I
LA
FOLLIA ESORDISCE E SPIEGA COME IMPOSTERÀ IL SUO DISCORSO
Checché
se ne dica, ecco la prova decisiva che io sola, la Follia , sono in grado di tenere
allegro il genere umano. Infatti, non appena mi sono presentata a questa affollatissima
assemblea, con indosso la divisa variopinta dei buffoni e sul capo il classico
berretto a sonagli, i vostri volti si sono illuminati e mi avete applaudito con
entusiasmo, dimenticando le vostre
angosce. È bastata la mia presenza.
Fra poco
capirete perché sono venuta qui oggi, folleggiando anche nel vestire. Ma dovete
seguirmi con ben altra attenzione di quella che riservate in chiesa ai predicatori,
o in teatro agli attori, o in piazza ai ciarlatani.
M’ispirerò
all’antico genere encomiastico e quindi
ascolterete un elogio, ma non quello di un personaggio famoso, bensì il mio: l’elogio
della Follia. Né mi curo dei sapientoni che dànno del pazzoide a chi si loda
svisceratamente da sé. Che c’è di più coerente della Follia che canta le
proprie lodi? Chi mi conosce meglio di me? E non è meglio lodarsi che farsi
lodare dagli altri, magari in cambio di qualcosa? E poi, se nessuno mi loda, perché
non dovrei lodarmi da me?
Si sa che
la gente è ingrata. Tutti mi corteggiano e si servono di me, ma nessuno ha il
coraggio di fare un bell’elogio della Follia.
Ebbene,
aspettatevi da me un discorso estemporaneo, non elaborato, perché mi piace dire
quel che mi salta in mente. Non faccio come quegli oratori che fanno finta di
parlare a braccio, mentre si sono scervellati per ore a preparare il loro discorso.
Perciò non
vi annoierò con la definizione di me stessa. Perché dovrei indicare i miei
limiti se il mio potere è sconfinato? Una definizione di me non potrebbe che essere
riduttiva e non farebbe che offuscare un’immagine che avete sempre chiarissima
davanti agli occhi.
Il mio
volto non vi basta a capire che sono un’autentica dispensatrice di beni? Non
vedete il mio sguardo, che è lo specchio del mio animo? Io non riesco a mostrare
in volto una cosa, mentre ne ho un’altra nel cuore.
II
È
LA FOLLIA CHE GARANTISCE LA CONTINUITÀ DEL GENERE UMANO
Orbene,
che cosa può esserci di più dolce e prezioso della vita? Ma a chi, se non a me,
va il merito della sua riproduzione?
Posso
essere più esplicita, secondo il mio costume? È forse con la testa, col volto,
col cuore, con le mani, con le orecchie (parti che tutte si possono nominare
con decoro) che si generano gli esseri umani? No davvero! Propagatrice del
genere umano è quella parte così buffa che non si può nominare senza ridere. E,
ditemi, quale uomo porgerebbe il collo al capestro del matrimonio se prima ne
considerasse gli svantaggi? Quale donna accosterebbe un uomo, se conoscesse e
avesse in mente i pericolosi travagli del parto e i fastidi di allevare i
figli? Perciò, se dovete la vita al matrimonio, cercate di capire quello che
dovete a me. D’altra parte quale donna dopo la prima esperienza vorrebbe riprovarci,
se non ci fosse il mio aiuto?
È così che
sono nati anche i grandi filosofi (ai quali adesso sono subentrati i teologi), i re, i santi e i papi, che sono i più santi
di tutti, tanto che già da vivi si fanno chiamare «santità».
III
LA
FOLLIA RENDE PIACEVOLE LA VITA CHE ALTRIMENTI SAREBBE INSOPPORTABILE
Ma
non solo la riproduzione della vita, anche tutto quello che nella vita vi è di
piacevole, lo si deve a me.
Se togliete
il piacere alla vita, che rimane?
E non
fatevi confondere da quelli che predicano contro il piacere. Fanno finta, per
distoglierne gli altri e tenerselo tutto per sé.
Ditemi voi,
quale momento della vita non sarebbe triste, difficile, brutto, insipido,
tedioso senza il piacere, cioè senza un pizzico di follia?
Tanto per
cominciare, chi non sa che l’infanzia è la più lieta e gradevole delle età dell’uomo?
Che cos’hanno i bambini per indurci a baciarli e a vezzeggiarli? Che cosa, se
non quella grazia che la natura provvidamente infonde nei neonati in modo che
possano conciliarsi la simpatia di chi li deve accudire e proteggere?
E l’adolescenza
non piace a tutti? Non è forse merito mio se gli adolescenti sono così privi di
senno e perciò sono sempre di buonumore? Ma va detto che gli adolescenti, con l’esperienza
e l’educazione, rapidamente maturano e vien meno il loro fascino. Più si allontanano da me e meno vivono
felici.
Fino a che
non sopraggiunge la penosa vecchiaia. Tanto penosa che nessuno riuscirebbe a
sopportarla se, ancora una volta, impietosita da tanto soffrire, io non venissi
in aiuto e non riportassi all’infanzia quanti sono prossimi alla tomba. Tanto è
vero che il volgo li chiama rimbambiti, cioè bambini di ritorno.
Volete
sapere come opero questo prodigio? Non ne faccio misteri. Li faccio bere alla
fonte dell’oblio. Così dimenticano le tristi esperienze della vita e tornano a
essere felici come bambini.
Grazie a me
dicono cose senza senso, come i bambini. Ma è proprio questo che li rende
piacevoli. Sono infatti liberi dagli affanni dell’età matura, non avvertono il
tedio della vita. Così riscuotono la simpatia degli amici, che gradiscono la
loro compagnia. Sono addirittura più simpatici dei bambini, che non sono in
grado di sostenere una piacevole conversazione.
Considerate
inoltre che ai vecchi piacciono moltissimo i bambini, e ai bambini i vecchi,
poiché ogni simile ama il suo simile. In che differiscono se non nelle rughe e
negli anni, che nel vecchio sono di più? Per il resto: capelli radi e sbiaditi,
bocca senza denti, corporatura ridotta, desiderio di latte, garrulità, mancanza
di senno, smemoratezza, irriflessione. E più invecchiano più somigliano ai
bambini, finché, come bambini, senza il tedio della vita, senza il senso della
morte, lasciano la vita.
Se gli
esseri umani si guardassero dalla saggezza e vivessero sempre sotto la mia
protezione, la vecchiaia nemmeno ci sarebbe, ma solo un’eterna giovinezza.
Non vi
accorgete che gli uomini seri, cogitabondi, impegnati in faccende complicate,
consumano la loro linfa vitale?
Soltanto io
sono in grado di prolungare la giovinezza, altrimenti fuggevolissima. Quelli
del Brabante sono famosi perché si dice che, mentre altrove la maturità è l’età
della saggezza, essi più invecchiano e più diventano matti. Non c’è infatti popolazione
più gioconda di quella. Ma anche i miei connazionali Olandesi, vicini al
Brabante sia geograficamente che nei costumi, si sono ben meritati il
soprannome di matti, e ne vanno fieri.
Vadano pure
gl’imbecilli a cercare rimedi all’invecchiamento. Solo io possiedo la formula
che risuscita la giovinezza svanita, anzi la mantiene per sempre.
IV
ASTUTAMENTE
LA FOLLIA HA AFFIANCATO ALL’UOMO L’ESSERE PIÙ FOLLE CHE CI SIA: LA DONNA
Guardate
con quanta previdenza la natura ebbe cura di spargere dappertutto un pizzico di
follia. Se infatti, secondo i filosofi, la saggezza consiste nel farsi guidare
dalla ragione, mentre la follia consiste nel farsi trascinare dalla passioni,
proprio come rimedio al tarlo del pensiero la natura infuse nell’essere umano
più passioni che ragione.
Confinò la
ragione in un angolo della testa, lasciando il resto del corpo ai turbamenti
delle passioni. Così l’ira occupa il torace e la concupiscenza estende il suo
dominio fino al basso ventre. Quanto possa la ragione contro queste due fiere avversarie
ce lo dice la condotta abituale degli uomini. La ragione protesta fino a sgolarsi
ed enuncia i princípi morali; ma quelle passioni la subissano di grida potenti
finché lei è costretta a dichiararsi vinta.
Ma la mia
trovata più brillante è stata quella di aver affiancato all’uomo un animale
deliziosamente spassoso che addolcisce, con un pizzico di follia, la gravità
del temperamento maschile. Quando Platone, infatti, sembra in dubbio circa la
collocazione della donna, se fra gli animali razionali o fra i bruti, vuole
solo sottolineare la straordinaria follia di questo sesso. E se per caso una
donna vuole passare per saggia, ottiene solo di essere due volte folle. Come la
scimmia è sempre scimmia, anche se si veste con abiti preziosi, così le donne
sono sempre donne, cioè folli, comunque si mascherino.
Ma non così folli, voglio sperare, da
aversene a male perché perfino io, la Follia in persona, le
giudico folli. La donne, infatti, se ci pensassero bene, considererebbero un dono della Follia il fatto di essere,
sotto molti aspetti, più fortunate degli uomini.
In primo
luogo, hanno il dono della bellezza, che giustamente mettono al disopra di
tutto, contando su di essa per tiranneggiare gli stessi tiranni. Quanto all’uomo,
di dove gli viene, se non dal senno, l’aspetto rude, la pelle ruvida, la barba folta,
e un certo che di senile? Le donne, invece, con le guance sempre lisce, con la
voce sempre sottile, con la pelle morbida, danno quasi l’impressione d’una
eterna giovinezza. Ma che altro desiderano poi in questa vita, se non di
piacere agli uomini quanto più è possibile? Non mirano forse a questo belletti,
bagni, acconciature, unguenti, profumi, nonché tante arti volte ad abbellire,
dipingere, truccare il volto, gli occhi, la pelle? C’è forse qualche altro
motivo che le faccia apprezzare dagli uomini più della follia? In cambio di
che, se non del piacere, gli uomini concedono tanto alle donne? Ma il piacere
viene proprio dalla loro follia. Pensate a tutte le sciocchezze che un uomo
dice quando parla con una donna, a tutte le stupidaggini che fa ogni volta che
si mette in testa di ottenerne i favori.
V
QUANDO
NEGLI UOMINI CALA L’INTERESSE PER LA
DONNA, LA FOLLIA METTE A DISPOSIZIONE I PIACERI DEI BAGORDI
Vi
sono uomini, specialmente anziani, che alle donne preferiscono il bere e
provano il massimo piacere nel banchettare. Ma anche nei banchetti, perché
riescano bene, c’è bisogno della follia. Infatti, se nella comitiva non c’è
qualcuno capace di far ridere, s’invita qualcun altro che, con la sua amenità,
garantisca che il banchetto non si trascini nel silenzio e nella noia. A che
scopo, infatti, riempirsi il ventre di ghiottonerie e di vino se anche gli
occhi, le orecchie e l’anima intera non si nutrissero di risa, di scherzi, di
facezie? Ma cibi del genere solo io posso ammannirli.
VI
ANCHE
L’AMICIZIA SAREBBE IMPOSSIBILE SENZA L’INTERVENTO DELLA FOLLIA
Ci sarà
pure chi trascuri piaceri del genere e si ritenga soddisfatto dell’amore e
della familiarità degli amici, affermando che l’amicizia vale più di tutto. E
considerano l’amicizia un bene non meno necessario dell’aria, del fuoco, dell’acqua;
tanto soave che se togli l’amicizia togli il sole. Ma che succede se dimostro
che anche di questo bene così grande sono io il motore? Ve lo dimostro alla
buona, senza sottigliezze dialettiche, ma facendovelo toccare con mano.
Ebbene,
chiudere gli occhi davanti ai difetti degli amici e amarne come qualità alcuni
vizi evidenti non ha niente a che fare con la follia? Eppure così avviene tra i
comuni mortali. Quanto a quelli che si ritengono superiori, tra loro l’amicizia
non nasce affatto o è qualcosa di cupo e
scostante.
VII
MA
IL CAPOLAVORO DELLA FOLLIA È IL MATRIMONIO
Quanto
si è detto dell’amicizia a maggior ragione vale per il matrimonio. Quanti divorzi
in più, e quanti fatti ancora peggiori si verificherebbero se la convivenza non
si corroborasse con le adulazioni, le indulgenze e le dissimulazioni: tutte
cose che hanno a che fare con me. Quanti matrimoni si celebrerebbero se il
fidanzato prudentemente s’informasse dei passatempi a cui già molto prima delle
nozze si dedicava la sua verginella così delicata e apparentemente pudica? E, a
celebrazione avvenuta, quanti ne durerebbero, se tante imprese delle mogli non
rimanessero ignorate per la negligenza e l’ingenuità dei mariti? Vale a dire
che giustamente è merito della Follia se il marito ama la moglie e la moglie il
marito, e se in casa regna la pace e il vincolo tiene.
Si ride del
cornuto, del becco (quanti nomi non gli si danno!) quando asciuga con i baci le
lacrime dell’adultera. Ma quanto è meglio lasciarsi ingannare così che rodersi
di gelosia e volgere tutto in tragedia!
Insomma,
senza di me nessun legame familiare, ma anche nessun altro legame potrebbe
durare felicemente. Il popolo si stancherebbe del governo, il dipendente del
datore di lavoro, il locatore dell’inquilino, l’ospite dell’ospite ecc. Per
fortuna, io li induco a ingannarsi a
vicenda, ad adularsi, a far finta di non vedere.
Pensate che
esagero, ma ne sentirete ancora delle belle.
VIII
L’AMOR
PROPRIO È UN ALTRO DONO DELLA FOLLIA
Chi
odia se stesso come può amare gli altri? Chi non è in pace con se stesso, come
può stare in pace con gli altri? Nessuno lo potrebbe affermare se non fosse più
folle di me. La Natura ,
infatti, in molte cose più matrigna che madre, ha posto nell’animo dei mortali
un tarlo: lo scontento di sé e l’ammirazione per gli altri. Ma intervengo io e
instillo l’amor proprio e l’ammirazione di se stessi, che è il colmo della
follia.
Ma se
togliessi all’uomo l’amor proprio, suonerebbero fredde le parole dell’oratore,
il musicista annoierebbe, l’attore sarebbe fischiato, il poeta sarebbe
sbeffeggiato, il pittore sarebbe ritenuto un imbrattatele e il medico farebbe la fame.
Se vuoi
essere accettato, devi accettare te stesso; e devi essere il primo a lodarti, e
non senza una punta di adulazione.
Quanto a
me, mi prodigo affinché nessuno sia scontento del proprio aspetto, carattere,
schiatta, posizione, educazione e patria; tanto che né un irlandese si cambierebbe
con un italiano, né un tracio con un ateniese, né uno scita con un abitante
delle Isole Fortunate. Infatti, dove è avara la natura supplisce l’amor proprio.
IX
PERCHÉ
GLI UOMINI DOVREBBERO FARSI LA GUERRA SE NON VE LI SPINGESSE LA FOLLIA?
Aggiungo
ora che non si può intraprendere nulla di grande senza il mio aiuto. A me si
deve l’invenzione di ogni nobile arte. Non è forse la guerra una nobile arte?
Non è il coronamento di ogni celebre impresa? Eppure che c’è di più folle dell’impegnarsi, per non so quali cause, in
un confronto da cui, immancabilmente, ognuna delle due parti trae più danno che
guadagno? Dei caduti, poi, poco si parla. Quando le schiere in armi si fronteggiano
e le trombe intonano il loro suono rauco, non servono certo i sapienti logorati
dagli studi, col loro poco sangue privo di calore e che a malapena tirano il fiato. C’è bisogno
di gente ben piantata; con moltissima audacia e pochissimo cervello.
