un certo colore; la veste deve essere di un preciso modello; il cappuccio deve avere una determinata capacità. Chi non vede che questa uniformità con la grande varietà dei corpi e degli spiriti? Tuttavia, per queste sciocchezzuole, non solo si considerano superiori agli altri, ma anche fra di loro si disprezzano a vicenda e, pur professando la carità apostolica, fanno un’autentica tragedia di una cintura diversa o di un colore un po’ più scuro. Ne potresti vedere di così rigidamente attaccati alla regola da portare di sopra il rozzo saio e sotto una camicia finissima; altri, che sopra sono vestiti di tela e sotto di lana; altri, infine, che aborrono il contatto del denaro come fosse veleno, ma non si astengono affatto dal vino e dalle donne. Straordinario  è poi lo sforzo di tutti di differenziarsi nel tenore di vita, non curandosi d’essere simili a Cristo, ma di differenziarsi fra di loro.
Buona parte della loro soddisfazione deriva dai differenti nomi che si danno: gli uni si compiacciono del nome di Funigeri o Cordiglieri, distinti in Coletani, Minori, Minimi, Bollisti; altri godono del nome di Benedettini, o di Bernardini; questi di Brigidensi, quelli di Agostiniani; gli uni tengono alla denominazione di Guglielmiti, altri di Giacobiti, come se chiamarsi Cristiani fosse troppo poco. Gran parte di costoro, a tal punto dà peso alle proprie cerimonie e a minute tradizioni umane, da ritenere che un solo cielo non sia premio adeguato a meriti così grandi; e non pensano che Cristo, non facendo alcun conto del resto, chiederà loro se hanno osservato il suo unico precetto: la carità. Allora uno esibirà il pancione gonfio di pesci d’ogni specie; un altro rovescerà al suo cospetto cento metri cubi di salmi; un altro ancora farà il conto degli infiniti digiuni. Se poi tante volte ha rischiato di scoppiare, è stato per quell’unico pasto che si concedeva dopo ogni digiuno. Altri ancora mostrerà il mucchio delle cerimonie a cui ha partecipato. Qualcuno si vanterà di avere oltrepassato i sessant’anni senza toccare denaro, se non con le mani protette da due paia di guanti. Chi produrrà la cocolla tanto sporca e grassa che farebbe schifo anche a un marinaio. Chi ricorderà di avere fatto per più di undici anni la vita dell’ostrica, sempre attaccato allo stesso luogo; e chi si farà un merito della voce divenuta rauca per l’ininterrotto cantare, o del rimbecillimento derivato dalla vita solitaria; altri ancora della lingua resa torpida dal voto del silenzio. Ma Cristo, interrompendo queste vanterie che altrimenti rischierebbero di non finire più: «Di dove viene», dirà, «questa nuova schiatta di Giudei? Riconosco per mia una legge sola, e solo di questa non si fa parola. Eppure, una volta, con aperto linguaggio, e non in forma di parabola, ho promesso l’eredità del Padre mio non alle cocolle, non alle giaculatorie e ai digiuni, ma alle opere di carità. Non conosco questa gente che esalta continuamente i propri meriti; dato che vorrebbero sembrare anche più santi di me, occupino, se vogliono, i 365 cieli inventati dagli eretici, o si facciano edificare un nuovo cielo da coloro le cui meschine tradizioni anteposero ai miei precetti».
Quando sentiranno queste parole, e si vedranno preferire marinai e cocchieri, con che faccia credete che si guarderanno a vicenda?
Nel frattempo si beano della loro speranza, e non senza mio merito. E poi nessuno osa disprezzarli, soprattutto quelli degli ordini mendicanti, perché attraverso la cosiddetta confessione conoscono i segreti di tutti. Rivelarli, tuttavia, secondo loro, è peccato grave, salvo dopo una bevuta, quando vogliono dilettarsi di qualche racconto più divertente; ma anche allora raccontano i fatti solo in via ipotetica, senza far nomi. Se però qualcuno irrita questi calabroni, se ne vendicano predicando al popolo, e bollano il nemico con allusioni tanto scoperte da essere capite da tutti, salvo da chi non capisce proprio nulla. Né la smettono di latrare, se prima non gli hai gettato il boccone in bocca.
Eppure, quale commediante, quale ciarlatano andresti a vedere a preferenza di costoro, quando nella predica s’esibiscono in tirate retoriche che, pur nella loro assoluta ridicolaggine, s’attengono nel modo più spassoso alle norme sull’arte del dire tramandate dai maestri? Dio mio, come gesticolano! E come modulano la voce! E come canterellano! Come si spenzolano verso l’uditorio e come mutano espressione! Come sbraitano! Quest’arte oratoria viene trasmessa come un segreto da un fraticello all’altro. Sebbene non mi è lecito conoscerla, tenterò qualche congettura.
Scimmiottando i poeti, cominciano con un’invocazione. Poi, se devono parlare, poniamo, della carità, prendono le mosse dal Nilo. Se invece devono trattare del mistero della Croce, cominciano giulivamente dal drago di Babilonia. Se l’argomento è il digiuno, si rifanno ai dodici segni dello Zodiaco e se invece è la fede, premettono una lunga introduzione sulla quadratura del cerchio.
Ho ascoltato un famoso teologo ottantenne che, dovendo spiegare il mistero del nome di Gesù, con mirabile sottigliezza dimostrò che tutto quanto se ne poteva dire era nascosto nelle lettere stesse che lo componevano. Perché il fatto che la sua declinazione abbia tre casi soli è segno manifesto della divina Trinità. Il mistero ineffabile poi, sta nel fatto che il primo caso, JESUS, termina in S, il secondo, JESUM, in M, il terzo, JESU, in U: quelle tre lettere significano che è sommo, medio e ultimo. Restava un mistero anche più ostico, da risolversi col calcolo matematico. Divise la parola Jesus in due parti uguali, in modo che una lettera, in mezzo, restasse divisa in due. Disse che quella lettera per gli Ebrei è SYN, che in lingua scozzese, credo, voglia dire peccato: di qui risulta manifesto che Gesù è colui che redime il mondo dai peccati. Per l’originalità dell’esordio tutti rimasero a bocca aperta, i teologi in particolare.
Il preambolo dovrebbe essere attinente al tema, ma questi dotti ritengono di toccare il massimo dell’eloquenza quando esso non abbia nulla a che fare col resto del discorso. Poi tirano fuori un breve passo del Vangelo e lo trattano frettolosamente, mentre sarebbe il solo punto da sviluppare. Poi sollevano  un problema teologico, che a volte non c’entra niente, e riempiono gli orecchi degli ascoltatori di nomi famosi di dottori solenni, dottori sottili, dottori sottilissimi, dottori serafici, dottori santi, dottori irrefragabili. E sbandierano davanti a una folla ignorante sillogismi maggiori, minori, conclusioni, corollari, supposizioni e altre sciocchezze prive di mordente e decisamente scolastiche. Infine, per lasciare il segno della loro bravura, tirano fuori una vecchia storiella e ne offrono un’interpretazione allegorica, tropologica, e anagogica.
Devono aver sentito dire che l’inizio dell’orazione deve essere basso di tono. Perciò cominciano con una voce così bassa che neanche loro la sentono. Hanno anche imparato che, a volte, per suscitare emozioni, è opportuno erompere in un grido. Perciò, a metà di un discorso concitato, all’improvviso si mettono a strillare furiosamente, senza il minimo bisogno. Inoltre, avendo appreso che il discorso deve animarsi via via che procede, assumono un tono sempre più appassionato e finiscono col concludere dando l’impressione di essere esausti.
Avendo infine imparato che i retori devono anche far ridere, tirano fuori qualche facezia che fa cascare le braccia.  Talvolta mordono anche, ma in modo da provocare più solletico che ferite. E più vogliono sembrare schietti più cadono nell’adulazione. Insomma giureresti che abbiano avuto per maestri i ciarlatani di piazza, restandone però molto al disotto.
Ciò nonostante, per opera mia, trovano chi, ascoltandoli, crede di trovarsi davanti a Demostene o a Cicerone in persona. Appartengono a questo genere di uditorio soprattutto i mercanti e le donnette, le sole persone a cui si curano di parlare in modo gradito, perché i mercanti, opportunamente lisciati, sono inclini, di solito, a scucire una piccola parte del mal tolto; mentre le donnette, oltre che per molte altre ragioni, sono ben disposte verso la categoria, soprattutto perché è loro costume attingerne conforto quando vogliono sfogare i propri malumori coniugali.
Vi rendete conto, suppongo, di quel che mi deve questa categoria di uomini che, esercitando tra i mortali una sorta di tirannia attraverso cerimonie da burla, ridicole ciance e urla scomposte, si credono dei nuovi San Paolo e Sant’Antonio.