È vero che
la prudenza ha un grande peso in guerra; ma solo a livello di chi comanda. E
poi si tratta di prudenza militare, non filosofica. Per il resto la guerra è affidata
a parassiti, ruffiani, briganti, sicari, contadini, imbecilli, debitori e altri
rifiuti del genere; non a filosofi da tavolino.
X
NON
VI È NIENTE DI PIÙ INUTILE DEL FILOSOFO, NEMICO DELLA FOLLIA
Quanto
all’inutilità dei filosofi è buon testimone lo stesso Socrate, che
meglio avrebbe fatto a consigliare di tenersi lontani dalla sapienza, se
si vuol vivere da uomini. D’altra parte, quando fu processato, che cosa se non
la sapienza lo costrinse a bere la cicuta? Infatti mentre andava filosofando d’idee
e di nuvole, mentre misurava il salto delle pulci, mentre ammirava la voce
delle zanzare, non imparava nulla di ciò che riguarda la vita di tutti i
giorni. In aiuto del maestro, sull’orlo di una condanna capitale, interviene il
discepolo Platone, difensore così egregio che, turbato dal rumoreggiare della
folla, a malapena riesce a pronunciare qualche frase smozzicata.
Nonostante
ciò, si esalta il detto di Platone che fortunati saranno gli Stati se a
reggerli saranno chiamati i filosofi, o se i reggitori si daranno alla
filosofia. Se invece studi la storia, ti accorgi che non c’è peggior sciagura
che concentrare il potere nelle mani di un filosofo o di un letterato.
Comunque,
se i filosofi fossero asini solo riguardo alla politica, ci potremmo accontentare;
il guaio è che sono altrettanto incapaci in ogni altra occasione della vita.
Invita a pranzo un filosofo: disturberà col suo cupo silenzio o romperà le
scatole con noiose questioncelle. Portalo a uno spettacolo: guasterà con la sua
faccia il divertimento della gente. Se c’è da sbrigare un affare ordinario
della vita, si comporta come un pezzo di legno. A tal punto è incapace di
rendersi utile a se stesso, ai suoi e alla società, perché inesperto delle
faccende usuali e delle accettate consuetudini, che si fa odiare. Egli non è in
sintonia con un mondo che trabocca di follia, quindi è meglio che si ritiri in
un deserto a godere della propria saggezza.
XI
È
LA FOLLIA, NON LA FILOSOFIA, CHE TIENE UNITI I POPOLI
Ma,
per tornare al fenomeno prezioso dell’adulazione, cos’altro raggruppò nella
città gli uomini primitivi e conservò la coesione delle comunità? Cosa mai
riportò alla concordia cittadina la plebe romana che già stava per spingersi ad
atti irreparabili? Forse un discorso filosofico? Nemmeno per sogno! Al
contrario, fu il ridicolo e puerile apologo del ventre e delle altre membra. E
la storia è piena di simili sciocchezze che fanno presa su quella grossa e
potente bestia che è il popolo.
Viceversa,
quale città ha fatto sue le leggi dei filosofi? Sono io che tengo uniti i
popoli. Che c’è infatti di più folle di un candidato che lusinga il popolo in
tono supplichevole, che compra i voti, che va in cerca degli applausi di tanti
stolti, che si compiace delle acclamazioni, che si fa portare in trionfo?
Eppure
questa follia genera gli Stati; su di essa poggiano i governi, le magistrature,
la religione, le assemblee, i tribunali. La vita umana non è altro che un gioco
della Follia.
XII
SENZA
LA FOLLIA NON VI SAREBBE LA SAGGEZZA
Quanto
alle arti, cosa mai se non la sete di gloria ha suscitato nell’animo umano la
brama d’inventare e tramandare ai posteri tante discipline ritenute nobili? Furono
uomini davvero folli quelli che hanno creduto valesse la pena di conquistare a
prezzo di tante faticose veglie quella fama di cui niente può essere più vano.
Ma intanto dovete alla Follia tante cose egregie della vita, e, ciò che soprattutto
conta, dovete alla Follia altrui il vostro sollazzo.
Non
stupitevi adesso se, dopo essermi attribuita tanti meriti, rivendicherò anche
la saggezza. Qualcuno potrebbe dire che è come mettere insieme l’acqua col
fuoco. Però, se mi prestate attenzione, riuscirò a dimostrarvelo. Dunque, se la
saggezza si fonda sull’esperienza, chi meglio può fregiarsi del titolo di saggio?
Forse il sapiente che, per modestia o per timidezza, nulla intraprende, o il
folle, che non teme né il pericolo né le difficoltà? Il sapiente si rifugia nei
libri e ne ricava solo masturbazioni mentali. Il folle prende di petto le
situazioni, ne affronta i rischi e così
acquista la saggezza. Infatti sono due i principali ostacoli alla
conoscenza della realtà: la vergogna, che annebbia l’animo, e la paura, che blocca l’azione. La Follia libera da entrambe.
XIII
State
adesso a sentire quanto sono lontani dal vero i sapienti, che sono fissati con
l’inconciliabilità degli opposti: vita e morte, bellezza e bruttezza, ricchezza
e miseria, gloria e infamia, cultura e ignoranza, forza e debolezza, generosità
e abiezione, letizia e malinconia, prosperità e miseria, amicizia e inimicizia,
salutare e nocivo.
Io vi
dimostro che gli opposti non solo possono stare insieme, ma la loro coesistenza è alla base della commedia della
vita.
Se uno
strappasse la maschera agli attori che sulla scena rappresentano un dramma,
mostrando agli spettatori la loro autentica faccia, forse che costui non rovinerebbe
lo spettacolo meritando di esser preso da tutti a sassate e cacciato dal teatro
come un pazzo furioso? Di colpo tutto muterebbe aspetto. Dissipare l’illusione
significa togliere senso all’intero dramma, poiché a tenere avvinti gli sguardi
degli spettatori è proprio la finzione, il trucco. L’intera vita umana non è altro
che uno spettacolo in cui, chi con una maschera, chi con un’altra, ognuno
recita la propria parte finché, a un cenno del capocomico, abbandona la scena.
Costui, tuttavia, spesso lo fa recitare in parti diverse, in modo che chi prima
si presentava come un re ammantato di porpora, compare poi nei cenci di un
povero schiavo. Certo, si tratta di una metafora; ma la commedia umana si
svolge proprio così.
Se un
saggio disceso dal cielo si mettesse a gridare improvvisamente che il personaggio
a cui tutti guardano come a un dio non è neppure un uomo, perché come le bestie
si lascia dominare dalle passioni; e, se ad un altro che piange il padre morto
ordinasse di ridere perché il padre, finalmente, ha cominciato a vivere, dato
che questa vita altro non è che morte; e se desse del bastardo a un terzo che
mena vanto di una nobile nascita, ma che è ben lontano dalla virtù, unica fonte
di nobiltà; se allo stesso modo parlasse di tutti gli altri, non agirebbe
costui proprio in modo da sembrare a tutti matto da legare? Infatti non vi è
nulla di più stolto di una saggezza inopportuna. La vera saggezza sta nel fare
buon viso all’andazzo generale. Ammetto che questa è follia, ma si riconosca
che è così che si recita la commedia della vita.
XIV
LA
FOLLIA È ALLA BASE DELLA VERA SAPIENZA
Adesso
la devo dire ancora più grossa. Vi voglio dimostrare che nessuno, senza la
follia, può accedere alla vera sapienza,
quella che è considerata il massimo della felicità.
Cominciamo
col dire che è pacifico che tutte le passioni rientrano nella sfera della
follia: ciò che distingue il savio dal pazzo è che questi si fa guidare dalle
passioni, mentre il primo ha per guida la ragione. Tuttavia questi elementi
emotivi, non solo assolvono la funzione di guide per chi scala il monte della
sapienza, ma spronano e stimolano a conquistare la vetta.
Sbaglia
Seneca quando afferma che il vero sapiente è immune dalle passioni. Un essere
così non esisterà mai. Se esistesse un uomo incapace d’amore e di pietà, sordo
a ogni naturale richiamo, un uomo che non sbaglia mai e nulla perdona, contento
solo di sé, quest’uomo sarebbe da rifuggire come un mostro.
Un uomo
siffatto quale città lo eleggerebbe come capo? Quale donna sopporterebbe un
simile marito? Quale comitiva un simile convitato? Quale servo un simile
padrone? Chi non preferirebbe uno normalmente matto, gentile con la moglie, gradito
agli amici, buon commensale; uno con cui si stia bene insieme e che, in
sintesi, non ritenga estraneo a sé
niente di ciò che è umano?
Ma ora
basta con i sapienti, parliamo di cose più serie.
XV
LA
FOLLIA PROCURA LE ILLUSIONI CHE SALVANO DALLA DISPERAZIONE
Supponiamo
che uno possa salire tanto in alto da vedere quante avversità minaccino la
vita, quanto infelice e miserabile sia la nascita, quanto faticosa l’educazione,
e tutte le offese cui va incontro la fanciullezza, tutti gli affanni della
gioventù, e com’è pesante la vecchiaia, come amara la morte; tutta la schiera
delle malattie e degli altri guai; nulla mai che sia immune da un amaro veleno;
per non dire di quei mali che l’uomo subisce dall’uomo, come la povertà, la
prigionia, l’infamia, la vergogna, la tortura, le insidie, il tradimento, le
ingiurie, i processi, le frodi. Di fronte a tanta sconfinata infelicità egli si
dispererebbe. È per questo che proprio gli uomini più consapevoli della
condizione umana sono più propensi al suicidio. Ma sarebbero guai se tale
consapevolezza si diffondesse.
Io
invece, puntando un po’ sull’ignoranza,
un po’ sulla spensieratezza, un po’ sulla debolezza della memoria, riesco a ottenere
che proprio chi ha meno motivi di restare
in vita, ama di più vivere e non è sfiorato dal tedio della vita.
Si deve a
me se si vedono in giro tanti vecchi svaniti, sdentati, curvi, miseri, rugosi,
senza capelli, senza denti, lascivi, ma a tal segno amanti della vita e tanto inclini
a fare i giovinetti, che si tingono i capelli, nascondono la calvizie con il
parrucchino e ostentano smaglianti dentiere. E c’è tra loro chi si strugge d’amore
per una fanciulla e combina sciocchezze più di un ragazzino. Ed è ormai
frequente che vecchi rammolliti, già sull’orlo della fossa, sposino giovinette, anche se povere e destinate a fare la gioia di altri.
E non vi è
nulla di più spassoso di certe vecchie, praticamente già morte tanto sono messe
male, che hanno sempre sulle labbra il ritornello: la vita è bella; fanno le
vezzose, si profumano, s’imbellettano, stanno sempre allo specchio, si radono
le parti intime, ostentano le tette avvizzite, sollecitano con tremuli mugolii
il desiderio che vien meno, bevono, si inseriscono nelle danze delle fanciulle,
scrivono bigliettini amorosi. Sono cose di cui tutti ridono come di indubbie
follie; e hanno ragione: Ma loro, le vecchie, per merito mio, sono felici.
Ai miei
pazzi non importa proprio nulla della riprovazione degli altri. Sono tanto
impegnati ad applaudirsi che non s’accorgono dei fischi.
I filosofi
sostengono che l’uomo è infelice se vive nell’ignoranza, se s’inganna, se è
prigioniero della follia. Ma essere uomo è appunto questo. Nessuno è infelice
quand’è in armonia con la propria natura. Mica possiamo compiangere l’uomo perché
non può volare come gli uccelli, né camminare a quattro zampe come gli altri
mammiferi, o perché, a differenza dei tori, non è dotato di corna? Né compiangeremmo
un bel cavallo perché non sa di grammatica. In realtà, come non è infelice il
cavallo che ignora la grammatica, così non è infelice l’uomo per la sua follia,
che è conforme alla sua natura.
XVI
LA
SCIENZA È UNA CALAMITÀ PERCHÉ VUOL FARE A MENO DELLA FOLLIA
Ma
gli esperti del ragionamento tortuoso non si danno per vinti. È dono peculiare
dell’uomo, dicono, la conoscenza
scientifica, che gli serve per compensare con l’ingegno ciò che la natura gli
ha negato. Come se fosse verosimile che la natura, così sollecita nei confronti
delle zanzare e perfino delle erbette e dei fiorellini, fosse stata leggera
solo nella creazione dell’uomo, rendendogli necessarie quelle scienze inadatte a renderlo felice. Le scienze dunque
sono penetrate fra gli uomini, insieme alle altre calamità della vita mortale,
per opera di coloro da cui partono tutti i malanni, i demoni del male.
La gente
semplice dell’età dell’oro, del tutto priva di dottrina, viveva sotto l’unica
guida della natura e dell’istinto. Che bisogno c’era della grammatica, quando
tutti parlavano la stessa lingua e si cercava solo di capirsi l’un l’altro? A
che la dialettica, se non c’era contrasto di opposte posizioni? A che la
retorica, se nessuno intentava cause al prossimo? E che bisogno c’era della
giurisprudenza, se non c’erano quei cattivi costumi che, senza dubbio, hanno
fatto nascere le buone leggi? Erano troppo religiosi per scrutare con empia
curiosità i misteri della natura, la grandezza, i moti, gl’influssi delle
stelle, le cause riposte delle cose, giudicando vietato ai mortali il tentativo
di conoscere più di quanto era loro concesso.
Non passava
loro per la mente lo stolto desiderio di andare a cercare cosa ci fosse di là
dal cielo. Col graduale esaurirsi dell’età
dell’oro, dapprima, come ho detto, dai demoni del male furono inventate le
scienze, ma poche, e limitate a pochi. Poi misero becco i Caldei, con la loro
superstizione, e quei perdigiorno dei Greci, con le loro disquisizioni.
Basterebbe la grammatica a rovinare una
vita intera.
XVII
LE
SCIENZE PIÙ UTILI A CHI LE PRATICA SONO QUELLE PIÙ VICINE ALLA FOLLIA
Tuttavia,
tra tutte le scienze, le più utili a chi le pratica sono quelle più vicine alla
follia. I teologi fanno la fame, i fisici soffrono il freddo, gli astrologi
sono derisi, i dialettici non contano nulla, mentre un medico fa più fortuna di
cento di loro messi insieme. Più è ignorante, avventato, leggero, tanto più ha
successo. La medicina, infatti, si riduce, per lo più, a lisciare il paziente.
Il secondo posto, con un brevissimo stacco, spetta ai legulei; la loro professione
è irrisa per lo più dai filosofi, fra il generale consenso, come un’arte da
asini. Tuttavia questi asini fanno grandi affari. Le loro proprietà crescono
continuamente, mentre il teologo, dopo aver scandagliato tutti gli aspetti
della divinità, rosicchia lupini, impegnato nella guerra continua con cimici e
pidocchi.
XVIII
MA
È VERAMENTE FELICE SOLO CHI SI TIENE LONTANO DA OGNI SCIENZA
Se
è fortunato chi si dedica alle scienze
più affini alla follia, è ancora più fortunato chi si mantiene aderente alla
natura rifuggendo da ogni scienza e dalla relativa applicazione.