XXXVI… E DEI SOVRANI E DEI  CORTIGIANI …
Ma ora lascio volentieri questi istrioni, tanto ingrati nel nascondere ciò che mi devono, quanto empi nell’ostentare una finta pietà religiosa. È un pezzo che ho voglia di trattare dei sovrani e dei loro cortigiani, che mi onorano con la franchezza tipica della loro nobiltà.
Se avesse solo una briciola di senno, che vi sarebbe di meno invidiabile della vita di un sovrano? Se considerasse l’enormità del peso che lo aspetta, non si guarderebbe bene dal procurarsi un corona con lo spergiuro o col parricidio? Infatti chi assume il potere supremo deve occuparsi degli affari pubblici, non dei propri interessi. Deve pensare esclusivamente alla pubblica utilità; non deve scostarsi neanche di un pollice dalle leggi, di cui è autore ed esecutore; deve assicurarsi dell’integrità di tutti i funzionari e di tutti i magistrati. Lui solo, agli occhi di tutti, può, come astro salutare, giovare enormemente alle cose di quaggiù coi suoi costumi senza macchia, oppure, come letale cometa, trarle all’estrema rovina. I vizi degli altri non sono altrettanto conosciuti e non si propagano tanto. Ma se il sovrano, con la posizione che occupa, si scosta appena dalla retta via, subito la corruzione si diffonde contaminando moltissimi uomini. Inoltre, poiché la condizione del sovrano porta con sé molte occasioni di deviare dal retto pensiero, quali i piaceri, la libertà, l’adulazione e il lusso, tanto più attentamente egli deve stare in guardia, se non vuole venir meno al proprio compito. Infine, per non parlare di insidie, odi, e altri pericoli o timori, gli sta sopra la testa quel vero Re che quanto prima gli chiederà ragione anche della colpa più lieve, e tanto più severamente quanto più prestigioso fu il suo imperio. Se il sovrano riflettesse su queste cose e su moltissime altre del genere (e ci rifletterebbe se avesse senno)  non dormirebbe sonni tranquilli e perderebbe l’appetito. Invece, col mio aiuto, dimentica tutti questi motivi d’affanno e se la spassa, porgendo orecchio solo a chi sa dire cose gradevoli, affinché nessuna ombra d’inquietudine gli offuschi l’animo. Egli ritiene di compiere il proprio dovere andando a caccia, allevando bei cavalli, mettendo in vendita magistrature e prefetture, escogitando sempre nuovi stratagemmi per alleggerire i cittadini delle loro sostanze, facendole confluire nel suo tesoro privato; ma lo fa con abili pretesti, in modo da conferire una qualche apparenza di giustizia anche alla peggiore iniquità. E per conquistare comunque le simpatie popolari, aggiunge qualche parola di adulazione. Immaginate un uomo, come se ne vedono a volte, ignaro delle leggi, quasi nemico del pubblico bene, tutto preso dai suoi interessi privati, dedito ai piaceri, con un’autentica avversione per la cultura, la libertà e la verità, che non si cura minimamente della salvezza dello Stato, che adotta come unità di misura le proprie voglie e il proprio tornaconto; mettetegli al collo una collana d’oro, simbolo della presenza in lui di tutte le virtù riunite; mettetegli in testa una corona ornata di gemme che lo richiami al suo dovere di superare gli altri in tutte le virtù eroiche; dategli lo scettro che simboleggia la giustizia e la cristallina purezza dell’animo, e infine la porpora a significare il suo straordinario amore per lo Stato. Se un sovrano paragonasse questi ornamenti simbolici col suo genere di vita, credo che finirebbe col provare solo vergogna della sua pompa, e col temere che qualche critico salace si prendesse gioco di lui volgendo in beffa questo apparato scenico.
E che dire dei cortigiani? Benché nulla vi sia di più strisciante, di più servile, di più sciocco, di più spregevole di loro, vogliono tuttavia essere ovunque al primo posto. Portano addosso oro, gemme e porpora senza curasi di praticare le virtù che tali ornamenti simboleggiano. Si ritengono molto fortunati perché possono rivolgersi al sovrano coi titoli onorifici di Serenità, Maestà e Magnificenza e perché riescono a non vergognarsi nel passare la vita ad adulare. Dormono fino a mezzogiorno, mentre un pretonzolo stipendiato aspetta accanto al letto per celebrare la messa alla svelta quando ancora sonnecchiano. Poi la colazione e, a mala pena essa è terminata, è già ora di pranzo. Dopo pranzo i dadi, gli scacchi, le lotterie, i buffoni, i parassiti, le cortigiane, i giochi, le insulsaggini. Nel frattempo un alternarsi di merende. Di nuovo a tavola, si cena; a questa seguono i brindisi. E così, senz’ombra di noia, passano le ore, i giorni, i mesi, gli anni, i secoli. Perfino a me, quando li osservo, danno il voltastomaco.