Non vedete
che, tra le specie animali, se la passano meglio di tutte quelle che hanno come
guida la natura? Guardate le api: che c’è di più felice e più mirabile? Non
hanno neppure tutti i sensi. Ma quale architetto potrebbe avvicinarsi alla perfezione
delle loro costruzioni? Quale filosofo ha mai concepito una repubblica come la
loro? Invece il cavallo è più vicino all’uomo dal punto di vita dei sensi e,
diventatone compagno, è anche vittima delle umane calamità. Gli capita di
sfiancarsi nella corsa per la vergogna di perdere la gara; in guerra rischia la
pelle e morde la polvere come il cavaliere. Per non parlare del morso, degli
sproni appuntiti e della stalla, dove è prigioniero, del frustino, delle
redini, del cavaliere, insomma della schiavitù cui si è assoggettato nel tentativo
di fare l’eroe. È più invidiabile la sorte delle mosche e degli uccellini, che
vivono alla giornata obbedendo solo all’istinto; sempre che lo consentano le
insidie degli esseri umani. Perdono infatti il loro naturale splendore gli uccelli
chiusi in gabbia e ammaestrati a imitare la voce umana. Il prodotto della
natura è insomma ben migliore di quello che l’intervento dell’uomo ha adulterato.
E tra gli
uomini antepongo, sotto tutti i punti di vista, i semplici ai dotti e i piccoli
ai grandi.
È proprio
vero che i più lontani dalla felicità sono, tra i mortali, quelli che aspirano
alla sapienza. Doppiamente stolti, perché hanno dimenticato la loro condizione
di uomini e sfidano la natura con ordigni costruiti dalla loro perizia. I meno
infelici sembrano quelli che rimangono più vicini alla semplicità degli
animali.
XIX
COMUNQUE,
I PIÙ FELICI DI TUTTI SONO I MATTI
Chi
è più felice, tra gli esseri umani, di coloro che volgarmente sono considerati
stolti, sciocchi, scimuniti? Tutti appellativi, a mio parere, onorevolissimi.
Essi non
hanno paura della morte. Non è mica cosa da poco! Non li tormentano rimorsi di
coscienza; non li turbano le storie sugli spiriti dei defunti; non hanno paura
delle apparizioni; non si angustiano per il timore di mali incombenti; non
stanno in ansia per il futuro. Ignorano la vergogna, il timore, l’ambizione, l’invidia,
l’amore. Peraltro più sono vicini alla stupidità degli animali e più sono
immuni dal peccato, come garantiscono i teologi.
Cari
sciocchissimi saggi, fate la somma degli affanni che vi tormentano notte e
giorno e riconoscete quanti mali risparmio ai miei folli. Non solo essi
vivono in perpetua letizia, scherzando, canterellando, ridendo, ma
offrono anche a tutti gli altri motivi di piacere, scherzo, divertimento e
riso, come se la benevolenza divina proprio a questo li avesse votati: a
rallegrare la tristezza della vita umana. Così, mentre gli esseri umani
provano, caso per caso, sentimenti diversi verso i loro simili, nei confronti
di questi pazzi nutrono sempre sentimenti amichevoli: li vanno a cercare, li
nutrono, li soccorrono, non tenendo in nessun conto quanto possano dire o fare.
Nessuno desidera far loro del male. Persino le bestie feroci li risparmiano, istintivamente
consapevoli della loro innocenza. Per questo sono a me particolarmente cari, e
da tutti onorati.
Gli uomini
potenti si dilettano di questi pazzi e non ne possono fare a meno. Di gran
lunga li preferiscono ai filosofi austeri, anche se foraggiano costoro per
ragioni di prestigio. E si capisce benissimo perché preferiscono i pazzerelli.
Perché i saggi portano tristezza e talvolta, addirittura, confidando nella
propria dottrina, osano sfiorare le orecchie delicate dei potenti con qualche
scomoda verità. I buffoni invece offrono ai potenti ciò che desiderano con
tutta l’anima: passatempi, scherzi, risate e sollazzi.
Il folle
porta scritto in faccia, e traduce in parole, tutto quanto ha nel cuore. I
saggi, invece, hanno due linguaggi: quello della verità e quello dell’opportunismo.
È loro caratteristica mutare il nero in bianco, avendo in fondo al cuore tutt’altro
da quello che dicono nei loro discorsi artefatti.
Si potrebbe
osservare che le orecchie dei potenti detestano la verità e proprio per questo
evitano i saggi, nel timore che a qualcuno di essi possano sfuggire cose vere
ma sgradevoli. Ciò va a vantaggio dei miei folli: da loro i potenti ascoltano
con piacere, non solo la verità, ma anche vere e proprie insolenze che, se le
dicesse un sapiente, gli frutterebbero la morte; dette invece da un buffone,
fanno ridere. Ma questo è un dono che ho riservato solo ai folli.
Si capisce
anche perché le donne, più inclini per natura al divertimento e alle frivolezze,
si trovano di solito tanto bene coi pazzerelli. Così, qualsiasi cosa essi facciano
(magari, a volte, cose fin troppo serie) le donne le volgono in gioco.
Torniamo
alla felicità dei folli. Essi, dopo aver trascorsa lietamente la vita, senza né
il timore né il senso della morte, se ne vanno diritti all’altro mondo, per
dilettare anche lì, coi loro scherzi, il riposo delle anime pie.
Paragoniamo
quindi la condizione del saggio con quella del buffone. Vi descrivo un sapiente
esemplare: un uomo che abbia consumato tutta la fanciullezza e l’adolescenza a
istruirsi in mille modi, perdendo la parte migliore della propria vita in
veglie senza fine, in affanni e fatiche; che nemmeno in tutto il resto della propria
vita abbia mai gustato un istante di piacere; sempre parco, povero, triste,
austero, inflessibile con se stesso, fastidioso e inviso agli altri; pallido,
macilento, cagionevole; invecchiato e incanutito prima del tempo, colto da
morte prematura senza aver praticamente mai vissuto. Ecco l’immagine perfetta
del sapiente.
Parliamo
adesso del folle. Ma non senza premettere che esistono due specie di follia.
Quella diabolica, che suscita nei cuori dei mortali ardore di guerra, o insaziabile
sete di oro, o amore turpe e scellerato, parricidio, incesto, sacrilegio, e
altri consimili orrori. Ma l’altra, che nasce da me, non ha nulla in comune con
questa. Essa si manifesta ogni volta che una dolce illusione libera l’animo
dall’ansia e lo colma, insieme, di mille sensazioni piacevoli.
Ma non ogni
errore dei sensi o della mente merita il nome di follia. Se uno che ci vede
poco scambia un mulo per un asino, se un altro ammira come un monumento di
dottrina una rozza poesia, non si può senz’altro chiamarlo pazzo. Ma se uno sbaglia,
non solo coi sensi, ma anche col giudizio della mente, e questo gli accade
sempre e in proporzioni insolite, di lui, sì, diremo che ha un ramo di pazzia;
come chi, sentendo un asino ragliare, credesse di ascoltare un meraviglioso
concerto, o chi, povero e di umili origini, credesse di essere ricco sfondato.
Ma quando
questa specie di follia, come di solito accade, assume aspetti piacevoli, è di
non piccolo diletto, sia per coloro che ne sono posseduti, sia per quelli che
stanno a vedere senza esserne colpiti. Si tratta, si badi, di un’affezione molto
diffusa; più di quanto di solito si crede. Il pazzo ride del pazzo, e a vicenda
si offrono diletto. E non di rado vi accadrà di vedere che, di due pazzi, il
più pazzo è quello che più si prende gioco dell’altro.
Eppure, ve lo assicuro, uno è tanto più felice
quanto più la sua follia è multiforme, purché si mantenga entro il genere a me
peculiare: un genere così diffuso che non so se fra tutti gli uomini se ne
possa trovare uno solo che sia costantemente saggio, e che sia del tutto immune
da una qualche forma di pazzia. La differenza è tutta qui: chi, vedendo una
zucca, la scambia per la moglie, viene chiamato pazzo perché la cosa succede a
pochissimi. Chi invece, avendo la moglie in comune con altri, giura che è la
più virtuosa delle donne, è felice del suo errore; e nessuno lo chiama pazzo,
perché la cosa accade spesso e dovunque.
XX
TRA
I SEGUACI DELLA FOLLIA VANNO ANNOVERATI ANCHE I CACCIATORI …
Appartengono
alla schiera dei miei seguaci anche coloro per i quali non vi è nulla di meglio
di una partita di caccia. Che piacere squartare la selvaggina! Il plebeo può
squartare tori e castrati, ma compirebbe un delitto se lo facesse con un capo
di selvaggina: questa è prerogativa dei nobili. A capo scoperto sta il nobile,
piegati i ginocchi, col coltello destinato allo scopo (è vietato servirsi di
uno strumento qualunque), con gesti rituali, in pio raccoglimento, taglia
determinate membra in un determinato ordine. Una folla silenziosa lo circonda,
ammirata come se assistesse a non so quale nuovo rito, mentre si tratta di uno
spettacolo visto e rivisto. Costoro, cacciando e cibandosi in continuazione di
selvaggina, mentre ottengono solamente di trasformarsi press’a poco in fiere,
si illudono invece di menar vita da re.
XXI
…
E GLI ALCHIMISTI...
Altri
miei seguaci sono quelli che tentano di trasformare la natura degli elementi e
cercano per terra e per mare la quinta essenza. Si nutrono di una speranza così
dolce da non tirarsi mai indietro di fronte a spese e fatiche e, con mirabile
spirito d’inventiva, ne pensano sempre qualcuna per ingannarsi una volta di più
e per rivestire l’inganno di liete apparenze, fino a dare fondo alle loro sostanze.
Tuttavia non smettono di sognare e spingono anche gli altri verso la medesima
felicità. E quando l’ultima speranza li ha abbandonati, si consolano col motto
che “le grandi cose basta averle volute”. E accusano allora la brevità della
vita, inadeguata alla grandezza dell’impresa.
XXI
… E FORSE ANCHE I GIOCATORI
Sono
in dubbio se annoverare tra i miei seguaci i giocatori. Ma senza dubbio è uno
spettacolo di spassosa follia vedere gente così schiava del gioco da eccitarsi
al rumore dei dadi. Quando poi, obbedendo al costante stimolo della speranza di
vincere, si sono completamente rovinati, defraudano chiunque gli càpiti, meno
coloro che li hanno vinti nel gioco.
Così credono di comportarsi da persone serie. E che dire di quando,
ormai vecchi, con la vista che vacilla, ricorrendo alle lenti, continuano a
giocare? E, quando infine l’artrite impedisce loro l’uso delle mani, arrivano a
pagare un sostituto che getti sulla tavola, per loro, i dadi. Gran bella cosa sarebbe
il gioco, se il più delle volte non volgesse in passione rabbiosa; ma qui siamo
ormai fuori dal mio regno.
XXII
SENZ’ALTRO SONO SEGUACI DELLA FOLLIA I BIGOTTI E I
CREDULONI …
Sono
senz’altro miei seguaci coloro che si divertono ad ascoltare o narrare storie
di miracoli o di prodigi fantastici e non si stancano mai di ascoltare favole
in cui si parla di eventi portentosi, di spettri e di altre cose del genere. Quanto
più la favola si scosta dal vero, tanto più volentieri ci credono, tanto più voluttuosamente
le loro orecchie ne sono solleticate. Di qui, non solo un apprezzabile passatempo
contro la noia, ma anche una fonte di guadagno, specialmente per i preti e i
predicatori.
Sono della
stessa schiera coloro che nutrono la folle ma piacevole convinzione di non
essere esposti a morire in giornata, solo perché hanno visto il simulacro
ligneo o l’immagine dipinta di san Cristoforo; o credono di tornare sani e
salvi dalla battaglia, se hanno rivolto le debite preghiere alla statua di
santa Barbara; o di arricchirsi in breve rendendo omaggio a sant’Erasmo in
certi giorni, con speciali candeline e determinate formulette.
Che dire
poi di quelli che, nell’illusione d’indulgenze accordate ai loro peccati,
computano quasi con l’orologio alla mano il periodo da passare in purgatorio, numerando
secoli, anni, mesi, giorni e ore? O di quelli che, fidando in formule insensate
e ridicoli amuleti forniti, per naturale disposizione o per guadagno, da
qualche ciurmatore, coltivano speranze illimitate: ricchezze, onori, piaceri,
salute, lunga vita, vecchiaia vegeta, e, alla fine, nel regno dei cieli, un
seggio proprio accanto a Cristo. Per questo però c’è sempre tempo. Meglio
godersi le delizie della vita: le delizie dei beati possono aspettare.
Immaginate
un mercante, o un soldato, o un giudice che, rinunciando a una sola monetina
dopo tante ruberie, crede di avere lavato una volta per tutte il fango di un’intera
vita e ritiene che tanti spergiuri, tanta libidine, tante ubriacature, tante
risse, tante stragi, tante imposture, tante perfidie, tanti tradimenti, siano
riscattati al punto da poter ricominciare da zero una nuova catena di delitti.
E chi è più
folle, o meglio più felice, di quanti recitando ogni giorno sette versetti del
salterio si ripromettono una beatitudine sconfinata? Roba da matti! Persino io
me ne vergogno. Sono cose, tuttavia, che godono l’approvazione, non solo del volgo,
ma anche di chi propina insegnamenti religiosi.
XXIII
… E COLORO CHE SI RACCOMANDANO AI SANTI INVECE DI IMITARLI
Analogamente
si venerano i santi per ottenerne benefici di ogni genere. Uno deve far passare
il mal di denti; un altro deve assistere le partorienti; un altro fa recuperare
gli oggetti rubati; un altro salva il
naufrago, un altro protegge il gregge ecc. Troppo lungo sarebbe
elencarli tutti. Ve ne sono che da soli possono essere utili in parecchi casi;
vi ricordo la Vergine ,
madre di Dio, alla quale il volgo attribuisce quasi più poteri che al Figlio.
Ma che cosa
chiedono gli uomini a questi santi, se non cose che sanno di follia? Fra tanti
ex-voto di cui sono zeppe le pareti di certe Chiese, ne avete mai visti di chi
fosse guarito dalla follia, o che fosse diventato, sia pure di un’inezia, più
saggio? Uno si è salvato a nuoto; un altro, ferito dal nemico, è riuscito a sopravvivere;
un altro, con l’aiuto di un santo protettore dei ladri, è caduto dal patibolo
per poter continuare ad alleggerire delle loro ricchezze quelli che non le
meritano; un altro è guarito dalla febbre con disappunto del medico; a un altro
il veleno, invece di ammazzarlo, gli ha fatto da medicina, con delusione della
moglie che si era data da fare per niente; un altro, rimasto sotto le macerie, è sopravvissuto; un altro,
infine, colto sul fatto da un marito, è riuscito a svignarsela.
Nessuno che
renda grazie per essere stato guarito dalla pazzia. Gran bella cosa mancare di
senno, se i mortali tutto deprecano, fuori che la follia.
A tal punto
la cristianità intera trabocca di vaneggiamenti del genere; e i sacerdoti
stessi sono pronti ad ammetterle e incoraggiarle, non ignorando il guadagno che
di solito glie ne viene. Se però nel frattempo qualche saggio impertinente si
permettesse di dire le cose come stanno:
«Morirai bene, se bene avrai vissuto; laverai i tuoi peccati, se all’offerta di
una moneta aggiungerai il pentimento con lacrime, veglie, preghiere, digiuni, e
un radicale cambiamento di vita; avrai la protezione di questo santo, se ne
imiterai la vita». Se quel saggio si mettesse a ripetere queste cose e altre
del genere, le anime dei mortali passerebbero dalla letizia allo sgomento.
XXIV
SONO TRA I SEGUACI DELLA FOLLIA ANCHE QUELLI CHE ORGANIZZANO IL PROPRIO FUNERALE...
Rientrano
nella mia congrega coloro che, da vivi, stabiliscono la pompa del proprio
funerale con tanta cura da indicare il numero delle torce, degli incappucciati,
dei cantori e delle lamentatrici, come se dovessero assistere allo spettacolo
e, da morti, potessero vergognarsi qualora il cadavere non fosse sepolto con la
debita magnificenza.
XXV
… E COLORO CHE VANTANO IL PROPRIO CASATO
Per
quanto cerchi di non dilungarmi, non riesco proprio a passare sotto silenzio coloro
che, in nulla diversi dall’ultimo ciabattino, ostentano un vano titolo
nobiliare e mostrano con orgoglio i ritratti degli antenati. Ti enumerano uno
dopo l’altro bisavoli e trisavoli ricordandone i nomi, ma di sé hanno poco da
dire.Tuttavia vivono in perfetta
letizia. Né mancano gli sciocchi che guardano a questa razza di animali come se
fossero divinità.
XXVINÉ VANNO DIMENTICATI GLI ATTORI, I CANTANTI, GLI
ORATORI E I POETI
E
non dimentichiamo i cosiddetti artisti. Faresti prima a trovarne uno disposto a
cedere il campo paterno che a rinunziare al suo talento, soprattutto nell’ambito
degli attori, dei cantori, degli oratori e dei poeti. Uno meno vale più è
sicuro di sé. E più è sicuro di sé più ha successo. Quanto meno si vale tanto
più si è ammirati. Perché sforzarsi di acquisire una cultura autentica che
costerebbe tanta fatica e renderebbe più timidi, restringendo così la cerchia
degli ammiratori?
XXVII
L’ORGOGLIO DELLE NAZIONI E DELLE CITTÀ È UN ALTRO
PRODOTTO DELLA FOLLIA …
Mi
rendo conto che la natura, come ha infuso un amor proprio nei singoli individui,
ne ha instillato uno comune a tutti i cittadini di ciascuna nazione, e
addirittura, di una stessa città. Di qui la pretesa degli Inglesi di
primeggiare, oltre che nel resto, sul piano della bellezza, della musica e
delle laute mense; gli Scozzesi vantano nobiltà, parentele regali, nonché
dialettiche sottigliezze; i Francesi rivendicano la raffinatezza dei costumi; i
Parigini pretendono la palma della scienza teologica vantandone un possesso
quasi esclusivo; gli Italiani affermano la loro superiorità nelle lettere e
nell’eloquenza. Tutti si cullano nella piacevole convinzione di essere i soli
non barbari fra i mortali. Primi, in questo genere di felicità, sono i Romani,
ancora immersi nei bellissimi sogni dell’antica Roma; quanto ai Veneti, si
beano del prestigio della loro nobiltà. I Greci, quali inventori delle arti, si
vantano delle antiche glorie dei loro famosi eroi; i Turchi e tutti gli altri
musulmani pretendono il primato anche in fatto di religione e quindi deridono i
cristiani come superstiziosi. Molto più gustoso è il caso degli Ebrei che
aspettano sempre incrollabili il proprio Messia. Gli Spagnoli non la cedono a
nessuno in fatto di gloria militare; i Tedeschi si compiacciono dell’alta
statura e della conoscenza della magia.
XXVIII
… COSÌ COME L’ADULAZIONE.
L’amor
proprio è dunque una forma di follia che consiste nell’accarezzare se stessi.
Ma, se si accarezza un altro, si tratta di adulazione. Oggi, però, l’adulazione
non gode buona fama; tutti ritengono che l’adulazione non si può accompagnare alla
fedeltà, ma si renderebbero conto di quanto si sbagliano se solo guardassero
all’esempio che viene dalle bestie. Chi, infatti, è più adulatore del cane? E,
al tempo stesso, chi è più fedele? A meno che non si vogliano considerare più
utili all’uomo i leoni, le tigri e i
leopardi. È vero che c’è una forma d’adulazione davvero perniciosa con cui
taluni, perfidamente beffando gl’ingenui, li portano alla rovina. Ma l’adulazione
che a me s’ispira nasce dal candore ed è vicina alla virtù molto più della
ruvida schiettezza che si suole contrapporle. La mia adulazione rincuora gli
animi abbattuti, raddolcisce la tristezza, riscuote dall’inerzia, sveglia gli
ottusi, dà sollievo ai malati, mitiga i violenti, mette pace fra gli innamorati
e ne conserva l’armonia, convince i fanciulli a studiare, rallegra i vecchi,
ammonisce e ammaestra i potenti senza offenderli, lodandoli solo
apparentemente. Insomma, fa in modo che ciascuno sia di sé più contento, il che
è parte della felicità, e addirittura la parte più importante. Che cosa può
esservi di più gentile di due muli che si grattano a vicenda?
XXIX
L’ANIMO UMANO È ATTRATTO PIÙ DALLA FINZIONE CHE
DALLA REALTÀ: SU QUESTO SI BASA LA FORTUNA DELLA FOLLIA
Ma
se è male, dicono, essere ingannati; è ancora peggio non essere ingannati. Sono,
infatti, proprio privi di buon senso quanti ripongono la felicità dell’uomo
nelle cose stesse. Essa dipende dal nostro modo di vederle. Infatti tale è l’oscurità
e varietà delle cose umane che niente si può sapere con chiarezza.
Se poi
qualcosa si può sapere, spesso abbiamo poco da rallegrarcene. L’animo umano è
dominato più dalla finzione che dalla verità. Basta assistere a una predica in
chiesa. Se il discorso si fa serio, tutti sonnecchiano, sbadigliano, si
annoiano. Ma, se l’«urlatore» di turno (è stato un lapsus, volevo dire l’«oratore»)
tira fuori una di quelle storielle che si raccontano a veglia, tutti si
ridestano e si mettono ad ascoltare a bocca aperta. Così pure i santi più
leggendari (per esempio san Giorgio, o san Cristoforo, o santa Barbara) sono
venerati con maggiore pietà rispetto a
san Pietro, a san Paolo e allo stesso Gesù Cristo. Le cose vere, anche
le meno rilevanti, come la grammatica, costano tanta fatica. Un’opinione,
invece, costa così poco, e alla nostra felicità giova altrettanto, se non di più.
Se una moglie decisamente brutta, al marito sembra una venere, non sarà forse
come se fosse bella davvero? Conosco un tale che alla sposa novella donò alcune
gemme false facendogliele credere, con la parlantina che aveva, non solo
assolutamente vere, ma anche rare e di valore inestimabile.
Ditemi un
po’, che differenza c’era per la fanciulla, visto che quei pezzetti di vetro
rallegravano altrettanto i suoi occhi e il suo cuore? Il marito, frattanto,
aveva evitato una spesa e godeva dell’illusione della moglie che gli era grata
come se avesse ricevuto doni di gran pregio.
Che
differenza pensate vi sia fra coloro che nella caverna di Platone contemplano
le ombre e le immagini delle varie cose, senza desideri, paghi della propria
condizione, e il sapiente che, uscito dalla caverna, vede le cose vere? Se
qualche differenza c’è, è a vantaggio di chi preferisce ingannarsi.
XXX
LA FOLLIA FA DEL BENE A TUTTI E NON VUOLE ESSERE RINGRAZIATA
La
capacità di scacciare gli affanni è giustamente considerata il maggior merito
del vino. Almeno fino a che, smaltita la
sbornia, gli affanni tornano all’assalto. Ma io procuro un’ebbrezza molto più
piacevole, efficace e duratura.
A pochi
tocca in sorte la bellezza, a pochissimi l’eloquenza, le ricchezze e il potere.
La forza spesso non basta per non soccombere in guerra; la sensibilità induce alla
malinconia; la salute è insidiata dalle malattie; il mare inghiotte la maggior
parte di quelli che vi si avventurano; per non parlare degli incendi, dei
terremoti, delle alluvioni e delle altre calamità naturali. Io sola stringo
tutti in un generoso abbraccio.
Nessuno mi
dedica templi e mi erige monumenti. Ma,
se pure mi stupisco di questa ingratitudine, non me ne offendo. Col buon
carattere che mi ritrovo, ci passo sopra. D’altronde gli esseri umani non fanno
che dimostrarmi coi fatti, e non con le cerimonie, la loro devozione. Essi mi
portano nel cuore e modellano su di me i loro costumi.
Quanti sono
coloro che accendono candele alla Vergine, magari in pieno giorno, quando non ce
n’è bisogno? Ma quanti cercano d’imitarne
la castità, la modestia, l’amore per il regno dei cieli?
E perché
mai dovrei desiderare un tempio, quando tutto il pianeta è il mio tempio? Mi
mancano i devoti solo dove mancano gli esseri umani. Non sono così sciocca da
andare in cerca di statue di pietra, o di legno, o di gesso dipinto, che spesso
sono adorate dagli sciocchi al posto di coloro che esse rappresentano. Io credo
di avere tante statue quanti sono gli uomini che, anche senza volerlo, mostrano nel volto la mia immagine vivente.
Se qualcuno
giudica questo mio discorso esagerato, andiamo un po’ a vedere la vita stessa
degli uomini, per mettere in chiaro quanto mi devono, e in che conto mi
tengono, siano essi dei potenti o dei poveri diavoli.
Non esaminerò
la vita di uomini qualunque, per non farla troppo lunga, ma solo quella di personaggi
in vista, da cui sarà facile giudicare gli altri. Perché sprecare il fiato per
il popolino, che indiscutibilmente tutto mi appartiene? Tante, infatti, sono le
forme di follia di cui il popolo trabocca, e altre ne inventa ogni giorno.
Che varietà
nel tumultuoso agitarsi dei folli!
Uno si
strugge d’amore per una donnetta, e quanto meno è riamato tanto più ama senza
speranza. Uno sposa la dote e non la donna. Uno prostituisce la sposa, mentre
un altro, roso dalla gelosia, la spia.
C’è chi
spende tutto ciò che ha per rimpinzarsi, a rischio di ridursi in breve a morire
di fame; chi si abbandona al sonno e all’ozio; chi gode nel vivere da povero
pur di arricchire gli eredi; chi, per un guadagno modesto e incerto, va in giro
per il mondo rischiando la vita; chi cerca di arricchirsi in guerra invece di
starsene al sicuro in casa sua; chi spera di arricchirsi senza fatica circuendo
vecchi senza eredi e chi, per lo stesso scopo, fa la corte a vecchie danarose.
Ma la razza
più stolta e abietta è quella dei mercanti che, pur trattando la più sordida
delle faccende e nei modi più sordidi, pur mentendo, spergiurando, rubando,
frodando a tutto spiano, si credono superiori agli altri perché hanno le dita
inanellate d’oro. Né mancano di adularli certi fraticelli per carpirne parte
dei profitti. C’è chi, ricco solo di speranza, sogna la felicità, e già questo
sogno, per lui, è la felicità. C’è chi si compiace di essere creduto ricco, mentre
a casa muore di fame. C’è chi dilapida rapidamente tutto quello che possiede e
c’è chi accumula con mezzi leciti e illeciti. C’è chi si raccomanda per farsi
candidare a cariche pubbliche e c’è chi è contento di starsene accanto al
fuoco. C’è chi intenta cause temerarie e interminabili e arricchisce l’avvocato
che è in combutta con la parte avversa. C’è chi ha la mania di rinnovare il mondo e c’è chi lascia a casa moglie e figli per andarsene a
Gerusalemme, a Roma, a San Giacomo di Compostella.
Insomma, se
potessimo contemplare dall’alto gli uomini nel loro agitarsi senza fine,
crederemmo di vedere uno sciame di mosche e di zanzare in contrasto fra loro,
intente a combattersi, a tendersi tranelli, a rapinarsi a vicenda, a scherzare,
a giocare, a riprodursi, a cadere e a morire. Si stenta a credere che razza di
terremoti e di tragedie può provocare un animaletto così piccino e destinato a
vita così breve. Infatti, di tanto in tanto, un’ondata di guerra o di
pestilenza ne colpisce e ne distrugge migliaia e migliaia.
XXXI
C’È POI LA FOLLIA DEI GRAMMATICI…
Sarei
io stessa un’autentica pazza se continuassi a elencare tutte le forme di follia
proprie del volgo. Mi rivolgerò a quelli che fra gli esseri umani passano per sapienti.
Fra loro al
primo posto stanno i grammatici, che sarebbero certamente la genìa più
perniciosa se non ci fossi io a mitigare, con una dolce forma di follia, i guai
di quella infelicissima professione. Su di essi, infatti, pesano infinite maledizioni: sempre affamati, sempre sporchi,
se ne stanno nelle loro scuole (le chiamo scuole, ma dovrei dire camere di
tortura) fra turbe di ragazzi e invecchiano nella fatica; assordati dagli
schiamazzi, imputridiscono nel puzzo e nel sudiciume; tuttavia, per mio
beneficio, avviene che si ritengano i primi tra gli uomini. Sono così contenti
di sé, quando col volto truce e con la voce minacciosa atterriscono la
tremebonda folla degli alunni; quando le suonano a quei disgraziati con sferze,
verghe e scudisci, e in tutti i modi incrudeliscono a loro capriccio. Intanto, per loro, quel sudiciume è la
quintessenza del nitore, quel puzzo sa di maggiorana, quell’infelicissima
schiavitù è pari a un regno. Ma si
sentono ancora più felici perché sono convinti di essere dei dotti.
C’è poi un’altra
fonte di piacere: quando uno di loro scova in un foglio ammuffito una paroletta
di uso non comune, o quando, scavando da qualche parte, tira fuori un frammento
di un antico sasso che porta un’iscrizione mutila. Che esplosioni di gioia
allora, che trionfi, che elogi! E che diremo di quando vanno sbandierando a
tutto spiano i loro insulsissimi versiciattoli, che non mancano peraltro di
ammiratori? Ma la scena più divertente si ha quando si scambiano lodi e
complimenti, e a vicenda si danno una lisciatina. Se poi uno di loro incappa in
un lapsus, e un altro più avveduto per caso se ne accorge, allora sì che ne
viene fuori una tragedia a base di polemiche, di litigi, di ingiurie!
Ho
conosciuto una volta un tale, dotto in svariati campi: sapeva di greco, di latino,
di matematica, di filosofia, di medicina. Ormai sessantenne, messo da parte tutto
il resto, da oltre vent’anni si tormenta sulla grammatica, ritenendo di poter
essere felice se vivrà abbastanza da stabilire con certezza come vadano
distinte le otto parti del discorso. Finora nessuno, né dei Greci né dei
Latini, ci è riuscito pienamente.
E scoppia
quasi una guerra se uno considera congiunzione una locuzione avverbiale. A
questo modo, pur essendovi tante grammatiche quanti sono i grammatici, questo
tale non tralascia di leggerne ed esaminarne minuziosamente nessuna, per
barbara o goffa che sia nello stile. Guarda infatti con sospetto chiunque
faccia in materia un tentativo, sia pure insignificante, attanagliato com’è
dalla paura che qualcuno lo privi della gloria, vanificando annose fatiche. Preferite chiamarla follia o
stoltezza? A me poco importa, purché siate disposti a riconoscere che, per mio
beneficio, l’animale più infelice di tutti può attingere tale una felicità da
non volere scambiare la propria sorte neppure con quella dei re.