XXXVII
… E DEI VESCOVI E DEI CARDINALI…
Già da un pezzo i sommi pontefici, i cardinali e i vescovi hanno preso con impegno a modello il genere di vita dei sovrani, e con impegno forse maggiore. Certo, se uno riflettesse sul significato della candida veste di lino, simbolo d’una vita senza macchia; e pensasse a quello della mitra a due punte riunite in un solo nodo, a indicare una perfetta conoscenza del Vecchio e del Nuovo Testamento; o delle mani coperte dai guanti, segno della purezza con cui vengono somministrati i sacramenti; se si chiedesse che vuol dire il pastorale, simbolo della cura estrema con cui si veglia sul proprio gregge; che significato ha la croce, che precede indicando la vittoria su tutte le umane passioni; se, dico, uno riflettesse a queste cose, e a molte altre del genere, che vita sarebbe la sua, piena di malinconie e di affanni! Bene fanno quelli che pensano soltanto a ingozzarsi, e la cura del gregge, o la rimettono a Cristo medesimo, o la scaricano su coloro che chiamano fratelli o vicari. Del significato del loro nome di vescovi neppure si ricordano: vescovo vuol dire fatica, preoccupazione, sollecita premura. Vescovi sono sul serio nell’arraffare quattrini: in questo la loro vigilanza è tutta occhi.
Altrettanto dicasi dei cardinali, che dovrebbero ricordarsi che sono i successori degli Apostoli, e che da loro si esigono le stesse opere: non padroni, ma amministratori dei beni spirituali, di cui tra breve dovranno rendere conto con la massima precisione. Riflettessero un po’ anche al loro paludamento e si chiedessero: che significa il candore della cotta se non estrema e rara purezza di vita? Che cosa la porpora che la cotta ricopre, se non ardentissimo amore di Dio? Che cosa l’ampio mantello con le sue pieghe fluenti, se non la carità che ovunque si diffonde per venire in aiuto a tutti, cioè per insegnare, esortare, consolare, ammonire, risolvere i conflitti e per opporsi ai sovrani malvagi? Non significa il generoso sacrificio, non solo delle proprie ricchezze, ma anche del proprio sangue, per amore del gregge? A che scopo le ricchezze, se i cardinali fanno le veci degli Apostoli, che erano poveri? Se riflettessero su queste cose, dico, terrebbero poco alla carica: deporla sarebbe un piacere; oppure si sobbarcherebbero una vita tutta presa da cure travagliate, alla maniera degli antichi Apostoli.

XXXVIII

… E DEI SOMMI PONTEFICI

Se i sommi pontefici, che fanno le veci di Cristo, si sforzassero d’imitare la vita di lui, cioè la povertà, le fatiche, la dottrina, la croce, il disprezzo del mondo; se riflettessero al nome di «papa», che significa «padre», e alla qualifica di «santità», sarebbero gli uomini più infelici della terra.  Chi mai spenderebbe tanto per comprarsi quel posto da difendere poi con la spada, col veleno, con tutte le forze? A quanti vantaggi dovrebbero dire addio, se avessero solo un barlume di saviezza? Addio a tante ricchezze, a tanti onori, e a tanto potere, a tante vittorie, a tante cariche, a tante dispense, a tante imposte, a tante indulgenze, e a tanti cavalli, muli, servi e piaceri. Al loro posto veglie, digiuni, lacrime, preghiere, prediche, studio, sospiri e mille gravose occupazioni del genere. E, particolare non trascurabile, sarebbero ridotti alla fame tanti scrivani, copisti, notai, avvocati, promotori, segretari, mulattieri, palafrenieri, banchieri, ruffiani e … mi fermo qui per non offendere le orecchie più delicate.
Col mio aiuto, non c’è quasi nessuno che più di loro faccia, in perfetta tranquillità, una gran bella vita; convinti di avere assolto in pieno i doveri verso Cristo, se adempiono alla loro funzione di vescovi con un apparato rituale che ha movenze da palcoscenico, con cerimoniali e profusione di titoli (beatitudine, reverenza, santità) e benedizioni e anatemi. Non si usa più far miracoli: roba d’altri tempi. Insegnare ai fedeli è faticoso; interpretare le Sacre Scritture è lavoro da farsi a scuola; pregare è una perdita di tempo; spargere lacrime è umiliante e femmineo; vivere in povertà è spregevole. Turpe la sconfitta e indegna di chi, a mala pena, ammette il re al bacio della sacra pantofola. Infine, spiacevole la morte, e infamante la morte sulla croce.
Rimangono solo le armi di cui fanno uso con tanta larghezza: interdetti, sospensioni, condanne aggravate, anatemi, esposizione di ritratti a titolo di vergogna, e quella tremenda folgore con cui, a un cenno del capo, mandano le anime dei mortali all’inferno e oltre. Di quella folgore, i santissimi vicari di Cristo, si servono col massimo della violenza, soprattutto contro coloro che, per diabolico impulso, tentano di rimpicciolire e rosicchiare il patrimonio di Pietro. Benché le parole dell’Apostolo nel Vangelo siano: «Abbiamo abbandonato tutto e ti abbiamo seguito», essi identificano il patrimonio di Pietro con i campi, le città, i tributi, i dazi, il potere. E mentre, accesi dall’amore di Cristo, combattono per queste cose col ferro e col fuoco, non senza grandissimo spargimento di sangue cristiano, credono di difendere apostolicamente la Chiesa, sposa di Cristo, annientando da valorosi quelli che chiamano nemici. Come se la Chiesa avesse nemici peggiori dei pontefici empi. Di Cristo non fanno parola. Fosse per loro, svanirebbe nell’oblio. Legiferando all’insegna dell’avidità, lo mettono in catene; con le loro interpretazioni forzate ne alterano l’insegnamento; coi loro turpi costumi lo crocifiggono di nuovo.
Poiché la Chiesa cristiana è stata fondata, rafforzata e ingrandita col sangue, ora, come se Cristo fosse morto lasciando i fedeli senza una protezione conforme alla sua legge, governano con la spada, e, pur essendo la guerra una cosa tanto crudele da convenire alle belve più che agli uomini, così rovinosa da portare con sé la totale corruzione dei costumi, tanto ingiusta da offrire ai peggiori predoni la migliore occasione di affermarsi, tanto empia da non avere nulla in comune con Cristo, tuttavia, trascurando tutto il resto, fanno solo la guerra. Si possono vedere vecchi decrepiti che, inalberando un vigoroso spirito giovanile, non si sgomentano davanti alle spese, non cedono alle fatiche, non indietreggiano di un pollice se si trovano a mettere a soqquadro le leggi, la religione, la pace, l’intero genere umano. Né mancano colti adulatori, pronti a chiamare questa evidente follia zelo, pietà e fortezza, escogitando stratagemmi che permettono d’impugnare il ferro mortale e di immergerlo nelle viscere del fratello senza venir meno a quella suprema carità che secondo il dettato di Cristo un cristiano deve al suo prossimo.

XXXIX

IL CATTIVO ESEMPIO DEI VESCOVI TEDESCHI

Una cosa, continuo a chiedermi: sono stati i papi a dare l’esempio o invece si sono ispirati a quello di certi vescovi tedeschi che, tralasciando il culto, le benedizioni e altre cerimonie del genere, si comportano da satrapi, fino a considerare una specie di debolezza, e senz’altro una vergogna per un vescovo, rendere la valorosa anima a Dio in un luogo diverso dal campo di battaglia?
Ma ormai la massa dei sacerdoti, considerando peccaminoso non imitare il bell’esempio dei presuli, levano il grido di guerra e si danno a combattere per le dovute decime con spade, frecce, sassi, e armi di ogni specie! E quale accortezza nel tirar fuori da vecchi documenti qualcosa con cui impaurire il popolino e convincerlo che il suo debito va al di là delle decime! Né intanto ai sacerdoti vengono in mente i molti doveri che hanno verso il popolo. Nemmeno la tonsura basta come monito: hanno dimenticato che il sacerdote, libero da tutti gli appetiti del mondo, deve pensare soltanto alle cose del cielo. Non vi sembrano strani?
C’è un punto, però, che i sacerdoti hanno in comune coi laici: entrambi attentissimi ad accumulare guadagni, sanno sempre come fare. Se c’è un peso da portare, prudentemente lo caricano sulle spalle altrui. I sacerdoti secolari, come se appartenessero al mondo più che a Cristo, caricano il fardello sul clero regolare; il clero regolare sui monaci; i monaci di meno stretta osservanza su quelli di osservanza più rigida; gli uni e gli altri sui mendicanti, e i mendicanti sui certosini, i soli presso cui si nasconde la pietà, ma nascosta così bene che a mala pena si può scorgerla.
Così fanno anche i pontefici: diligentissimi nel rastrellare soldi, affidano ai vescovi i gravami più strettamente apostolici; i vescovi li affidano ai parroci; i parroci ai vicari; i vicari ai frati mendicanti che, a loro volta, li rimandano a coloro che tosano la lana delle pecore.