XXXII
… E DEI POETI E DEI RETORI …
I
poeti mi sono meno debitori, anche se chiaramente appartengono alle mie schiere,
essendo dediti a sedurre l’orecchio dei pazzi con autentiche sciocchezze e storielle
risibili. Fidando nei loro mezzi promettono immortalità e divina beatitudine a
se stessi e anche agli altri.
Anche i
retori fanno parte della mia confraternita. Molte cose lo dimostrano, ma una in
primo luogo: scrivono con tanto impegno sull’arte di scherzare. Infatti, quando
sono a corto d’argomenti, cercano una scappatoia nel riso. Ebbene, non è
proprio della follia eccitare il riso con detti scherzosi?
Nella
stessa schiera rientrano quelli che aspirano a diventare scrittori di successo.
Essi mi devono molto, soprattutto se scrivono cose leggere per il grande pubblico.
Al
contrario, gli eruditi mi sembrano infelicissimi perché scrivono per pochi dotti; si arrovellano a
fare aggiunte, tagli, sostituzioni; riprendono, limano, chiedono pareri,
lavorano a un argomento anche per anni, pagando a caro prezzo un premio da
nulla quale è la lode di quattro gatti. Lo pagano con tante veglie, con tanto
spreco di sonno (il sonno, la più dolce delle cose!), con tanta fatica, con
tanto sacrificio. Metti pure il danno alla salute, il calo della vista, la
povertà, l’invidia degli altri, la rinuncia ai piaceri, l’invecchiamento
precoce, la morte prematura. Credono che ne valga la pena.
Quanto più
felice il delirio dello scrittore mio seguace quando, seguendo l’ispirazione
del momento, mette prontamente per iscritto tutto ciò che gli passa per la
testa, perfino i sogni, sapendo che più sciocche saranno le sciocchezze che scrive,
e più troverà consenso nella maggioranza, cioè in tutti gli stolti e ignoranti.
Che importa il disprezzo degli eruditi, sempre che leggano le loro baggianate?
E che peso può avere il giudizio di pochi sapienti, se a contrastarlo c’è una
folla sconfinata? Ma ancora più avveduti si rivelano coloro che pubblicano,
spacciandoli per propri, gli scritti altrui e trasferiscono sulla propria
persona una gloria che è frutto del faticoso impegno altrui. Confidano che, se
anche saranno accusati di plagio, tuttavia, per qualche tempo, avranno tratto
vantaggio dall’inganno.
Questi
scrittori di successo c’è gusto a vederli quando si gonfiano perché la gente li
elogia e perché i loro libri stanno esposti in libreria, o quando si scambiano
elogi con altri palloni gonfiati.
I saggi
deridono questi successi, ma intanto, per merito mio, quelli se la godono.
XXXIII… E DEI GIURISTI E DEI I
FILOSOFI …
Fra gli
eruditi il primo posto spetta ai giuristi. Nessuno più di loro è soddisfatto di
sé quando citano leggi a iosa, non si sa quanto a proposito, aggiungendo glosse
a glosse, pareri a pareri, facendo credere che lo studio del diritto è il più
difficile che ci sia.
Accanto ai
giuristi metto i filosofi. Sono così loquaci che uno qualunque di loro potrebbe
gareggiare in fatto di chiacchiera con venti donne di prima scelta. Almeno
fossero soltanto chiacchieroni e non anche litigiosi al punto di polemizzare
con estrema tenacia per questioni di lana caprina e da trascurare spesso, nella
foga della contesa, i diritti della verità. Pieni di sé come sono, godono
ugualmente quando, armati di tre sillogismi, non esitano ad attaccare lite con
chiunque, a qualunque proposito. Del resto la loro pertinacia li rende invincibili.
XXXIV
… E DEI TEOLOGI …
Dei
teologi, forse meglio farei a non parlare. A toccare quest’erba puzzolente si suscita
un vespaio perché, aggressivi come sono, assalgono in gruppo con centinaia di
argomenti e costringono a fare ammenda. Atterriscono chi non gode le loro simpatie
scagliando come un fulmine l’accusa di eresia. Eppure, ancorché siano i meno
propensi a riconoscere i miei meriti nei loro confronti, anche loro, e non di
poco, mi sono debitori. Devono a me, infatti,
quell’alta opinione di sé che li rende felici, come se il terzo cielo
fosse la loro dimora, dalla quale guardano dall’alto in basso, con una sorta di
commiserazione, tutti gli altri mortali, come se fossero animali che strisciano
a terra; mentre loro, trincerati dietro un muro di definizioni, conclusioni, corollari
e proposizioni esplicite ed implicite, si ritengono inattaccabili. Spiegano a
modo loro i misteri più arcani: i criteri che stanno a base della creazione e dell’ordinamento del
mondo, per quali vie la macchia del peccato si è trasmessa di generazione in
generazione, in che modo, in che misura e in quanto tempo Cristo si è formato
nel grembo della Vergine, come nell’Eucaristia ci possono essere gli accidenti
senza la materia. Ma questo è niente. Sono altre le questioni che li esaltano:
qual è l’istante della generazione divina? ci sono più filiazioni in Cristo? è
sostenibile la proposizione «Dio Padre odia il Figlio»? avrebbe potuto Dio
assumere figura di donna, di demonio, di asino, di zucca, di pietra? in caso
affermativo, come la zucca avrebbe potuto predicare, fare miracoli, essere
messa in croce? che cosa avrebbe consacrato Pietro, se avesse consacrato mentre
Cristo pendeva dalla croce? e poteva Cristo, in quel medesimo tempo, essere
chiamato uomo? infine, dopo la resurrezione, potremo mangiare e bere? Della
fame e della sete, infatti, costoro si preoccupano fin da ora. Innumerevoli poi
le sottigliezze, anche molto più sottili di queste, circa le nozioni, le
relazioni, le formalità, le quiddità, le ecceità, che sfuggirebbero agli occhi
di tutti, tranne a chi fosse capace di vedere nelle tenebre più profonde anche
le cose che non sono in nessun luogo. Emettono poi sentenze così paradossali
che i paradossi con cui si divertivano i Greci, sembrano al confronto luoghi comuni
dei più rozzi e banali. Per esempio, che accomodare una volta la scarpa di un
povero nel giorno del Signore è delitto più grave che strangolare mille uomini;
che dire una volta tanto una sola bugia, per quanto piccina, è più grave che
lasciare andare in malora il mondo intero con tutta la sua dovizia di cose
utili e belle. A rendere ancora più sottili queste sottilissime sottigliezze ci
sono le tante vie battute dagli scolastici. È più facile uscire da un labirinto
che dalle oscure tortuosità di realisti, nominalisti, tomisti, albertisti,
occamisti, scotisti. E non ho nominato tutte le scuole, ma solo le principali.
C’è tanta
erudizione, tanta astrusità, che persino gli Apostoli, se si trovassero a dover
discutere con questi teologi, avrebbero bisogno di un secondo Spirito Santo.
Paolo poté dimostrare la sua fede, ma quando dice che «la fede è sostanza di
cose sperate, e argomento di cose che non si vedono», dà una definizione
manchevole dal punto di vista dottrinale. Proprio Paolo, che in modo eccellente
fece professione di carità, ne dette, nel capitolo tredicesimo della prima
epistola ai Corinzi, un’analisi ed una definizione difettose in sede dialettica.
Gli Apostoli, certamente, celebravano l’Eucaristia con la dovuta pietà. Non
credo però che (interrogati sul termine a
quo e sul termine ad quem, sulla
transustanziazione, sull’ubiquità di un medesimo corpo, sulla differenza tra il
corpo di Cristo in cielo, sulla croce e nel sacramento dell’Eucaristia, sull’istante
in cui avviene la transustanziazione) avrebbero raggiunto la sottigliezza degli
scotisti.
Gli
Apostoli avevano conosciuto la madre di Gesù; ma chi di loro dimostrò, con l’ineccepibile
metodo filosofico dei nostri teologi, come rimase immune dalla macchia del
peccato di Adamo? Pietro ha ricevuto le chiavi, e le ha ricevute da Colui che
non le darebbe a un indegno; e tuttavia non so se avrebbe capito (certo non ne
ha mai colto la sottigliezza) la questione del come possa possedere la chiave
della scienza anche chi non ha la scienza. Gli Apostoli battezzavano in ogni
luogo; tuttavia non hanno mai insegnato quale sia la causa formale, materiale,
efficiente e finale del battesimo, né mai hanno fatto menzione del suo
carattere delebile e indelebile. Gli Apostoli adoravano, sì, Dio, ma in
spirito, attenendosi unicamente al principio evangelico: «Dio è spirito, e chi
lo adora deve adorarlo in spirito e verità». Non pare tuttavia sia stato ad
essi ben chiaro che dobbiamo adorare Cristo allo stesso modo, sia in persona
che in una sua immagine scarabocchiata col carbone sul muro, purché vi appaia
con due dita levate, i capelli lunghi e tre raggi nell’aureola che gli cinge la
nuca. Come si possono cogliere queste finezze, se prima non ci si è dedicati
anima e corpo, per almeno trentasei anni, alla fisica e alla metafisica di
Aristotele e di Duns Scoto? Allo stesso modo gli Apostoli parlano della grazia,
ma non fanno mai distinzione fra grazia gratuita e grazia gratificante. Esortano
alle opere buone, ma non distinguono fra opera operante e opera operata.
Dappertutto insistono sulla carità, ma non distinguono fra carità infusa e
carità acquisita, né spiegano se sia sostanza o accidente, cosa creata o
increata. Detestano il peccato, ma non sono riusciti a definire cosa sia quello
che diciamo peccato; per questo avrebbero dovuto formarsi alla scuola degli scotisti.
Né posso credere che Paolo, dalla cui erudizione si può arguire quella degli
altri Apostoli, avrebbe condannato tante volte
le questioni, le controversie, le genealogie, le contese a parole, com’egli
le chiama, se avesse avuto egli stesso l’abitudine a simili sottigliezze.
Anche se
poi questi maestri, nella loro grande modestia, quando gli Apostoli hanno
scritto una cosa in forma disadorna, e, certo, non magistrale, non la condannano,
ma ne offrono un’accettabile interpretazione Quest’onore tributano in parte all’antichità,
in parte all’autorità degli Apostoli. Del resto, sarebbe stata una bella
ingiustizia pretendere la conoscenza di cose tanto difficili da chi non ne
aveva mai sentito far parola dal divino maestro. Se però la cosa si verifica in
Crisostomo, in Basilio, in Girolamo, ritengono sia sufficiente annotare:
«affermazione respinta». Eppure si tratta di autori che confutarono i pagani, i
filosofi, gli ebrei, per loro natura ostinatissimi; lo fecero con la vita e coi
miracoli più che coi sillogismi. D’altra parte nessuno dei loro avversari
sarebbe stato in grado di capire neppure una delle sottigliezze di Duns Scoto.
Al giorno d’oggi, quale pagano, quale eretico non si darebbe senz’altro per
vinto di fronte a tante sottilissime finezze? A meno che non fosse così ottuso
da non capirle, o così impudente da schernirle,
o così esperto in quei medesimi cavilli da combattere ad armi pari. In
tal caso si avrebbe un duello fra due avversari armati entrambi di una spada
incantata: tutto si ridurrebbe a tessere e ritessere la tela di Penelope.
Secondo me
i cristiani darebbero prova di un gran buon senso se, invece delle rozze armate
che ormai da un pezzo combattono con esito incerto, inviassero contro i Turchi
gli scotisti coi loro grandi schiamazzi, gli occamisti così ostinati, gl’invitti
albertisti, e con essi l’intera banda dei sofisti: assisterebbero, credo, alla
più divertente delle battaglie e a una vittoria mai vista prima. Chi, infatti,
potrebbe essere tanto freddo da resistere ai loro strali infuocati? chi tanto
torpido da non esserne stimolato? chi avrebbe la vista tanto buona da non rimanerne
abbagliato?
Ma voi
credete che i miei siano tutti scherzi. Posso capirlo: anche fra i teologi ve
ne sono di cultura superiore che giudicano futili queste arguzie. Ve ne sono
che considerano come il massimo dell’empietà, parlare con linguaggio così
volgare di cose tanto misteriose, oggetto d’adorazione più che di spiegazione;
discuterne usando il profano argomentare dei pagani; definirle con tanta
presunzione, e infangare la maestà della divina teologia con parole e concetti
così poveri e addirittura spregevoli.
Ma intanto
gli altri si compiacciono beatamente di se stessi e addirittura si battono le
mani, e dediti notte e giorno alle loro piacevolissime cantilene non trovano
neppure un minuto per leggere almeno una volta il Vangelo o le lettere di san
Paolo. E, mentre nelle scuole vanno propinando ai discepoli simili sciocchezze,
credono di essere loro a salvare da rovina certa la Chiesa universale
sostenendola con la forza dei loro sillogismi. E vi pare poco gratificante por
mano ai misteri delle Scritture plasmandole a piacere, ora in questa ora in
quella guisa, come fossero cera, ed esigere che le proprie conclusioni, già
accettate da un certo numero di scolastici, siano ritenute più importanti dei
decreti pontifici? Se poi qualcosa non coincide alla perfezione con le loro
conclusioni esplicite e implicite, come fossero i censori del mondo, ne
impongono la ritrattazione e, come se parlasse l’oracolo, sentenziano:
«proposizione scandalosa», «proposizione irriverente», «questa odora di
eresia», «questa suona male». Per fare un cristiano non basta più il battesimo,
né il Vangelo, né Pietro, né Paolo, né san Girolamo, né sant’Agostino;
addirittura non basta neppure Tommaso, il principe degli aristotelici. Ci vuole
anche il voto di questi baccellieri, così sottili nel giudicare. Chi, infatti,
senza l’insegnamento di questi sapienti, si sarebbe mai accorto che non era
cristiano chi riteneva ugualmente corrette queste due proposizioni: «vaso da
notte, tu puzzi» e «il vaso da notte puzza»? Oppure: «bolle la pentola» e «la
pentola bolle»?
Chi avrebbe
liberato la Chiesa
da così gravi errori, di cui nessuno si sarebbe mai accorto, se costoro non li
avessero denunciati col sigillo della loro alta autorità? E non saranno al
colmo della gioia mentre fanno tutto ciò? o quando ritraggono con molta
esattezza il mondo infernale come se per molti anni fossero stati cittadini di
quella repubblica? o quando fabbricano a capriccio nuove sfere celesti,
creandone infine una più grande di tutte, più bella, perché le anime beate
abbiano agio di passeggiarvi, di banchettare e anche di giocare a palla? Perciò
non vi stupite quando nelle pubbliche dispute li vedete con la testa così
accuratamente imberrettata: è per evitare che scoppi.
A volte,
anch’io rido del fatto che, quanto più il loro linguaggio è barbaro e rozzo,
tanto più si credono grandi teologi, e in quel balbettare, comprensibile solo
da un altro balbuziente, loro chiamano finezza d’ingegno quello che la gente
non capisce. Negano infatti che sia compatibile con la dignità delle sacre
lettere sottomettersi alle leggi della grammatica. Mirabile maestà, invero,
quella dei teologi, se a loro soli è lecito costellare di spropositi il
discorso, anche se poi hanno in comune questo privilegio con molti ignoranti.