XL

MA IL COMPITO DELLA FOLLIA NON È LA SATIRA ANTICLERICALE, BENSÌ LA DESCRIZIONE DELLA REALTÀ

Ma non vorrei avere l’aria di comporre una satira anticlericale. Sto semplicemente pronunciando il mio elogio. Né intendo, elogiando i cattivi, biasimare i buoni. Voglio solo sia chiaro che in questo mondo non si può vivere felicemente se non si gode del mio favore.
Tornando al tema, mi sembra evidente che la fortuna aiuta gli audaci, mentre la saggezza rende timidi. Infatti potete constatare che i sapienti combattono con la povertà e la fame. Vivono dimenticati e senza prestigio, mentre gli stolti prosperano. Infatti, se si ripone la felicità nel godere del favore del sovrano,  nell’orbitare attorno a questo mio seguace ingioiellato come una divinità, che c’è di più inutile della sapienza? Se uno vuole arricchirsi col commercio, che se ne fa della sapienza? Se venisse colto dagli scrupoli dei sapienti nei confronti del latrocinio e dell’usura, sarebbe rovinato. Se uno desidera onori o benefici ecclesiastici, meglio che si comporti come un asino o un bue che come un sapiente. Se uno cerca il piacere, deve tener conto che le fanciulle (che tra le mie seguaci occupano il posto d’onore) si danno con entusiasmo agli stolti, mentre hanno orrore del sapiente e lo evitano come fosse un animale velenoso. Vale a dire che chi vuole una vita abbastanza lieta comincia con l’evitare la saggezza. Insomma, dovunque ti giri, se vuoi ottenere qualcosa da pontefici, sovrani, giudici, magistrati e altri potenti di ogni genere, devi presentarti col denaro in mano. Ma il sapiente disprezza il danaro, e perciò, di solito, lo si evita.

XLI

TESTIMONIANZE A MIO FAVORE

E ora, benché gli argomenti a favore del mio elogio siano inesauribili, devo avviarmi alla conclusione. Ma non senza prima aver dimostrato, con poche parole, che non sono mancate grandi autorità a glorificarmi, sia con gli scritti che con le azioni. Così nessuno potrà sospettare che io sia sola a compiacermi di me stessa, e i legulei non mi potranno accusare di non produrre documenti. Perciò, prendendo esempio da loro, allegherò le prove, ma senza preoccuparmi che siano pertinenti.
Cito alcuni detti famosi. Un saggio ha detto che «quando una cosa manca, ottimo sistema è fingere che ci sia e un altro saggio che fingersi folli a tempo e luogo è somma sapienza». Potete rendervi conto di quale gran dono sia la follia, se anche la sua sola imitazione è raccomandata dai saggi. Con franchezza anche maggiore un famoso filosofo consiglia di «mescolare la follia alla saggezza, ma», aggiunge, «solo per poco»: e qui si sbaglia. Dice altrove: «Bella cosa folleggiare a tempo e luogo». Già in Omero, Telemaco, che pure il poeta elogia, è detto a più riprese privo di senno, e spesso e volentieri gli autori di tragedie presentano come dissennati, quasi fosse una qualità positiva, fanciulli e adolescenti. E di che ci parla il divino poema dell’Iliade? Esclusivamente di re folli e di popoli folli. E quale lode più alta del detto ciceroniano che «tutto il mondo è pieno di pazzi»? Chi non sa che qualsiasi bene, a quanti più si estende, tanto più vale?
Ma forse per i cristiani l’autorità di costoro non ha gran peso. Perciò, se credete, possiamo appoggiarsi alla Sacra Scrittura, non senza chiedere il permesso ai teologi. Nell’avventurarmi sul sentiero spinoso della  teologia, vorrei che mi venisse in soccorso l’anima di Duns Scoto, spinosa più di un porcospino, e  dalla Sorbona si trasferisse per un po’ nel mio petto, per poi migrare dove preferisce, magari nel corpo di un corvo. Volesse il cielo che potessi mutare aspetto e comparire nelle vesti del teologo! Temo invece che dovrò cavarmela da sola col rischio di passare per ladra, come se avessi saccheggiato i tesori dei maestri. Ma che c’è da stupirsi, se nella mia lunga e intima consuetudine con i teologi, ho imparato qualcosa?
Scrive l’Ecclesiaste che «infinito è il numero degli stolti». E, parlando di numero infinito, non sembra forse intendere tutti gli uomini, a eccezione di pochissimi che probabilmente nessuno ha mai visto? Con più chiarezza si esprime Geremia, quando dice che «ogni uomo è reso stolto dalla sua sapienza». Egli attribuisce la sapienza soltanto a Dio, e lascia la stoltezza a tutti gli uomini. E dice anche: «L’uomo non riponga nella sapienza il suo vanto». Ma perché, ottimo Geremia, non vuoi che l’uomo riponga nella sapienza il suo vanto? Evidentemente perché l’uomo non ha la sapienza.
Con ciò si accorda quanto Cristo stesso nega nel Vangelo: che qualcuno possa chiamarsi buono, eccetto Dio. Se è stolto chiunque non è sapiente, e se chi è buono, stando agli Stoici, è anche sapiente, la stoltezza, di necessità, è retaggio di tutti gli uomini. Si legge ancora nel capitolo quindicesimo di Salomone: «Lo stolto si bea della sua stoltezza»; e con questo chiaramente si ammette che senza la stoltezza la vita non ha nulla da offrire.
Alla stessa conclusione approda l’Ecclesiaste quando dice: «Chi più sa, più soffre; chi più conosce, più spesso s’indigna». La stessa cosa quell’eccelso predicatore riconosce apertamente quando dice: «Nel cuore dei sapienti il dolore; nei cuori degli stolti la gioia».
Se ancora prestate poca fede a me, leggete queste altre parole dell’Ecclesiaste: «Volsi il mio cuore ad apprendere la saggezza e la scienza, gli errori e la follia». E qui va notato che l’essere collocata all’ultimo posto torna a lode della follia, infatti, secondo il dettato evangelico, chi è primo per dignità deve occupare l’ultimo posto.
Ma perché mi affanno tanto con le citazioni della Sacra Scrittura, tutti sanno che i teologi hanno il diritto di manipolarla, tirandola come un elastico.
E ora veniamo a san Paolo, che, parlando di sé, dice: «Voi sopportate di buon grado i folli». E ancora: «Accettatemi come un folle». E poi: «Non parlo ispirato da Dio, ma quasi come un folle». E altrove, di nuovo: «Siamo folli a cagione di Cristo». Avete sentito quali elogi della follia e da quale pulpito! E che diremo di quel suo raccomandare la stoltezza quale fonte per eccellenza necessaria in vista della salvezza? «Chi di voi sembra sapiente, divenga stolto per essere sapiente».
In Luca Gesù chiama «stolti» i due discepoli cui si era accompagnato per la strada. Non so se ci si debba meravigliare, visto che allo stesso Dio, San Paolo attribuisce un pizzico di follia, dicendo: «La follia di Dio è più saggia del senno degli uomini». Origene, ovviamente, contesta che questa follia sia suscettibile di essere tradotta in termini umani, come nell’altro esempio: «La parola della croce è follia per gli uomini che si perdono».
San Paolo attesta chiaramente che Dio «sceglie ciò che il mondo considera stolto», e che «Dio aveva voluto salvare il mondo attraverso la stoltezza», perché attraverso la saggezza non era possibile. Dio stesso lo rivela con sufficiente chiarezza quando esclama per bocca del profeta: «Manderò in fumo la sapienza dei sapienti e condannerò la saggezza dei saggi».
E ancora quando Gesù ringrazia il Padre celeste perché aveva rivelato ai piccoli, cioè agli stolti, il mistero della salvezza che aveva celato ai sapienti. In greco, infatti, il termine per indicare i bambini è infanti (népioi) in contrapposizione ai sapienti (zofói). Nello stesso senso vanno intesi certi motivi ricorrenti nel Vangelo: Gesù attacca duramente i farisei, gli scribi e i dottori della legge, non il popolo ignorante. Che altro vogliono infatti dire le parole «guai a voi, scribi e farisei», se non «guai a voi, sapienti»? Invece il suo rapporto con bambini, donne, pescatori, pare fosse improntato a perfetta letizia. Anche fra le bestie Cristo predilige le più lontane dall’astuzia della volpe. Perciò preferì cavalcare un asino, anche se, volendo, avrebbe potuto senza rischio cavalcare un leone. Così lo Spirito Santo è sceso dal cielo in sembianza di colomba, non di aquila o di sparviero. Aggiungasi che Gesù chiama pecore i suoi discepoli destinati a vivere in eterno. Né c’è animale più stupido di questo. Tuttavia Cristo si professa pastore di questo gregge; anzi egli stesso si compiacque di chiamarsi agnello, e Giovanni Battista lo indicò come «l’agnello di Dio», definizione che ricorre spesso anche nell’Apocalisse.