XXXV
… E DEI RELIGIOSI E DEI MONACI …
Quasi
altrettanto felici, sono quelli che comunemente si fanno chiamare religiosi e
monaci, usando, in entrambi i casi, denominazioni quanto mai false. Per buona
parte, infatti, sono mille miglia lontani dalla religione; e, mentre «monaco»
significa «solitario», essi s’incontrano dappertutto e ad ogni passo. Non vedo
chi potrebbe essere più misero di costoro, se non ci fossi io a soccorrerli.
Perché, pur essendo questa genìa a tal segno detestata da tutti, che persino un
incontro casuale con qualcuno di loro è ritenuto di malaugurio, si cullano
tuttavia nell’illusione di essere chissà che cosa. In primo luogo ritengono che
il massimo della pietà consista nell’essere tanto ignoranti da non saper neppur
leggere. Poi, quando, con voce asinina, ragliano i loro salmi, sono convinti d’accarezzare
in modo dolcissimo le orecchie di Dio. Neppure mancano quelli che ostentano il
loro sudiciume e la loro mendicità. Dinanzi alle porte chiedono il pane
emettendo muggiti lamentosi; non c’è albergo, non veicolo o nave in cui non portino
scompiglio con non piccolo danno degli altri mendicanti. Così, queste carissime
persone, dicono di darci un’immagine degli Apostoli con la loro sporcizia,
ignoranza, rozzezza, impudenza.
E cosa c’è
di più divertente delle regole attinenti al loro aspetto, la cui violazione
considerano un delitto? Il sandalo deve
avere un certo numero di nodi; il cordone deve essere di un certo colore; la
veste deve essere di un preciso modello; il cappuccio deve avere una
determinata capacità. Chi non vede che questa uniformità con la grande varietà
dei corpi e degli spiriti? Tuttavia, per queste sciocchezzuole, non solo si
considerano superiori agli altri, ma anche fra di loro si disprezzano a vicenda
e, pur professando la carità apostolica, fanno un’autentica tragedia di una
cintura diversa o di un colore un po’ più scuro. Ne potresti vedere di così
rigidamente attaccati alla regola da portare di sopra il rozzo saio e sotto una
camicia finissima; altri, che sopra sono vestiti di tela e sotto di lana; altri,
infine, che aborrono il contatto del denaro come fosse veleno, ma non si
astengono affatto dal vino e dalle donne. Straordinario è poi lo sforzo di tutti di differenziarsi
nel tenore di vita, non curandosi d’essere simili a Cristo, ma di
differenziarsi fra di loro.
Buona parte
della loro soddisfazione deriva dai differenti nomi che si danno: gli uni si
compiacciono del nome di Funigeri o Cordiglieri, distinti in Coletani, Minori,
Minimi, Bollisti; altri godono del nome di Benedettini, o di Bernardini; questi
di Brigidensi, quelli di Agostiniani; gli uni tengono alla denominazione di
Guglielmiti, altri di Giacobiti, come se chiamarsi Cristiani fosse troppo poco.
Gran parte di costoro, a tal punto dà peso alle proprie cerimonie e a minute
tradizioni umane, da ritenere che un solo cielo non sia premio adeguato a
meriti così grandi; e non pensano che Cristo, non facendo alcun conto del
resto, chiederà loro se hanno osservato il suo unico precetto: la carità.
Allora uno esibirà il pancione gonfio di pesci d’ogni specie; un altro
rovescerà al suo cospetto cento metri cubi di salmi; un altro ancora farà il
conto degli infiniti digiuni. Se poi tante volte ha rischiato di scoppiare, è
stato per quell’unico pasto che si concedeva dopo ogni digiuno. Altri ancora
mostrerà il mucchio delle cerimonie a cui ha partecipato. Qualcuno si vanterà
di avere oltrepassato i sessant’anni senza toccare denaro, se non con le mani
protette da due paia di guanti. Chi produrrà la cocolla tanto sporca e grassa
che farebbe schifo anche a un marinaio. Chi ricorderà di avere fatto per più di
undici anni la vita dell’ostrica, sempre attaccato allo stesso luogo; e chi si
farà un merito della voce divenuta rauca per l’ininterrotto cantare, o del
rimbecillimento derivato dalla vita solitaria; altri ancora della lingua resa
torpida dal voto del silenzio. Ma Cristo, interrompendo queste vanterie che
altrimenti rischierebbero di non finire più: «Di dove viene», dirà, «questa
nuova schiatta di Giudei? Riconosco per mia una legge sola, e solo di questa
non si fa parola. Eppure, una volta, con aperto linguaggio, e non in forma di
parabola, ho promesso l’eredità del Padre mio non alle cocolle, non alle
giaculatorie e ai digiuni, ma alle opere di carità. Non conosco questa gente
che esalta continuamente i propri meriti; dato che vorrebbero sembrare anche
più santi di me, occupino, se vogliono, i 365 cieli inventati dagli eretici, o
si facciano edificare un nuovo cielo da coloro le cui meschine tradizioni anteposero
ai miei precetti».
Quando
sentiranno queste parole, e si vedranno preferire marinai e cocchieri, con che
faccia credete che si guarderanno a vicenda?
Nel
frattempo si beano della loro speranza, e non senza mio merito. E poi nessuno
osa disprezzarli, soprattutto quelli degli ordini mendicanti, perché attraverso
la cosiddetta confessione conoscono i segreti di tutti. Rivelarli, tuttavia,
secondo loro, è peccato grave, salvo dopo una bevuta, quando vogliono
dilettarsi di qualche racconto più divertente; ma anche allora raccontano i
fatti solo in via ipotetica, senza far nomi. Se però qualcuno irrita questi
calabroni, se ne vendicano predicando al popolo, e bollano il nemico con
allusioni tanto scoperte da essere capite da tutti, salvo da chi non capisce
proprio nulla. Né la smettono di latrare, se prima non gli hai gettato il
boccone in bocca.
Eppure, quale
commediante, quale ciarlatano andresti a vedere a preferenza di costoro, quando
nella predica s’esibiscono in tirate retoriche che, pur nella loro assoluta
ridicolaggine, s’attengono nel modo più spassoso alle norme sull’arte del dire
tramandate dai maestri? Dio mio, come gesticolano! E come modulano la voce! E
come canterellano! Come si spenzolano verso l’uditorio e come mutano espressione!
Come sbraitano! Quest’arte oratoria viene trasmessa come un segreto da un
fraticello all’altro. Sebbene non mi è lecito conoscerla, tenterò qualche
congettura.
Scimmiottando
i poeti, cominciano con un’invocazione. Poi, se devono parlare, poniamo, della
carità, prendono le mosse dal Nilo. Se invece devono trattare del mistero della
Croce, cominciano giulivamente dal drago di Babilonia. Se l’argomento è il
digiuno, si rifanno ai dodici segni dello Zodiaco e se invece è la fede,
premettono una lunga introduzione sulla quadratura del cerchio.
Ho
ascoltato un famoso teologo ottantenne che, dovendo spiegare il mistero del nome
di Gesù, con mirabile sottigliezza dimostrò che tutto quanto se ne poteva dire
era nascosto nelle lettere stesse che lo componevano. Perché il fatto che la
sua declinazione abbia tre casi soli è segno manifesto della divina Trinità. Il
mistero ineffabile poi, sta nel fatto che il primo caso, JESUS, termina in S,
il secondo, JESUM, in M, il terzo, JESU, in U: quelle tre lettere significano
che è sommo, medio e ultimo. Restava un mistero anche più ostico, da risolversi
col calcolo matematico. Divise la parola Jesus in due parti uguali, in modo che
una lettera, in mezzo, restasse divisa in due. Disse che quella lettera per gli
Ebrei è SYN, che in lingua scozzese, credo, voglia dire peccato: di qui risulta
manifesto che Gesù è colui che redime il mondo dai peccati. Per l’originalità
dell’esordio tutti rimasero a bocca aperta, i teologi in particolare.
Il
preambolo dovrebbe essere attinente al tema, ma questi dotti ritengono di
toccare il massimo dell’eloquenza quando esso non abbia nulla a che fare col
resto del discorso. Poi tirano fuori un breve passo del Vangelo e lo trattano
frettolosamente, mentre sarebbe il solo punto da sviluppare. Poi sollevano un problema teologico, che a volte non c’entra
niente, e riempiono gli orecchi degli ascoltatori di nomi famosi di dottori
solenni, dottori sottili, dottori sottilissimi, dottori serafici, dottori
santi, dottori irrefragabili. E sbandierano davanti a una folla ignorante sillogismi
maggiori, minori, conclusioni, corollari, supposizioni e altre sciocchezze prive
di mordente e decisamente scolastiche. Infine, per lasciare il segno della loro
bravura, tirano fuori una vecchia storiella e ne offrono un’interpretazione
allegorica, tropologica, e anagogica.
Devono aver
sentito dire che l’inizio dell’orazione deve essere basso di tono. Perciò
cominciano con una voce così bassa che neanche loro la sentono. Hanno anche
imparato che, a volte, per suscitare emozioni, è opportuno erompere in un
grido. Perciò, a metà di un discorso concitato, all’improvviso si mettono a
strillare furiosamente, senza il minimo bisogno. Inoltre, avendo appreso che il
discorso deve animarsi via via che procede, assumono un tono sempre più
appassionato e finiscono col concludere dando l’impressione di essere esausti.
Avendo
infine imparato che i retori devono anche far ridere, tirano fuori qualche
facezia che fa cascare le braccia.
Talvolta mordono anche, ma in modo da provocare più solletico che
ferite. E più vogliono sembrare schietti più cadono nell’adulazione. Insomma
giureresti che abbiano avuto per maestri i ciarlatani di piazza, restandone
però molto al disotto.
Ciò
nonostante, per opera mia, trovano chi, ascoltandoli, crede di trovarsi davanti
a Demostene o a Cicerone in persona. Appartengono a questo genere di uditorio
soprattutto i mercanti e le donnette, le sole persone a cui si curano di
parlare in modo gradito, perché i mercanti, opportunamente lisciati, sono
inclini, di solito, a scucire una piccola parte del mal tolto; mentre le
donnette, oltre che per molte altre ragioni, sono ben disposte verso la
categoria, soprattutto perché è loro costume attingerne conforto quando
vogliono sfogare i propri malumori coniugali.
Vi rendete
conto, suppongo, di quel che mi deve questa categoria di uomini che,
esercitando tra i mortali una sorta di tirannia attraverso cerimonie da burla,
ridicole ciance e urla scomposte, si credono dei nuovi San Paolo e Sant’Antonio.
XXXVI… E DEI SOVRANI E DEI CORTIGIANI …
Ma ora
lascio volentieri questi istrioni, tanto ingrati nel nascondere ciò che mi
devono, quanto empi nell’ostentare una finta pietà religiosa. È un pezzo che ho
voglia di trattare dei sovrani e dei loro cortigiani, che mi onorano con la
franchezza tipica della loro nobiltà.
Se avesse
solo una briciola di senno, che vi sarebbe di meno invidiabile della vita di un
sovrano? Se considerasse l’enormità del peso che lo aspetta, non si guarderebbe
bene dal procurarsi un corona con lo spergiuro o col parricidio? Infatti chi assume
il potere supremo deve occuparsi degli affari pubblici, non dei propri interessi.
Deve pensare esclusivamente alla pubblica utilità; non deve scostarsi neanche
di un pollice dalle leggi, di cui è autore ed esecutore; deve assicurarsi dell’integrità
di tutti i funzionari e di tutti i magistrati. Lui solo, agli occhi di tutti,
può, come astro salutare, giovare enormemente alle cose di quaggiù coi suoi
costumi senza macchia, oppure, come letale cometa, trarle all’estrema rovina. I
vizi degli altri non sono altrettanto conosciuti e non si propagano tanto. Ma
se il sovrano, con la posizione che occupa, si scosta appena dalla retta via,
subito la corruzione si diffonde contaminando moltissimi uomini. Inoltre,
poiché la condizione del sovrano porta con sé molte occasioni di deviare dal
retto pensiero, quali i piaceri, la libertà, l’adulazione e il lusso, tanto più
attentamente egli deve stare in guardia, se non vuole venir meno al proprio
compito. Infine, per non parlare di insidie, odi, e altri pericoli o timori,
gli sta sopra la testa quel vero Re che quanto prima gli chiederà ragione anche
della colpa più lieve, e tanto più severamente quanto più prestigioso fu il suo
imperio. Se il sovrano riflettesse su queste cose e su moltissime altre del
genere (e ci rifletterebbe se avesse senno)
non dormirebbe sonni tranquilli e perderebbe l’appetito. Invece, col mio
aiuto, dimentica tutti questi motivi d’affanno e se la spassa, porgendo
orecchio solo a chi sa dire cose gradevoli, affinché nessuna ombra d’inquietudine
gli offuschi l’animo. Egli ritiene di compiere il proprio dovere andando a
caccia, allevando bei cavalli, mettendo in vendita magistrature e prefetture,
escogitando sempre nuovi stratagemmi per alleggerire i cittadini delle loro
sostanze, facendole confluire nel suo tesoro privato; ma lo fa con abili
pretesti, in modo da conferire una qualche apparenza di giustizia anche alla
peggiore iniquità. E per conquistare comunque le simpatie popolari, aggiunge
qualche parola di adulazione. Immaginate un uomo, come se ne vedono a volte,
ignaro delle leggi, quasi nemico del pubblico bene, tutto preso dai suoi
interessi privati, dedito ai piaceri, con un’autentica avversione per la
cultura, la libertà e la verità, che non si cura minimamente della salvezza
dello Stato, che adotta come unità di misura le proprie voglie e il proprio
tornaconto; mettetegli al collo una collana d’oro, simbolo della presenza in
lui di tutte le virtù riunite; mettetegli in testa una corona ornata di gemme
che lo richiami al suo dovere di superare gli altri in tutte le virtù eroiche;
dategli lo scettro che simboleggia la giustizia e la cristallina purezza dell’animo,
e infine la porpora a significare il suo straordinario amore per lo Stato. Se
un sovrano paragonasse questi ornamenti simbolici col suo genere di vita, credo
che finirebbe col provare solo vergogna della sua pompa, e col temere che
qualche critico salace si prendesse gioco di lui volgendo in beffa questo apparato
scenico.
E che dire
dei cortigiani? Benché nulla vi sia di più strisciante, di più servile, di più
sciocco, di più spregevole di loro, vogliono tuttavia essere ovunque al primo posto.
Portano addosso oro, gemme e porpora senza curasi di praticare le virtù che tali
ornamenti simboleggiano. Si ritengono molto fortunati perché possono rivolgersi
al sovrano coi titoli onorifici di Serenità, Maestà e Magnificenza e perché
riescono a non vergognarsi nel passare la vita ad adulare. Dormono fino a
mezzogiorno, mentre un pretonzolo stipendiato aspetta accanto al letto per
celebrare la messa alla svelta quando ancora sonnecchiano. Poi la colazione e,
a mala pena essa è terminata, è già ora di pranzo. Dopo pranzo i dadi, gli
scacchi, le lotterie, i buffoni, i parassiti, le cortigiane, i giochi, le
insulsaggini. Nel frattempo un alternarsi di merende. Di nuovo a tavola, si
cena; a questa seguono i brindisi. E così, senz’ombra di noia, passano le ore,
i giorni, i mesi, gli anni, i secoli. Perfino a me, quando li osservo, danno il
voltastomaco.
XXXVII
… E DEI VESCOVI E DEI CARDINALI…
Già
da un pezzo i sommi pontefici, i cardinali e i vescovi hanno preso con impegno
a modello il genere di vita dei sovrani, e con impegno forse maggiore. Certo,
se uno riflettesse sul significato della candida veste di lino, simbolo d’una
vita senza macchia; e pensasse a quello della mitra a due punte riunite in un
solo nodo, a indicare una perfetta conoscenza del Vecchio e del Nuovo Testamento;
o delle mani coperte dai guanti, segno della purezza con cui vengono
somministrati i sacramenti; se si chiedesse che vuol dire il pastorale, simbolo
della cura estrema con cui si veglia sul proprio gregge; che significato ha la
croce, che precede indicando la vittoria su tutte le umane passioni; se, dico,
uno riflettesse a queste cose, e a molte altre del genere, che vita sarebbe la
sua, piena di malinconie e di affanni! Bene fanno quelli che pensano soltanto a
ingozzarsi, e la cura del gregge, o la rimettono a Cristo medesimo, o la
scaricano su coloro che chiamano fratelli o vicari. Del significato del loro
nome di vescovi neppure si ricordano: vescovo vuol dire fatica, preoccupazione,
sollecita premura. Vescovi sono sul serio nell’arraffare quattrini: in questo
la loro vigilanza è tutta occhi.
Altrettanto
dicasi dei cardinali, che dovrebbero ricordarsi che sono i successori degli
Apostoli, e che da loro si esigono le stesse opere: non padroni, ma amministratori
dei beni spirituali, di cui tra breve dovranno rendere conto con la massima
precisione. Riflettessero un po’ anche al loro paludamento e si chiedessero:
che significa il candore della cotta se non estrema e rara purezza di vita? Che
cosa la porpora che la cotta ricopre, se non ardentissimo amore di Dio? Che
cosa l’ampio mantello con le sue pieghe fluenti, se non la carità che ovunque
si diffonde per venire in aiuto a tutti, cioè per insegnare, esortare,
consolare, ammonire, risolvere i conflitti e per opporsi ai sovrani malvagi?
Non significa il generoso sacrificio, non solo delle proprie ricchezze, ma
anche del proprio sangue, per amore del gregge? A che scopo le ricchezze, se i
cardinali fanno le veci degli Apostoli, che erano poveri? Se riflettessero su
queste cose, dico, terrebbero poco alla carica: deporla sarebbe un piacere;
oppure si sobbarcherebbero una vita tutta presa da cure travagliate, alla
maniera degli antichi Apostoli.
XXXVIII
…
E DEI SOMMI PONTEFICI
Se
i sommi pontefici, che fanno le veci di Cristo, si sforzassero d’imitare la
vita di lui, cioè la povertà, le fatiche, la dottrina, la croce, il disprezzo
del mondo; se riflettessero al nome di «papa», che significa «padre», e alla
qualifica di «santità», sarebbero gli uomini più infelici della terra. Chi mai spenderebbe tanto per comprarsi quel
posto da difendere poi con la spada, col veleno, con tutte le forze? A quanti
vantaggi dovrebbero dire addio, se avessero solo un barlume di saviezza? Addio
a tante ricchezze, a tanti onori, e a tanto potere, a tante vittorie, a tante
cariche, a tante dispense, a tante imposte, a tante indulgenze, e a tanti
cavalli, muli, servi e piaceri. Al loro posto veglie, digiuni, lacrime,
preghiere, prediche, studio, sospiri e mille gravose occupazioni del genere. E,
particolare non trascurabile, sarebbero ridotti alla fame tanti scrivani,
copisti, notai, avvocati, promotori, segretari, mulattieri, palafrenieri,
banchieri, ruffiani e … mi fermo qui per non offendere le orecchie più delicate.
Col mio
aiuto, non c’è quasi nessuno che più di loro faccia, in perfetta tranquillità,
una gran bella vita; convinti di avere assolto in pieno i doveri verso Cristo,
se adempiono alla loro funzione di vescovi con un apparato rituale che ha
movenze da palcoscenico, con cerimoniali e profusione di titoli (beatitudine,
reverenza, santità) e benedizioni e anatemi. Non si usa più far miracoli: roba
d’altri tempi. Insegnare ai fedeli è faticoso; interpretare le Sacre Scritture
è lavoro da farsi a scuola; pregare è una perdita di tempo; spargere lacrime è
umiliante e femmineo; vivere in povertà è spregevole. Turpe la sconfitta e
indegna di chi, a mala pena, ammette il re al bacio della sacra pantofola.
Infine, spiacevole la morte, e infamante la morte sulla croce.
Rimangono
solo le armi di cui fanno uso con tanta larghezza: interdetti, sospensioni,
condanne aggravate, anatemi, esposizione di ritratti a titolo di vergogna, e
quella tremenda folgore con cui, a un cenno del capo, mandano le anime dei mortali
all’inferno e oltre. Di quella folgore, i santissimi vicari di Cristo, si
servono col massimo della violenza, soprattutto contro coloro che, per
diabolico impulso, tentano di rimpicciolire e rosicchiare il patrimonio di
Pietro. Benché le parole dell’Apostolo nel Vangelo siano: «Abbiamo abbandonato
tutto e ti abbiamo seguito», essi identificano il patrimonio di Pietro con i
campi, le città, i tributi, i dazi, il potere. E mentre, accesi dall’amore di
Cristo, combattono per queste cose col ferro e col fuoco, non senza grandissimo
spargimento di sangue cristiano, credono di difendere apostolicamente la Chiesa , sposa di Cristo, annientando
da valorosi quelli che chiamano nemici. Come se la Chiesa avesse nemici
peggiori dei pontefici empi. Di Cristo non fanno parola. Fosse per loro,
svanirebbe nell’oblio. Legiferando all’insegna dell’avidità, lo mettono in
catene; con le loro interpretazioni forzate ne alterano l’insegnamento; coi
loro turpi costumi lo crocifiggono di nuovo.
Poiché la Chiesa cristiana è stata
fondata, rafforzata e ingrandita col sangue, ora, come se Cristo fosse morto
lasciando i fedeli senza una protezione conforme alla sua legge, governano con
la spada, e, pur essendo la guerra una cosa tanto crudele da convenire alle
belve più che agli uomini, così rovinosa da portare con sé la totale corruzione
dei costumi, tanto ingiusta da offrire ai peggiori predoni la migliore occasione
di affermarsi, tanto empia da non avere nulla in comune con Cristo, tuttavia,
trascurando tutto il resto, fanno solo la guerra. Si possono vedere vecchi decrepiti
che, inalberando un vigoroso spirito giovanile, non si sgomentano davanti alle
spese, non cedono alle fatiche, non indietreggiano di un pollice se si trovano
a mettere a soqquadro le leggi, la religione, la pace, l’intero genere umano.
Né mancano colti adulatori, pronti a chiamare questa evidente follia zelo,
pietà e fortezza, escogitando stratagemmi che permettono d’impugnare il ferro
mortale e di immergerlo nelle viscere del fratello senza venir meno a quella
suprema carità che secondo il dettato di Cristo un cristiano deve al suo
prossimo.
XXXIX
IL
CATTIVO ESEMPIO DEI VESCOVI TEDESCHI
Una
cosa, continuo a chiedermi: sono stati i papi a dare l’esempio o invece si sono
ispirati a quello di certi vescovi tedeschi che, tralasciando il culto, le benedizioni
e altre cerimonie del genere, si comportano da satrapi, fino a considerare una
specie di debolezza, e senz’altro una vergogna per un vescovo, rendere la
valorosa anima a Dio in un luogo diverso dal campo di battaglia?
Ma ormai la
massa dei sacerdoti, considerando peccaminoso non imitare il bell’esempio dei
presuli, levano il grido di guerra e si danno a combattere per le dovute decime
con spade, frecce, sassi, e armi di ogni specie! E quale accortezza nel tirar
fuori da vecchi documenti qualcosa con cui impaurire il popolino e convincerlo
che il suo debito va al di là delle decime! Né intanto ai sacerdoti vengono in
mente i molti doveri che hanno verso il popolo. Nemmeno la tonsura basta come
monito: hanno dimenticato che il sacerdote, libero da tutti gli appetiti del
mondo, deve pensare soltanto alle cose del cielo. Non vi sembrano strani?
C’è un
punto, però, che i sacerdoti hanno in comune coi laici: entrambi attentissimi
ad accumulare guadagni, sanno sempre come fare. Se c’è un peso da portare, prudentemente
lo caricano sulle spalle altrui. I sacerdoti secolari, come se appartenessero
al mondo più che a Cristo, caricano il fardello sul clero regolare; il clero regolare
sui monaci; i monaci di meno stretta osservanza su quelli di osservanza più
rigida; gli uni e gli altri sui mendicanti, e i mendicanti sui certosini, i
soli presso cui si nasconde la pietà, ma nascosta così bene che a mala pena si
può scorgerla.
Così fanno
anche i pontefici: diligentissimi nel rastrellare soldi, affidano ai vescovi i gravami
più strettamente apostolici; i vescovi li affidano ai parroci; i parroci ai
vicari; i vicari ai frati mendicanti che, a loro volta, li rimandano a coloro
che tosano la lana delle pecore.
XL
MA
IL COMPITO DELLA FOLLIA NON È LA SATIRA ANTICLERICALE, BENSÌ LA DESCRIZIONE
DELLA REALTÀ
Ma
non vorrei avere l’aria di comporre una satira anticlericale. Sto semplicemente
pronunciando il mio elogio. Né intendo, elogiando i cattivi, biasimare i buoni.
Voglio solo sia chiaro che in questo mondo non si può vivere felicemente se non
si gode del mio favore.
Tornando al
tema, mi sembra evidente che la fortuna aiuta gli audaci, mentre la saggezza
rende timidi. Infatti potete constatare che i sapienti combattono con la
povertà e la fame. Vivono dimenticati e senza prestigio, mentre gli stolti
prosperano. Infatti, se si ripone la felicità nel godere del favore del
sovrano, nell’orbitare attorno a questo
mio seguace ingioiellato come una divinità, che c’è di più inutile della
sapienza? Se uno vuole arricchirsi col commercio, che se ne fa della sapienza?
Se venisse colto dagli scrupoli dei sapienti nei confronti del latrocinio e
dell’usura, sarebbe rovinato. Se uno desidera onori o benefici ecclesiastici,
meglio che si comporti come un asino o un bue che come un sapiente. Se uno
cerca il piacere, deve tener conto che le fanciulle (che tra le mie seguaci
occupano il posto d’onore) si danno con entusiasmo agli stolti, mentre hanno
orrore del sapiente e lo evitano come fosse un animale velenoso. Vale a dire
che chi vuole una vita abbastanza lieta comincia con l’evitare la saggezza.
Insomma, dovunque ti giri, se vuoi ottenere qualcosa da pontefici, sovrani,
giudici, magistrati e altri potenti di ogni genere, devi presentarti col denaro
in mano. Ma il sapiente disprezza il danaro, e perciò, di solito, lo si evita.
XLI
TESTIMONIANZE
A MIO FAVORE
E
ora, benché gli argomenti a favore del mio elogio siano inesauribili, devo avviarmi
alla conclusione. Ma non senza prima aver dimostrato, con poche parole, che non
sono mancate grandi autorità a glorificarmi, sia con gli scritti che con le
azioni. Così nessuno potrà sospettare che io sia sola a compiacermi di me
stessa, e i legulei non mi potranno accusare di non produrre documenti. Perciò,
prendendo esempio da loro, allegherò le prove, ma senza preoccuparmi che siano
pertinenti.
Cito alcuni
detti famosi. Un saggio ha detto che «quando una cosa manca, ottimo sistema è
fingere che ci sia e un altro saggio che fingersi folli a tempo e luogo è somma
sapienza». Potete rendervi conto di quale gran dono sia la follia, se anche la
sua sola imitazione è raccomandata dai saggi. Con franchezza anche maggiore un
famoso filosofo consiglia di «mescolare la follia alla saggezza, ma», aggiunge,
«solo per poco»: e qui si sbaglia. Dice altrove: «Bella cosa folleggiare a
tempo e luogo». Già in Omero, Telemaco, che pure il poeta elogia, è detto a più
riprese privo di senno, e spesso e volentieri gli autori di tragedie presentano
come dissennati, quasi fosse una qualità positiva, fanciulli e adolescenti. E
di che ci parla il divino poema dell’Iliade? Esclusivamente di re folli e di popoli
folli. E quale lode più alta del detto ciceroniano che «tutto il mondo è pieno
di pazzi»? Chi non sa che qualsiasi bene, a quanti più si estende, tanto più
vale?
Ma forse
per i cristiani l’autorità di costoro non ha gran peso. Perciò, se credete,
possiamo appoggiarsi alla Sacra Scrittura, non senza chiedere il permesso ai
teologi. Nell’avventurarmi sul sentiero spinoso della teologia, vorrei che mi venisse in soccorso l’anima
di Duns Scoto, spinosa più di un porcospino, e
dalla Sorbona si trasferisse per un po’ nel mio petto, per poi migrare
dove preferisce, magari nel corpo di un corvo. Volesse il cielo che potessi
mutare aspetto e comparire nelle vesti del teologo! Temo invece che dovrò
cavarmela da sola col rischio di passare per ladra, come se avessi saccheggiato
i tesori dei maestri. Ma che c’è da stupirsi, se nella mia lunga e intima
consuetudine con i teologi, ho imparato qualcosa?
Scrive l’Ecclesiaste
che «infinito è il numero degli stolti». E, parlando di numero infinito, non
sembra forse intendere tutti gli uomini, a eccezione di pochissimi che
probabilmente nessuno ha mai visto? Con più chiarezza si esprime Geremia, quando
dice che «ogni uomo è reso stolto dalla sua sapienza». Egli attribuisce la
sapienza soltanto a Dio, e lascia la stoltezza a tutti gli uomini. E dice
anche: «L’uomo non riponga nella sapienza il suo vanto». Ma perché, ottimo
Geremia, non vuoi che l’uomo riponga nella sapienza il suo vanto? Evidentemente
perché l’uomo non ha la sapienza.
Con ciò si
accorda quanto Cristo stesso nega nel Vangelo: che qualcuno possa chiamarsi
buono, eccetto Dio. Se è stolto chiunque non è sapiente, e se chi è buono,
stando agli Stoici, è anche sapiente, la stoltezza, di necessità, è retaggio di
tutti gli uomini. Si legge ancora nel capitolo quindicesimo di Salomone: «Lo
stolto si bea della sua stoltezza»; e con questo chiaramente si ammette che
senza la stoltezza la vita non ha nulla da offrire.
Alla stessa
conclusione approda l’Ecclesiaste quando dice: «Chi più sa, più soffre; chi più
conosce, più spesso s’indigna». La stessa cosa quell’eccelso predicatore riconosce
apertamente quando dice: «Nel cuore dei sapienti il dolore; nei cuori degli
stolti la gioia».
Se ancora
prestate poca fede a me, leggete queste altre parole dell’Ecclesiaste: «Volsi
il mio cuore ad apprendere la saggezza e la scienza, gli errori e la follia». E
qui va notato che l’essere collocata all’ultimo posto torna a lode della
follia, infatti, secondo il dettato evangelico, chi è primo per dignità deve
occupare l’ultimo posto.
Ma perché
mi affanno tanto con le citazioni della Sacra Scrittura, tutti sanno che i
teologi hanno il diritto di manipolarla, tirandola come un elastico.