Di qui una clamorosa conclusione: i mortali, anche quelli che coltivano sentimenti di pietà, sono stolti. Lo stesso Cristo, per venire in aiuto all’umana sapienza, lui che è la sapienza del Padre, si è fatto in qualche modo stolto, quando, vestite le umane spoglie, si è presentato con sembiante di uomo. Come si è fatto anche peccato per risanarci dai peccati. Né volle porvi altro rimedio se non la follia della Croce, valendosi di Apostoli rozzi e ignoranti, cui ebbe cura di predicare come ottima condizione la stoltezza distogliendoli dalla sapienza ed esortandoli a seguire l’esempio dei bambini, dei gigli, del grano di senape, dei passerotti, esseri del tutto privi d’intelligenza, che vivono solo affidandosi alla natura, senza artifici, senza affanni; e quando proibisce loro di preoccuparsi della linea da tenere davanti ai giudici e di stare all’erta per cogliere i momenti opportuni: non devono cioè confidare nella propria saggezza, ma mettersi totalmente nelle sue mani. Allo stesso principio s’ispira Dio, architetto del mondo, quando proibisce di assaggiare il frutto dell’albero della sapienza, quasi che la sapienza fosse il veleno della felicità. San Paolo, d’altra parte, condanna la scienza apertamente come fonte di presunzione e di rovina.
Forse c’è anche un altro argomento che non dovrei tralasciare: la stoltezza trova grazia presso Dio. Chi implora il perdono, anche se ha peccato con cognizione di causa, adduce a pretesto la stoltezza.  Così Aronne cerca di stornare dalla moglie la punizione del Signore: «Ti prego, Signore, non giudicarci colpevoli: abbiamo peccato per mancanza di discernimento». E anche Saul di fronte a David si discolpa così: «È evidente che ho agito da sciocco». E David, a sua volta, cerca di propiziarsi il Signore con queste parole: «Ti prego, Signore, non accusare il tuo servo d’iniquità; ho agito da sciocco». E c’è una prova di eccezionale efficacia: Cristo in croce, quando pregò per i suoi nemici, portò come unica scusa l’ignoranza: «Padre, perdonali perché non sanno quello che fanno». Nello stesso senso san Paolo scriveva a Timoteo: «Ho ottenuto la misericordia divina perché nella mia incredulità ho agito per ignoranza». Che vuol dire «ho agito da ignorante», se non che aveva agito per stoltezza, non per malizia? Che significa «perciò ho ottenuto misericordia», se non che non l’avrebbe ottenuta se la sua stoltezza non avesse deposto in suo favore?
Per non dilungarmi all’infinito cercherò di riassumere per sommi capi. Se la religione cristiana sembra avere qualche parentela con la follia, con la sapienza non ha proprio nulla a che fare. Desiderate averne una prova? Guardate in primo luogo al fatto che bambini, vecchi, donne e anime semplici godono più degli altri delle funzioni religiose, e perciò, per puro istinto, sono sempre i più vicini agli altari. Vedete inoltre che i primi fondatori della religione, con mirabile slancio, scelsero le vie della semplicità, mentre furono nemici acerrimi delle lettere.
Infine non c’è folle più folle di chi, preso completamente dalla carità cristiana, dona i suoi beni ai poveri, perdona le offese, tollera gli inganni, non fa distinzione tra amici e nemici, ha orrore del piacere, si nutre di  veglie, digiuni,  lacrime e fatiche, si stacca dalla vita e  desidera solo la morte. In altri termini, si comporta come il suo spirito vivesse fuori del corpo. Questa non è follia? Non dobbiamo perciò meravigliarci se gli Apostoli sembrarono ubriachi e se Paolo sembrò pazzo al giudice Festo.
Visto che mi ci sono messa d’impegno, andrò ancora più in là. Quella beatitudine che i cristiani cercano di conquistare a così caro prezzo, altro non è se non una forma di follia. Non badate alle parole, considerate i fatti. C’è un punto di contatto fra cristiani e platonici: entrambi ritengono che l’anima, irretita nei vincoli del corpo, trovi in esso un ostacolo alla contemplazione del vero. Perciò Platone definisce la filosofia una meditazione sulla morte, perché, a somiglianza della morte, distoglie la mente dalle cose materiali. Perciò, finché l’anima fa buon uso degli organi del corpo, viene detta sana; ma quando, spezzati i vincoli, tenta d’affermarsi in piena libertà, quasi meditando una fuga dal carcere corporeo, allora si parla di follia. Se la cosa accade per malattia, allora è pazzia conclamata. Tuttavia vediamo che anche i pazzi predicono il futuro e parlano lingue che non conoscono, attingendo decisamente al divino.
Non c’è dubbio: ciò accade perché la mente, libera in parte dall’influenza del corpo, comincia a sprigionare la sua forza nativa. Credo che per la stessa ragione qualcosa di simile accada nel travaglio della morte imminente: gli agonizzanti, come ispirati, parlano un linguaggio profetico.
Se ciò accade nell’ardore della fede, si tratta forse di un altro genere di follia, ma così vicina alla ordinaria follia che molta gente la giudica pazzia pura; anche perché riguarda pochi soggetti ai margini dell’umano consorzio. Come avviene nel mito platonico, dove i prigionieri incatenati in fondo alla caverna vedono le ombre delle cose; ma il prigioniero che, fuggito di là, ritorna nella caverna, dice agli altri di aver contemplato le cose reali e che loro s’ingannano, convinti come sono che nient’altro esista se non delle misere ombre. E i prigionieri ridono di lui come se delirasse e lo cacciano via. Allo stesso modo il volgo ammira soprattutto le cose in cui la materia prevale, e quasi crede che siano le sole a esistere. Chi pratica la religione, invece, quanto più una cosa è attinente al corpo tanto più la trascura ed è tutto preso dalla contemplazione dell’invisibile. Gli uni mettono al primo posto le ricchezze e le comodità, all’ultimo l’anima che, peraltro, i più neanche credono esista perché l’occhio non può vederla. Gli altri, invece, tendono in primo luogo con tutte le loro forze a Dio, il più semplice degli esseri, e, in secondo luogo, all’anima, che è vicina a Dio più di qualsiasi altra cosa. Trascurano la cura del corpo, disprezzano le ricchezze e ne rifuggono come da cosa immonda. Se poi non possono esimersi dall’occuparsene, ne sentono il peso e la noia; posseggono, ed è come se non possedessero. Ma bisogna fare delle distinzioni. Prima di tutto, benché tutti i sensi abbiano un legame col corpo, alcuni sono più corporali, come il tatto, l’udito, la vista, l’olfatto e il gusto; altri meno corporali, come la memoria, l’intelletto, la volontà.
Le persone religiose, poiché sono rivolte con tutto l’animo alle cose lontane dai sensi, diventano indifferenti alla cose materiali.
Ma anche fra le passioni dell’anima alcune sono più legate agli aspetti carnali del corpo, come l’impulso sessuale, il bisogno di cibo e di sonno, l’ira, la superbia, l’invidia: chi coltiva sentimenti di pietà le respinge, mentre gli altri ne fanno ragioni di vita. Vi sono poi dei sentimenti intermedi, quasi naturali, come l’amore di patria, l’affetto per i figli, per i genitori, per gli amici. Il volgo ne riconosce in qualche misura l’importanza, ma quanti vivono secondo pietà cercano di sradicare dall’animo anche questi sentimenti per amare il Creatore di tutte le cose, unico a meritare di essere amato e desiderato.
Con lo stesso criterio giudicano di tutti i doveri, tenendo l’invisibile in maggior conto del visibile. Dicono che anche nei sacramenti e nelle pratiche religiose si possono distinguere corpo e spirito. Per esempio, nel digiuno, non danno valore all’astinenza dal cibo se non si accompagni al controllo delle passioni. Altrettanto dicasi dell’Eucaristia. L’aspetto rituale non basta, anzi è dannoso, se manca l’elemento spirituale, se cioè non viene còlto il contenuto di quei segni visibili. Se si rappresenta la morte di Cristo, si deve parteciparvi seppellendo le passioni per risorgere a nuova vita, per sentirsi in comunione con lui.
Il volgo, al contrario, crede che il sacrificio sia tutto nello stare quanto più è possibile accanto agli altari, ascoltando il rumore delle parole e badando ad altre quisquilie relative al rito.
L’uomo pio rifugge, in ogni occasione, da ciò che è legato al corpo, essendo tutto preso dall’eterno, dall’invisibile, dalla realtà spirituale. Perciò, dato il loro radicale disaccordo su tutto, accade che uomini di pietà e volgo si prendano per matti a vicenda. Ma, secondo me, l’appellativo di matto si addice piuttosto alla gente pia che non al volgo. E ciò risulterà più chiaro se riuscirò a dimostrare che la pietà religiosa altro non è se non una forma di follia.
Già Platone accennò a qualcosa di simile quando scrisse che il delirio degli amanti è il più felice di tutti. Infatti chi ama ardentemente non vive in se stesso, ma in colui che ama, e quanto più si allontana da sé e si trasferisce in lui tanto più è felice. E quando l’animo esce dal corpo e non fa uso normale degli organi del corpo, si può parlare a buon diritto di delirio. Altrimenti che cosa vogliono dire le comuni espressioni: «non è in sé», o anche «è tornato in se stesso»? D’altra parte quanto più è perfetto l’amore, tanto più è grande e beato il delirio. Quale sarà dunque quella vita celeste cui anelano le anime pie? Lo spirito, che è il più forte, sarà vittorioso, e assorbirà il corpo tanto più facilmente perché già in vita lo avrà mortificato e indebolito in vista di una simile trasformazione. Poi sarà a sua volta mirabilmente assorbito da quella somma Mente la cui potenza è infinitamente superiore. A questo punto l’uomo sarà interamente fuori di sé, e solo per questo felice, perché, essendo fuori di sé, subirà non so quale ineffabile influsso di quel sommo Bene che tutto trae a sé.
Anche se questa felicità sarà perfetta solo quando le anime, ripresa l’antica veste corporea, riceveranno il dono dell’immortalità,  gli uomini pii, dato che la loro vita è tutta una meditazione di quella vita immortale, e quasi una sua immagine, possono talvolta pregustare qualcosa, una sorta di anticipazione di quel premio. Si tratta di una goccia da niente in confronto a quella fontana di eterna felicità, ma che vale molto di più di tutti i piaceri corporei, anche se potessimo farli convergere tutti in un punto solo. A tal punto la sfera dello spirito è superiore al corpo, e quella dell’invisibile al visibile. Questa certo è la promessa del Profeta: «L’occhio non vide, l’orecchio non udì, non penetrarono nel cuore dell’uomo le cose che Dio ha preparato per coloro che lo amano». Questa è la parte della follia che il passaggio da una vita all’altra non toglie, ma porta a perfezione. Quelli che hanno potuto parteciparne - pochissimi invero - sono còlti da un turbamento che alla follia è vicinissimo; fanno discorsi incoerenti, proferendo parole strane e senza senso; e poi, all’improvviso, mutano completamente d’espressione. Ora alacri, ora depressi; ora piangono, ora ridono, ora sospirano; insomma sono davvero del tutto fuori di sé. Appena rientrano in se stessi dicono di non sapere dove sono stati, se nel corpo o fuori del corpo; di ignorare se erano svegli o addormentati; di non sapere che cosa hanno udito, che cosa hanno detto, che cosa hanno fatto; hanno solo dei ricordi che sembrano filtrare attraverso il velo della nebbia o del sogno. Una sola cosa sanno: di essere stati al colmo della beatitudine quando erano in quello stato. Perciò piangono per essere tornati in senno, e soprattutto desiderano di essere in eterno in preda a quel genere di follia. Hanno appena pregustato la felicità futura!


Congedo

 

Mi sono lasciata andare e ho passato da un pezzo i limiti. tuttavia, se vi pare che abbia esagerato, tenete conto che chi vi ha parlato è la Follia, e che essa è donna. e ricordate  il detto greco che «spesso anche un pazzo parla a proposito»; a meno che non riteniate che il proverbio non possa estendersi alle donne.
Vedo che aspettate una conclusione. Ma siete proprio ingenui se credete che dopo essermi abbandonata a un tale  diluvio di chiacchiere, io mi ricordi ancora di ciò che ho detto. «Odio il convitato che ha buona memoria», recita un vecchio proverbio. Perciò addio! Applaudite e spassatevela, cari seguaci della Follia.

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