E ora
veniamo a san Paolo, che, parlando di sé, dice: «Voi sopportate di buon grado i
folli». E ancora: «Accettatemi come un folle». E poi: «Non parlo ispirato da
Dio, ma quasi come un folle». E altrove, di nuovo: «Siamo folli a cagione di
Cristo». Avete sentito quali elogi della follia e da quale pulpito! E che
diremo di quel suo raccomandare la stoltezza quale fonte per eccellenza
necessaria in vista della salvezza? «Chi di voi sembra sapiente, divenga stolto
per essere sapiente».
In Luca
Gesù chiama «stolti» i due discepoli cui si era accompagnato per la strada. Non
so se ci si debba meravigliare, visto che allo stesso Dio, San Paolo attribuisce
un pizzico di follia, dicendo: «La follia di Dio è più saggia del senno degli
uomini». Origene, ovviamente, contesta che questa follia sia suscettibile di
essere tradotta in termini umani, come nell’altro esempio: «La parola della
croce è follia per gli uomini che si perdono».
San Paolo
attesta chiaramente che Dio «sceglie ciò che il mondo considera stolto», e che
«Dio aveva voluto salvare il mondo attraverso la stoltezza», perché attraverso
la saggezza non era possibile. Dio stesso lo rivela con sufficiente chiarezza
quando esclama per bocca del profeta: «Manderò in fumo la sapienza dei sapienti
e condannerò la saggezza dei saggi».
E ancora
quando Gesù ringrazia il Padre celeste perché aveva rivelato ai piccoli, cioè
agli stolti, il mistero della salvezza che aveva celato ai sapienti. In greco,
infatti, il termine per indicare i bambini è infanti (népioi) in contrapposizione ai sapienti (zofói). Nello stesso senso vanno intesi certi motivi ricorrenti nel
Vangelo: Gesù attacca duramente i farisei, gli scribi e i dottori della legge,
non il popolo ignorante. Che altro vogliono infatti dire le parole «guai a voi,
scribi e farisei», se non «guai a voi, sapienti»? Invece il suo rapporto con
bambini, donne, pescatori, pare fosse improntato a perfetta letizia. Anche fra
le bestie Cristo predilige le più lontane dall’astuzia della volpe. Perciò
preferì cavalcare un asino, anche se, volendo, avrebbe potuto senza rischio
cavalcare un leone. Così lo Spirito Santo è sceso dal cielo in sembianza di
colomba, non di aquila o di sparviero. Aggiungasi che Gesù chiama pecore i suoi
discepoli destinati a vivere in eterno. Né c’è animale più stupido di questo.
Tuttavia Cristo si professa pastore di questo gregge; anzi egli stesso si
compiacque di chiamarsi agnello, e Giovanni Battista lo indicò come «l’agnello
di Dio», definizione che ricorre spesso anche nell’Apocalisse.
Di qui una
clamorosa conclusione: i mortali, anche quelli che coltivano sentimenti di
pietà, sono stolti. Lo stesso Cristo, per venire in aiuto all’umana sapienza,
lui che è la sapienza del Padre, si è fatto in qualche modo stolto, quando,
vestite le umane spoglie, si è presentato con sembiante di uomo. Come si è
fatto anche peccato per risanarci dai peccati. Né volle porvi altro rimedio se
non la follia della Croce, valendosi di Apostoli rozzi e ignoranti, cui ebbe
cura di predicare come ottima condizione la stoltezza distogliendoli dalla sapienza
ed esortandoli a seguire l’esempio dei bambini, dei gigli, del grano di senape,
dei passerotti, esseri del tutto privi d’intelligenza, che vivono solo affidandosi
alla natura, senza artifici, senza affanni; e quando proibisce loro di
preoccuparsi della linea da tenere davanti ai giudici e di stare all’erta per
cogliere i momenti opportuni: non devono cioè confidare nella propria saggezza,
ma mettersi totalmente nelle sue mani. Allo stesso principio s’ispira Dio,
architetto del mondo, quando proibisce di assaggiare il frutto dell’albero
della sapienza, quasi che la sapienza fosse il veleno della felicità. San
Paolo, d’altra parte, condanna la scienza apertamente come fonte di presunzione
e di rovina.
Forse c’è
anche un altro argomento che non dovrei tralasciare: la stoltezza trova grazia
presso Dio. Chi implora il perdono, anche se ha peccato con cognizione di
causa, adduce a pretesto la stoltezza.
Così Aronne cerca di stornare dalla moglie la punizione del Signore: «Ti
prego, Signore, non giudicarci colpevoli: abbiamo peccato per mancanza di
discernimento». E anche Saul di fronte a David si discolpa così: «È evidente
che ho agito da sciocco». E David, a sua volta, cerca di propiziarsi il Signore
con queste parole: «Ti prego, Signore, non accusare il tuo servo d’iniquità; ho
agito da sciocco». E c’è una prova di eccezionale efficacia: Cristo in croce,
quando pregò per i suoi nemici, portò come unica scusa l’ignoranza: «Padre,
perdonali perché non sanno quello che fanno». Nello stesso senso san Paolo scriveva
a Timoteo: «Ho ottenuto la misericordia divina perché nella mia incredulità ho
agito per ignoranza». Che vuol dire «ho agito da ignorante», se non che aveva
agito per stoltezza, non per malizia? Che significa «perciò ho ottenuto
misericordia», se non che non l’avrebbe ottenuta se la sua stoltezza non avesse
deposto in suo favore?
Per non
dilungarmi all’infinito cercherò di riassumere per sommi capi. Se la religione
cristiana sembra avere qualche parentela con la follia, con la sapienza non ha
proprio nulla a che fare. Desiderate averne una prova? Guardate in primo luogo
al fatto che bambini, vecchi, donne e anime semplici godono più degli altri
delle funzioni religiose, e perciò, per puro istinto, sono sempre i più vicini agli
altari. Vedete inoltre che i primi fondatori della religione, con mirabile
slancio, scelsero le vie della semplicità, mentre furono nemici acerrimi delle
lettere.
Infine non
c’è folle più folle di chi, preso completamente dalla carità cristiana, dona i
suoi beni ai poveri, perdona le offese, tollera gli inganni, non fa distinzione
tra amici e nemici, ha orrore del piacere, si nutre di veglie, digiuni, lacrime e fatiche, si stacca dalla vita
e desidera solo la morte. In altri termini,
si comporta come il suo spirito vivesse fuori del corpo. Questa non è follia?
Non dobbiamo perciò meravigliarci se gli Apostoli sembrarono ubriachi e se
Paolo sembrò pazzo al giudice Festo.
Visto che
mi ci sono messa d’impegno, andrò ancora più in là. Quella beatitudine che i
cristiani cercano di conquistare a così caro prezzo, altro non è se non una
forma di follia. Non badate alle parole, considerate i fatti. C’è un punto di
contatto fra cristiani e platonici: entrambi ritengono che l’anima, irretita
nei vincoli del corpo, trovi in esso un ostacolo alla contemplazione del vero.
Perciò Platone definisce la filosofia una meditazione sulla morte, perché, a
somiglianza della morte, distoglie la mente dalle cose materiali. Perciò,
finché l’anima fa buon uso degli organi del corpo, viene detta sana; ma quando,
spezzati i vincoli, tenta d’affermarsi in piena libertà, quasi meditando una
fuga dal carcere corporeo, allora si parla di follia. Se la cosa accade per
malattia, allora è pazzia conclamata. Tuttavia vediamo che anche i pazzi
predicono il futuro e parlano lingue che non conoscono, attingendo decisamente
al divino.
Non c’è
dubbio: ciò accade perché la mente, libera in parte dall’influenza del corpo,
comincia a sprigionare la sua forza nativa. Credo che per la stessa ragione qualcosa
di simile accada nel travaglio della morte imminente: gli agonizzanti, come ispirati,
parlano un linguaggio profetico.
Se ciò
accade nell’ardore della fede, si tratta forse di un altro genere di follia, ma
così vicina alla ordinaria follia che molta gente la giudica pazzia pura; anche
perché riguarda pochi soggetti ai margini dell’umano consorzio. Come avviene
nel mito platonico, dove i prigionieri incatenati in fondo alla caverna vedono
le ombre delle cose; ma il prigioniero che, fuggito di là, ritorna nella
caverna, dice agli altri di aver contemplato le cose reali e che loro s’ingannano,
convinti come sono che nient’altro esista se non delle misere ombre. E i
prigionieri ridono di lui come se delirasse e lo cacciano via. Allo stesso modo
il volgo ammira soprattutto le cose in cui la materia prevale, e quasi crede
che siano le sole a esistere. Chi pratica la religione, invece, quanto più una
cosa è attinente al corpo tanto più la trascura ed è tutto preso dalla
contemplazione dell’invisibile. Gli uni mettono al primo posto le ricchezze e
le comodità, all’ultimo l’anima che, peraltro, i più neanche credono esista
perché l’occhio non può vederla. Gli altri, invece, tendono in primo luogo con
tutte le loro forze a Dio, il più semplice degli esseri, e, in secondo luogo,
all’anima, che è vicina a Dio più di qualsiasi altra cosa. Trascurano la cura
del corpo, disprezzano le ricchezze e ne rifuggono come da cosa immonda. Se poi
non possono esimersi dall’occuparsene, ne sentono il peso e la noia;
posseggono, ed è come se non possedessero. Ma bisogna fare delle distinzioni.
Prima di tutto, benché tutti i sensi abbiano un legame col corpo, alcuni sono
più corporali, come il tatto, l’udito, la vista, l’olfatto e il gusto; altri
meno corporali, come la memoria, l’intelletto, la volontà.
Le persone
religiose, poiché sono rivolte con tutto l’animo alle cose lontane dai sensi,
diventano indifferenti alla cose materiali.
Ma anche
fra le passioni dell’anima alcune sono più legate agli aspetti carnali del
corpo, come l’impulso sessuale, il bisogno di cibo e di sonno, l’ira, la
superbia, l’invidia: chi coltiva sentimenti di pietà le respinge, mentre gli
altri ne fanno ragioni di vita. Vi sono poi dei sentimenti intermedi, quasi
naturali, come l’amore di patria, l’affetto per i figli, per i genitori, per
gli amici. Il volgo ne riconosce in qualche misura l’importanza, ma quanti
vivono secondo pietà cercano di sradicare dall’animo anche questi sentimenti
per amare il Creatore di tutte le cose, unico a meritare di essere amato e
desiderato.
Con lo
stesso criterio giudicano di tutti i doveri, tenendo l’invisibile in maggior
conto del visibile. Dicono che anche nei sacramenti e nelle pratiche religiose
si possono distinguere corpo e spirito. Per esempio, nel digiuno, non danno
valore all’astinenza dal cibo se non si accompagni al controllo delle passioni.
Altrettanto dicasi dell’Eucaristia. L’aspetto rituale non basta, anzi è
dannoso, se manca l’elemento spirituale, se cioè non viene còlto il contenuto
di quei segni visibili. Se si rappresenta la morte di Cristo, si deve
parteciparvi seppellendo le passioni per risorgere a nuova vita, per sentirsi
in comunione con lui.
Il volgo,
al contrario, crede che il sacrificio sia tutto nello stare quanto più è possibile
accanto agli altari, ascoltando il rumore delle parole e badando ad altre quisquilie
relative al rito.
L’uomo pio
rifugge, in ogni occasione, da ciò che è legato al corpo, essendo tutto preso
dall’eterno, dall’invisibile, dalla realtà spirituale. Perciò, dato il loro
radicale disaccordo su tutto, accade che uomini di pietà e volgo si prendano
per matti a vicenda. Ma, secondo me, l’appellativo di matto si addice piuttosto
alla gente pia che non al volgo. E ciò risulterà più chiaro se riuscirò a
dimostrare che la pietà religiosa altro non è se non una forma di follia.
Già Platone
accennò a qualcosa di simile quando scrisse che il delirio degli amanti è il
più felice di tutti. Infatti chi ama ardentemente non vive in se stesso, ma in
colui che ama, e quanto più si allontana da sé e si trasferisce in lui tanto
più è felice. E quando l’animo esce dal corpo e non fa uso normale degli organi
del corpo, si può parlare a buon diritto di delirio. Altrimenti che cosa
vogliono dire le comuni espressioni: «non è in sé», o anche «è tornato in se
stesso»? D’altra parte quanto più è perfetto l’amore, tanto più è grande e
beato il delirio. Quale sarà dunque quella vita celeste cui anelano le anime
pie? Lo spirito, che è il più forte, sarà vittorioso, e assorbirà il corpo
tanto più facilmente perché già in vita lo avrà mortificato e indebolito in
vista di una simile trasformazione. Poi sarà a sua volta mirabilmente assorbito
da quella somma Mente la cui potenza è infinitamente superiore. A questo punto
l’uomo sarà interamente fuori di sé, e solo per questo felice, perché, essendo
fuori di sé, subirà non so quale ineffabile influsso di quel sommo Bene che
tutto trae a sé.
Anche se
questa felicità sarà perfetta solo quando le anime, ripresa l’antica veste
corporea, riceveranno il dono dell’immortalità,
gli uomini pii, dato che la loro vita è tutta una meditazione di quella
vita immortale, e quasi una sua immagine, possono talvolta pregustare qualcosa,
una sorta di anticipazione di quel premio. Si tratta di una goccia da niente in
confronto a quella fontana di eterna felicità, ma che vale molto di più di
tutti i piaceri corporei, anche se potessimo farli convergere tutti in un punto
solo. A tal punto la sfera dello spirito è superiore al corpo, e quella dell’invisibile
al visibile. Questa certo è la promessa del Profeta: «L’occhio non vide, l’orecchio
non udì, non penetrarono nel cuore dell’uomo le cose che Dio ha preparato per
coloro che lo amano». Questa è la parte della follia che il passaggio da una
vita all’altra non toglie, ma porta a perfezione. Quelli che hanno potuto parteciparne
- pochissimi invero - sono còlti da un turbamento che alla follia è vicinissimo;
fanno discorsi incoerenti, proferendo parole strane e senza senso; e poi, all’improvviso,
mutano completamente d’espressione. Ora alacri, ora depressi; ora piangono, ora
ridono, ora sospirano; insomma sono davvero del tutto fuori di sé. Appena
rientrano in se stessi dicono di non sapere dove sono stati, se nel corpo o
fuori del corpo; di ignorare se erano svegli o addormentati; di non sapere che
cosa hanno udito, che cosa hanno detto, che cosa hanno fatto; hanno solo dei
ricordi che sembrano filtrare attraverso il velo della nebbia o del sogno. Una
sola cosa sanno: di essere stati al colmo della beatitudine quando erano in
quello stato. Perciò piangono per essere tornati in senno, e soprattutto
desiderano di essere in eterno in preda a quel genere di follia. Hanno appena
pregustato la felicità futura!
Congedo
Mi sono lasciata
andare e ho passato da un pezzo i limiti. tuttavia, se vi pare che abbia esagerato,
tenete conto che chi vi ha parlato è la Follia, e che essa è donna. e
ricordate il detto greco che «spesso
anche un pazzo parla a proposito»; a meno che non riteniate che il proverbio
non possa estendersi alle donne.
Vedo che
aspettate una conclusione. Ma siete proprio ingenui se credete che dopo essermi
abbandonata a un tale diluvio di
chiacchiere, io mi ricordi ancora di ciò che ho detto. «Odio il convitato che
ha buona memoria», recita un vecchio proverbio. Perciò addio! Applaudite e
spassatevela, cari seguaci della Follia.
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